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Notiziario Marketpress di
Lunedì 31 Gennaio 2005
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RAPPORTO ITALIA 2005 L’ITALIA ALLA RICERCA DI UN PROGETTO |
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Roma, 28 gennaio 2005 -«Un Paese confuso e abulico, che tentenna sulla strada da intraprendere. Un Paese, – dichiara il Presidente dell’Eurispes Gian Maria Fara – schiacciato sul presente, incapace di proiettarsi nel futuro, di prolungare lo sguardo oltre l’arrangiarsi giornaliero e di lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Un’italia alla ricerca di un progetto». Questa la fotografia del nostro Paese che emerge dal Rapporto Italia 2005, che verrà presentato venerdì 28 gennaio p.V., alle ore 10.30, presso la Sala Conferenze della Biblioteca Nazionale (Roma – Viale Castro Pretorio, 105). Un Rapporto di 1.300 pagine, articolato in sei sezioni tematiche: Competitività, Lavoro, Economia, Democrazia e Istituzioni, Giustizia e Legalità, Società e Costume. «Si assiste al ritorno di pericolose forme di disuguaglianza sociale, economica e culturale, – afferma Fara – la mobilità sociale in senso ascendente e duraturo sembra essersi bloccata mentre appare attiva e sempre più pervasiva quella discendente. Siamo in presenza, per la prima volta nel dopoguerra, di un fenomeno che abbiamo definito di re-flazione, dato dalla successione temporale, nello scenario economico italiano, di elevati tassi di inflazione – che, deliberatamente, sfuggono alla contabilizzazione della statistica ufficiale – e di segnali significativi di recessione, sia dal lato della domanda di beni di consumo e di investimento sia dal lato della produzione di beni e servizi. Tuttavia non mancano nel nostro Paese modelli di vitalità imprenditoriale e territoriale, casi di successo organizzativo, come il Lazio e la Campania, aree di eccellenza produttiva e tecnologica, modelli che attendono soltanto di essere replicati su scala nazionale, soprattutto in quei contesti dove è maggiore la fragilità di carattere sociale ed economico». Un’economia di crinale. Nel periodo 2000-2004, il calo della produzione industriale è stato generalizzato (l’indice generale degli ordinativi totali segna una flessione di 7,9 punti) ed ha investito sia i settori a basso come quelli ad alto valore aggiunto: nel dettaglio, si sono registrati sensibili diminuzioni nei settori pelli e calzature (-15,6 punti), apparecchi elettrici e di precisione (-20,7), mezzi di trasporto (-22,6), mobili (- 6,3). Il sommerso è ormai vicino al 28% del Pil, corrispondente a 302 miliardi di euro. L’evasione fiscale ha raggiunto i 134 miliardi di euro nel 2004 e l’Eurispes stima che arriveranno a circa 145 nel 2005. «Se non si blocca questa spirale perversa - spiega Fara - vi è il rischio di dover assistere ad una profonda trasformazione della nostra società nella quale ad un ristretto ceto di privilegiati si contrapporrà un numero sempre più crescente di quasi poveri. Non si tratta solo di ritarare il livello dei consumi materiali ed immateriali, ma si tratta soprattutto di mettere in discussione la stessa identità sociale, il sistema delle relazioni e dei rapporti, le abitudini di vita della famiglia e dei suoi componenti, la fruizione dell’offerta culturale, la proiezione scolastica e formativa dei figli e anche di modificare l’organizzazione della mobilità e del tempo libero dell’intero nucleo familiare. Le famiglie ed i soggetti dovrebbero accettare l’idea di reinventare un modus vivendi ad un livello qualitativo più basso». Gli italiani: prospettive economiche e giudizio sulle politiche governative. Nel 2005 diminuisce ulteriormente la fiducia dei cittadini rispetto alla situazione economica del Paese: il 54% degli italiani si dichiara infatti fortemente pessimista. La percentuale di intervistati che avvertiva un netto peggioramento dell’economia