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Notiziario Marketpress di Lunedì 23 Giugno 2014
 
   
  GIUSTIZIA EUROPEA: UNA DONNA CHE SMETTA DI LAVORARE O DI CERCARE UN IMPIEGO A CAUSA DELLE LIMITAZIONI FISICHE COLLEGATE ALLE ULTIME FASI DELLA GRAVIDANZA E AL PERIODO SUCCESSIVO AL PARTO PUÒ CONSERVARE LO STATUS DI «LAVORATORE»

 
   
  Lussemburgo, 23 giugno 2014 -Nel Regno Unito, l’indennità integrativa del reddito (income support) è una prestazione che può essere concessa a talune categorie di persone in cui reddito non superi un determinato importo. Le donne incinte o le puerpere, in particolare, possono richiedere tale prestazione nel periodo intorno al parto. Tuttavia, le «persone provenienti dall’estero» (ossia i richiedenti che non risiedono abitualmente nel Regno Unito) non hanno diritto a tale prestazione, a meno che esse non abbiano acquisito lo status di lavoratore ai sensi della direttiva sul diritto di libera circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione. La sig.Ra Jessy Saint Prix è una cittadina francese giunta il 10 luglio 2006 nel Regno Unito, ove ha lavorato, essenzialmente come insegnante ausiliaria, dal 1° settembre 2006 al 1° agosto 2007. Mentre era in stato di gravidanza, la sig.Ra Saint Prix ha lavorato, all’inizio del 2008, come interinale presso scuole materne. Il 12 marzo 2008, ormai quasi al sesto mese di gravidanza, ha abbandonato tale impiego in quanto il lavoro, che consisteva nell’occuparsi di bambini piccoli, era diventato troppo faticoso. La richiesta di indennità integrativa del reddito da lei presentata è stata respinta dall’amministrazione britannica, in quanto la sig.Ra Saint Prix aveva perso la qualità di lavoratore. Il 21 agosto 2008, tre mesi dopo la nascita di suo figlio, la signora ha ripreso il lavoro. Chiamata a decidere se la sig.Ra Saint Prix abbia diritto ad un’indennità integrativa del reddito, la Supreme Court of the United Kingdom (Corte suprema del Regno Unito) chiede alla Corte di giustizia se una donna, che smetta di lavorare o di cercare un impiego a causa delle limitazioni fisiche collegate alle ultime fasi della gravidanza e al periodo successivo al parto, rientri nella nozione di «lavoratore» ai sensi del diritto dell’Unione[2]. Nella sua sentenza odierna, la Corte considera che una donna nella situazione della sig.Ra Saint Prix può conservare lo status di «lavoratore». A sostegno del proprio ragionamento, la Corte ricorda che un cittadino dell’Unione che non svolga più attività lavorativa può tuttavia conservare la qualità di lavoratore in taluni casi particolari (inabilità temporanea al lavoro, disoccupazione involontaria o, ancora, formazione professionale)[3]. La Corte rileva che la direttiva sul diritto di libera circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione non elenca in maniera esaustiva le circostanze nelle quali un lavoratore migrante può, nonostante la perdita del suo impiego, continuare a beneficiare dello status di lavoratore. In ogni caso, la direttiva, che mira espressamente ad agevolare l’esercizio del diritto dei cittadini dell’Unione di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, non può, di per sé, limitare la portata della nozione di lavoratore ai sensi del Tfue. Orbene, dalla giurisprudenza della Corte risulta che la qualifica di lavoratore ai sensi del Tfue, nonché i diritti derivanti da un siffatto status, non dipendono necessariamente dall’esistenza o dalla prosecuzione effettiva di un rapporto di lavoro[4]. La circostanza che limitazioni fisiche collegate alle ultime fasi della gravidanza e al periodo immediatamente successivo al parto costringano una donna a cessare di svolgere un’attività subordinata durante il periodo necessario al suo ristabilimento non è pertanto, in linea di principio, idonea a privarla della qualità di «lavoratore». Infatti, la circostanza che quella persona non sia stata effettivamente presente sul mercato del lavoro dello Stato membro ospitante per vari mesi non implica che abbia cessato di far parte di esso durante tale periodo, purché essa riprenda il suo lavoro o trovi un altro impiego entro un termine ragionevole dopo il parto. Se così non fosse, le cittadine dell’Unione sarebbero dissuase dall’esercitare il loro diritto di libera circolazione, poiché rischierebbero di perdere la qualità di lavoratore nello Stato membro ospitante. La Corte precisa che, per determinare se il periodo intercorso tra il parto e la ripresa del lavoro possa essere considerato ragionevole, è compito del giudice nazionale tenere conto di tutte le circostanze specifiche del caso di specie, nonché delle disposizioni nazionali che disciplinano la durata del congedo di maternità.  
   
 

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