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Notiziario Marketpress di Mercoledì 13 Settembre 2006
 
   
  FNSI, CONTRATTO NAZIONALE, PERCHÉ UNO SOLO? LETTERA APERTA DI MAURIZIO ANDRIOLO

 
   
  Bergamo, 13 settembre 2006 – “E’ il momento in cui non basta indignarsi per un atteggiamento degli editori che da due anni negano un contratto. Sostenere le azioni della Fnsi per riportare la controparte al tavolo della trattativa è un dovere, ma anche la dimostrazione che la categoria non vuole farsi sottomettere. Tuttavia il momento contingente non può esimerci dal discutere di noi, del futuro e del Sindacato. A che cosa serve il Sindacato? Secondo me a molto, ma se si dovesse spiegarlo ci sarebbero problemi e non solo semantici. Si apre una nuova stagione per il Sindacato dei giornalisti. Nuova se le nostre intenzioni supereranno le difficoltà contingenti, ma determinanti per il futuro! Intanto, la vicenda contrattuale è apertissima. Due anni senza contratto non potevano non provocare problemi gravi e alla categoria e ai nostri Enti, che tutelano la nostra autonomia. Quando lo firmeremo, è bene sapere che non potrà essere un “buon” contratto. Gli errori sono stati fatti. Il mancato accordo ha, non soltanto, scombussolato la categoria, ha creato fallaci illusioni, ha spalancato la porta a un sindacalismo demagogico, ma ha messo in forse anche la nostra tenuta federale, dove manovre e manovrine, aspirazioni e fallacità hanno fatto spazio alla nascita di grovigli, alleanze e coordinamenti di breve respiro, anelanti alla perpetuazione di poteri autoreferenziali. Si può oggi sfuggire alla preoccupazione di un Sindacato che sia soprattutto il più largamente rappresentativo? Niente affatto, nel momento in cui nostra controparte cerca di spazzare via dalla scena il concetto di giornalismo, frantuma le relazioni industriali. Tuttavia è nostro interesse aprire un dibattito profondo e determinato sulla natura e sul futuro del nostro Sindacato, sul futuro della categoria. Perché il nostro Sindacato fa parte del tessuto culturale del Paese, è forza di democrazia, proprio per questo ha enormi responsabilità. O è democratico e riformista o non è. Ma non per questo non si deve vedere la gravità della “questione sindacale”. Ciò che è’ stato il nostro Sindacato negli anni ’70-’80 è cosa ormai vetusta. Il rapporto di forza, la contrapposizione (ma non sempre e non tranciante) con gli editori è cosa passata. E’ vetero classismo quello di considerare nemici gli “altri”, quelli che non sono con “noi”. La conclusione delle ideologie, dei rapporti interclassisti, la trasformazione del nostro sistema politico, le relazioni tra soggetti diversi, il mutamento del nostro mondo del lavoro; l’irrompere di nuovi soggetti nel mondo del lavoro; il modo diverso di fare i giornali, di fare informazioni (modo buono o no è altra discussione) ha cambiato i rapporti sindacali, il modo di fare Sindacato. Non bastano più presenze, proclami, documenti, comunicati. L’articolazione del nostro mondo del lavoro e i soggetti che si trovano, non sono più classificabili sotto il solo schema del lavoro dipendente o autonomo professionale, men che meno subordinato. Ci sono nuovi bisogni, aspirazioni diverse, un accesso alla professione non burocratico e neppure soltanto accademico. La soggettività dei giornalisti al lavoro è modificata e non omogenea a schemi seccamente collettivi. E come ci si rapporta con il nuovo tipo di Editore nell’era della globalizzazione? E sufficiente arruffare qualche ideuzza politica di ferragosto, di abolizione di un Ordine, per cambiare? Che povertà di idee salottiere. Le imprese sono cambiate; si sono strutturate in forme organizzative, produttive, di responsabilità sociale che nulla hanno a che fare con il nostro “glorioso” passato. E il nostro Sindacato si contenta oggi di coordinamenti, tavole rotonde, statuto d’impresa di memoria slava, controlli tipo consigli anni ’20. Al di là delle note vicende politiche, è indubbio che si è definito un nuovo rapporto del Sindacato con il territorio. Brevemente: al nazionale ciò che è nazionale, alle Regioni ciò che loro spetta!… Quindi livelli diversi di organizzazione per consentire una più ampia partecipazione, perché i bisogni individuali sono diventati primari, mentre spetta al Sindacato coniugare e coordinare i bisogni con i concetti di solidarietà nazionale e di orgoglio di categoria. Ma non basta: il rapporto con il mondo politico, quale esito ha dato? L’entrismo non ha convinto. Ha diviso di più, non ha contribuito all’ampliarsi della sindacalizzazione. Non ha provocato un salto di qualità professionale. Il distacco contrapposto non ha senso. Il rischio è di finire per indirizzarsi verso una sorta di collateralismo velleitario dominato da una vocazione interna alla egemonia. Il Sindacato è certamente un soggetto politico, ma la sua autonomia non deriva solo dagli Enti che lo affiancano e in qualche modo lo garantiscono, bensì da una dialettica paritaria, della distinzione dei ruoli; Sindacato quindi democratico e pluralista, non di maggioranza e minoranze. La democrazia non va d’accordo con un Sindacato unico, particolarmente se esso non sa stimolare la ricchezza del dibattito interno. E non si coniuga democrazia con l’arido principio di maggioranza e minoranza. Forse è tempo di costruire una modulazione sindacale diversa, non monolitica. Oppure pensare a una riforma federale diversa. Una nuova progettualità. Non dobbiamo invocare l’unità, piuttosto dobbiamo verificare con insistenza le convergenze che possono derivare da una pluralità di voci sindacali e dai dissensi. Altrimenti non ci attende altro che il declino. Al di là di come si concluderà l’attuale vicenda, è opportuno comunicare ai giornalisti che, pur mantenendo una cornice nazionale, la via di contratti triennali o biennali che danno più spazio e ruolo alla contrattazione territoriale o aziendale permettono con un maggiore protagonismo degli operatori, una dinamica agile e un’aderenza alle realtà che sono sorte. La parte nazionale mantiene la sua caratteristica solidaristica e professionale. Il “secondo livello” (si fa per dire) deve essere capace di aumentare “l’area di inclusione dei giornalisti esclusi”. Quei giornalisti, oggi già maggioranza nella categoria che sono free lance, collaboratori, precari e che non possono trovare protezione totale in un contratto di lavoro di dimensione nazionale ma che invece potrebbero avere più spazio in una dimensione regionale. Per concludere: le rinunce, i mancati allargamenti del numero degli iscritti, il non crescere, rischia di condurre la categoria ad un diverso modo di vedere i rapporti con gli editori, rapporto più individualistico e persino servile. ” Maurizio Andriolo . .  
   
 

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