italiana nel 2003 era pari al 23%, mentre nel 2004 saliva al 48,2%. Sempre per il 2005, si conferma l’esigua percentuale di italiani che avverte un netto miglioramento (0,6%) e aumenta la quota di coloro che ravvisano una condizione di stabilità (il 17,3% contro il 14,4% nel 2004). Diminuiscono, invece, i valori riferiti a coloro che si esprimono per le modalità intermedie: solamente il 2,8% (il 6,8% nel 2004) ravvisa un leggero miglioramento e il 23,5% un leggero peggioramento (il 29,5% nel 2004). «L’andamento dell’inflazione analizzato dall’Istat – precisa Fara – sembra non coincidere con la realtà del nostro Paese, dove aumenta esponenzialmente il credito al consumo e le famiglie si indebitano sempre di più. Il dato circa l’aumento del carovita è incontestabile: quasi la totalità degli intervistati ha avvertito un aumento dei prezzi nel corso del 2004 (96,7%) e la tendenza è confermata nel primo periodo del 2005 (85,6%). Anche se il confronto evidenzia una maggiore stabilità nel 2005: nell’11% dei casi i prezzi sono rimasti invariati (il 2,8% nell’anno precedente) e nel 2,6% c’è stata addirittura una diminuzione (lo 0,2% in passato)». Nello specifico, tra il 2004 e il 2005, è aumentato il numero di coloro che hanno avvertito un leggero aumento dei prezzi (dal 7,9% al 14,2%), mentre è diminuita sia la quota di chi ha percepito un elevato aumento (il 29,4% contro il 31,7% dello scorso anno) sia di chi dichiara un eccessivo aumento dei prezzi (il 43,8% contro il 59,1%). Dopo un periodo di vera e propria stretta ai consumatori, i commercianti sembrano aver allentato la morsa anche perché la riduzione dei consumi per alcuni comparti di spesa ha modificato le abitudini dei consumatori che si sono orientati verso la grande distribuzione, causando danni irreversibili ad alcuni piccoli esercizi commerciali I giudizi circa la politica economica del Governo confermano principalmente un sentimento di delusione nell’elettorato. Quasi due italiani su tre, ben il 64,6% giudica la politica italiana fallimentare, densa di promesse non mantenute e non corrispondente ai reali bisogni del Paese. Diffusa l’opinione che i punti previsti nel programma elettorale non sono stati realizzati e che la politica economica del Governo è stata fallimentare nel 2004 e non migliora nel 2005 (rispettivamente il 44,6% e il 40,6%). Inoltre, circa un cittadino su quattro (24%) ritiene l’attuale politica non corrispondente ai reali bisogni del Paese. I pareri positivi appaiono in netto decremento rispetto all’anno precedente: solo l’11,4% (contro il 17,8% del 2004) afferma che l’impostazione politica dell’esecutivo è appropriata e che gli effetti saranno tangibili nel lungo periodo; il 7,5% (il 7,4% nel 2004) si pronuncia per la piena soddisfazione delle scelte effettuate dal Governo. L’analisi dei dati relativi al 2004 e del trend registrato nel primo periodo del 2005 in riferimento alla dicotomia fiducia-sfiducia evidenzia come nell’anno in corso ben il 70% dei cittadini, contro il 51,7% del 2004, si dichiara scettico per quanto riguarda la capacità del Governo di risanare i conti pubblici. Molto elevata inoltre la percentuale di sfiduciati nella possibilità che il Governo realizzi una equa riforma delle pensioni (il 67% nel 2005 contro il 51,7% del 2004) e nella capacità di combattere la disoccupazione (nel 2005 i non fiduciosi sono il 68,4%). La fiducia nelle Istituzioni. Gli intervistati che affermano di riporre fiducia nel Presidente della Repubblica sono l’1% in meno rispetto al 2004 (79% contro 80%); la percentuale relativa alla fiducia nel Parlamento ammontava nel 2004 al 36,5%, cioè poco più del 34% registrato quest’anno, e quella relativa alla fiducia nel Governo è scesa impercettibilmente dal 33,6% del 2004 al 32,9% del 2005. Una differenza significativa riguarda la Magistratura: i fiduciosi nel 2004 erano il 52,4%, quindi la maggioranza, mentre nel 2005 sono solo il 44%. Anche la fiducia nelle Forze dell’ordine risulta diminuita dal 2004 al 2005: se quest’anno il 73,2% del campione si dice fiducioso nelle Forze dell’ordine in generale, un anno fa gli intervistati erano nell’84,2% dei casi fiduciosi nei Carabinieri, nell’81,2% fiduciosi nella Polizia, nel 72,3% nella Guardia di Finanza. Anche la quota di chi dice di fidarsi della Chiesa e delle altre Istituzioni religiose è diminuita: 62,8% contro 68,3% dello scorso anno. Nel 2004 il 32,1% del campione affermava di riporre fiducia nei Sindacati, mentre nel 2005 la percentuale è scesa al 22,8%. Analoga la flessione di fiducia riscontrata nei confronti della Pubblica amministrazione: dal 28,7% al 22,8%. La già bassa percentuale di intervistati che si fidavano dei partiti nel 2004 (13,6%) si è ulteriormente ridotta nell’ultimo anno registrando uno sconfortante 8,8%. Le paure degli italiani. Nel 2005, il costo della vita si conferma in cima alla graduatoria dei problemi che affliggono gli italiani (il 27,4% contro il 24,6% del 2004), seguito dal terrorismo internazionale che registra una percentuale quasi dimezzata rispetto all’anno precedente (il 14,5% contro il 23,1%). Allo stesso tempo, il timore di perdere il proprio lavoro e la paura della criminalità organizzata suscitano un’ansia crescente tra gli italiani (oggi entrambe le voci sono al 12,7% e nel 2004 erano intorno all’8%). Il pericolo che il proprio diritto alla salute possa essere, in qualche modo, leso continua a destare ansia (10,6% nel 2005 e 10,3% nel 2004). Gli squilibri nella distribuzione del reddito in Italia: un modello americanizzato? Il moltiplicarsi dei fattori di rischio e di incertezza rende ancora più pesante la situazione di disagio sociale ed economico di una quota consistente di nuclei familiari. L’eurispes ha calcolato che oltre 4 milioni 700mila famiglie italiane (circa il 22% delle famiglie totali) e oltre 14 milioni di individui siano sicuramente poveri o quasi poveri. Nella “società del rischio” è possibile individuare un nuovo attributo per la povertà, ossia “fluttuante”, volendo indicare con questo temine una precaria condizione socio-economica culturale e assistenziale (non “relativa” o “assoluta” secondo le definizioni metodologiche più in uso ma, appunto, variabile, temporanea, talvolta occasionale) che riguarda individui o nuclei familiari che si trovano all’interno di una magmatica area di esclusione-inclusione sociale e che rapidamente possono “fluttuare”, appunto, all’interno di fasce di reddito e di condizione sociale contigue. Basta osservare la distribuzione delle famiglie italiane per classi di reddito: il 32,1% delle famiglie (6.933.100 nuclei) ha un reddito inferiore a 17.500 euro; il 18,5% (3.998.000 nuclei) appartiene alla classe di reddito compresa tra i 17.500 e i 25.000 euro; il 19,5% (4.212.000 nuclei) ha un reddito tra i 25.000 e i 35.000 euro; infine, il 29,9% ovvero 6.447.000 famiglie ha un reddito superiore ai 35.000 euro. La perdita del potere di acquisto delle retribuzioni. Nel periodo 2001-2004, la perdita di potere d’acquisto delle retribuzioni, a causa dell’inflazione e dell’effetto fiscal drag, è stata pari al 23,9% per gli impiegati, al 20,4% per gli operai, al 19,5% per i dirigenti e al 17,6% per i quadri. «Questa è la società dei tre terzi – ribadisce Fara – della quale abbiamo sempre parlato, dove un terzo vive all’interno di una zona di sicuro disagio sociale e indigenza economica, un terzo appare assolutamente garantito e la fascia centrale (i ceti medi) vive in una condizione di instabilità e di precarietà. Proprio all’interno dei ceti medi si manifesta in forme sempre più evidenti il fenomeno della “povertà fluttuante”. La povertà in giacca e cravatta è una delle tante nuove declinazioni possibili del disagio e della povertà sociale, un ulteriore segnale della profonda distanza che si è affermata nel Paese tra la realtà e chi avrebbe il compito di interpretarla. Se la situazione economica non migliorerà, si assisterà ad una nuova stagione di rivendicazioni e di proteste difficilmente governabili». Giovani sull’orlo di una crisi di nervi: quale flessibilità? Circa la metà della nuova occupazione, in gran parte giovanile, è atipica e per la prima volta nel nostro Paese i nuovi lavoratori portano i caratteri di una precarietà e di una incertezza che di fatto non trovano sostegno nel sistema previdenziale, né in quello creditizio, né in quello professionale. Dall’introduzione della legge Biagi, ben 61 collaboratori coordinati e continuativi su 100, anziché accedere ad una maggiore stabilità contrattuale, sono diventati “lavoratori a progetto”. L’incertezza del posto di lavoro è lamentata dalla stragrande maggioranza dei lavoratori “atipici” (73,1%). Ben il 68,6% di essi si ritiene insoddisfatto del proprio contratto, mentre il 72,3% ritiene di non essere garantito in materia di tutele sociali. La flessibilità incide anche sulla capacità di progettare il proprio futuro: il 71,3% dei lavoratori afferma che il fatto di essere un “atipico” ha condizionato negativamente la possibilità di comprare una casa ricorrendo ad un mutuo. Tra quanti ritengono che al termine della propria vita lavorativa avranno una pensione inesistente, circa il 40% è già ricorso ad una pensione integrativa o esprime l’intenzione di farlo. Una parte estremamente maggioritaria dei lavoratori atipici lavora per un solo datore di lavoro e svolge la propria attività presso la sede dell’azienda per cui lavora, dove è tenuto a recarsi quotidianamente. Lungi dal caratterizzare una fase temporanea della propria vita lavorativa, l’atipicità è per la maggior parte dei collaboratori una condizione che dura da molto tempo, senza riuscire a sfociare in un rapporto di lavoro stabile. Italia a tempo determinato. L’anomalia del lavoro atipico o della modalità di ricorso alle diverse forme di lavoro non standard sta proprio in questo modus operandi, che, se da una parte consente all’azienda di continuare ad avvalersi di una risorsa già “collaudata”, senza dover pagare i costi aggiuntivi derivanti dalla stabilizzazione, dall’altra impedisce al collaboratore di godere dei diritti spettanti ad un lavoratore che svolge un lavoro di tipo dipendente, intrappolandolo in una condizione di precarietà, lavorativa ed esistenziale. «Il lavoratore a tempo determinato è una metafora del nostro Paese. L’italia dei lavoratori a progetto è, paradossalmente, un Paese senza un progetto, incagliato nel quotidiano. La questione lavoro – spiega Fara – deve diventare prioritaria. La stabilità del lavoro e delle professioni è un prerequisito essenziale per lo sviluppo e la crescita dell’economia nel suo complesso». Il carattere transitorio ed instabile dei rapporti di lavoro ha messo in crisi il modello flessibile, rendendo estremamente difficile l’accumulazione di esperienze e competenze trasferibili e organizzabili in una prospettiva di carriera. La frammentarietà dei percorsi lavorativi consente un’identità professionale del tutto provvisoria e l’individuo si trova sempre più spesso nella condizione di ricominciare ogni volta da capo. «Siamo di fronte – continua Fara – ad un Paese a propulsione segmentata e a dissolvenza di identità. L’italia infatti non sembra più in grado di conservare il proprio patrimonio industriale ricchissimo di risorse umane, saperi professionali e contenuti simbolici. Ma l’incedere declinante dell’economia nazionale – sottolinea il Presidente dell’Eurispes – non deve impedire di rilevare la presenza di aree di eccellenza produttiva e tecnologica nel nostro Paese, in cui vigono modelli organizzativi all’avanguardia e dove la ricerca e lo sviluppo dell’innovazione tecnologica rappresentano una missione strategica da assolvere quotidianamente. C’è un’Italia che va, un’Italia che ha saputo intercettare con caparbietà, tratti di genialità e sapienza organizzativa, importanti segmenti produttivi e traiettorie di mercato in Italia e all’estero, adottando combinazioni efficaci di capitale e di lavoro. È l’Italia delle eccellenze. Si tratta di un’eccellenza che non conosce confini territoriali, presente nelle regioni meridionali come il quelle settentrionali, dove sigle societarie e acronimi, spesso sconosciuti al grande pubblico, esprimono volumi di affari e fatturati invidiabili». Il gran gioco del federalismo: dalla Lega al Lego. «Lo spostamento dell’asse del potere politico e amministrativo dal centro alla periferia non riesce a dispiegare a pieno i propri effetti – spiega Fara – soprattutto per quanto riguarda il federalismo, quella attuale sembra la classe politica del Lego: gioca, costruisce, assembla, smonta e rimonta pezzi di ferrovie e case. Il costo del federalismo, dovuto alla duplicazione degli apparati burocratici, è stimabile in 30-40 miliardi di euro». L’opinione degli italiani sul federalismo. Il 65,2% degli italiani è al corrente del dibattito sul federalismo, ma appena il 14,7% afferma di seguirlo con molta attenzione. Il 34,8%, poi, non lo segue per niente. In particolare, è possibile osservare che per il 36,7% dei cittadini con il federalismo l’efficienza del servizio sanitario resterà immutata, mentre per il 36,3% peggiorerà e per il 27% migliorerà. Per il 43,3% rimarrà sostanzialmente invariata anche l’efficienza dei trasporti pubblici, mentre per il 28,1% peggiorerà e per il 28,6% migliorerà. Per una quota maggioritaria di italiani (il 39,6%), il federalismo lascerà immutata anche la qualità dei servizi di assistenza sociale; questi peggioreranno, però, ad avviso di una minoranza importante del campione (34,4%), mentre miglioreranno per il 26%. Circa un italiano su quattro, poi, è dell’opinione che con il federalismo non cambierà niente nemmeno in materia di sicurezza e Amministrazione pubblica. Diversamente, il 27,9% ritiene che l’efficienza dei servizi di sicurezza migliorerà mentre il 31,9% crede che subirà un peggioramento. Infine, è opinione del 31,1% degli italiani che l’efficienza dell’Amministrazione pubblica risentirà negativamente della riforma federalista dello Stato, a fronte del 29,1% che esprimono l’opinione contraria. Il livello di impegno federale (Lif) dei Comuni italiani. Al fine di determinare la classifica del livello di impegno federale dei Comuni, l’Eurispes ha predisposto un sistema di attribuzione dei punteggi sulla base di alcuni indici che scaturiscono dall’elaborazione dei bilanci delle Amministrazioni comunali di ogni regione. Dall’analisi dei dati emerge che le Amministrazioni comunali della Lombardia dimostrano di essere gli Enti locali più autonomi d’Italia, ponendosi in cima alla classifica elaborata dall’Eurispes con 380,6 punti. A seguire i comuni del Veneto (369,5) e della Liguria (369,1), e ancora quelli dell’Emilia Romagna (366,6) e del Trentino Alto Adige (365,2). Da rilevare, inoltre, che sono sei le regioni che, rispetto alla graduatoria relativa all’anno precedente, guadagnano posizioni: Lombardia, Lazio e Marche in testa, le cui Amministrazioni comunali salgono di 4 posizioni nella classifica generale dell’autonomia posizionandosi rispettivamente al primo posto, al settimo e nono posto. Seguono: Liguria, Toscana e Valle d’Aosta. In coda alla classifica si collocano le Amministrazioni comunali di Campania (269,9), Calabria (249,8), Basilicata (242,51) e Sicilia (213,5), penalizzate principalmente da una dipendenza erariale che supera mediamente la soglia del 45%. Dall’italia all’Europa. Tre italiani su quattro sono ottimisti o fiduciosi nei confronti del processo di unificazione. Il 62,4% dei cittadini è al corrente dell’avvenuta approvazione della Costituzione europea, una percentuale che scende tra le classi di età giovanili. Infatti soltanto il 50% dei giovani tra i 18 e i 24 anni e il 59,1% di quelli appartenenti alla fascia 25-34 anni sa che, nel giugno 2004, è stata approvata la Carta costituzionale europea. In tutte le classi di età si manifesta una particolare sfiducia verso la possibilità di aumentare, grazie al processo di integrazione europea, la prosperità economica ed il tenore di vita (il 65,6% si esprime negativamente in ordine a questa possibilità). Tale sentimento è ancora più marcato nelle classi di età più giovani dove supera il 70%. Anche in relazione alla possibilità che il processo di integrazione europea possa creare occupazione, la fiducia degli intervistati è piuttosto bassa: il 60% del campione ritiene che il processo di integrazione europea non contribuisce a creare nuovi posti di lavoro. Tra i principali effetti portati dall’integrazione c’è la visione di un aumento dell’autorevolezza del Vecchio Continente. Quasi tre italiani su quattro, infatti, concordano sul principio che “l’unione fa la forza”. Spicca, in particolare, l’opinione favorevole degli intervistati del Sud (con l’81%), degli imprenditori (78,3%), dei pensionati (77,4%), dei disoccupati (77,4%) e degli studenti (70,4%). Infine, lo sviluppo della conoscenza, della ricerca e del progresso scientifico costituisce un effetto rilevante per tutte le classi di età e per il Mezzogiorno. La classe imprenditoriale italiana, notoriamente poco propensa ad effettuare attività di ricerca e sviluppo, è l’unica categoria professionale (con il 73,9% di pessimisti) a non considerare l’integrazione come elemento di spinta verso il progresso scientifico. Famiglie “digitalizzate”. Tra il 1995 ed il 2004 la spesa della famiglia per le piattaforme digitali è cresciuta in media del 22% all’anno. A confronto, la spesa (pubblicità inclusa) per la televisione è cresciuta dell’8% all’anno e quella per i quotidiani del 5% all’anno. In nove anni il confronto tra la spesa per le piattaforme digitali e per i due principali “media” tradizionali si è drasticamente rovesciato. Nel 1995 la spesa della famiglia per nuove piattaforme era pari al 66% della spesa per televisione e quotidiani. Nel 2004 la spesa per le piattaforme digitali (22.320 milioni di euro) è pari a quasi due volte e mezzo quanto si spende, pubblicità sempre inclusa, per televisione e quotidiani (9.800 milioni di euro). In particolare, la spesa maggiore delle famiglie viene indirizzata verso la telefonia mobile con 11.520 milioni di euro nel 2004, con un incremento rispetto al 1995 del 37%. Seguono la spesa di 5.700 milioni di euro per piattaforme informatiche (pc, periferiche, Internet) e quella di 5.100 milioni di euro per l’entertainment digitale. Un mercato “home” omogeneo in tutto il Paese. Le tecnologie digitali che hanno fatto il loro ingresso sul mercato “home” negli ultimi 10 anni hanno superato le forti differenze territoriali che esistevano a metà anni Novanta ed hanno oggi una penetrazione quasi omogenea sul territorio. La penetrazione di cellulari personali (89% vs. 86%), di satellite (26% vs. 28%), di console videogiochi (23% vs. 22%) e di foto-digitale (35% vs. 31%) è quasi allo stesso livello tra le città di dimensione metropolitana e i comuni al di sotto dei 5.000 abitanti (talvolta è superiore nei secondi). Esistono delle differenze per Pc (55% vs. 51%), Internet (40% vs. 34%), e Dvd-video (40% vs. 32%). Solo per la banda larga (14% vs. 4%) esiste una distanza ragguardevole tra città e non città: ma la differenza dipende per intero dalle diversità di offerta del servizio sul territorio. Donne e tecnologia in casa. Il gap, in particolare per quanto riguarda la piattaforma informatica, è concentrato quasi esclusivamente in una specifica categoria di donne: il 40% della popolazione femminile adulta che svolge esclusivamente il mestiere di casalinga. Mentre quasi un italiano su tre utilizza il Pc in casa, meno di una casalinga su 10 ne fa uso.
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