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Notiziario Marketpress di Mercoledì 06 Ottobre 2004
 
   
  Pagina4  
  ESIGENZA DI AUTOCONTROLLO E ‘LIMPIDEZZA’ LEGISLATIVA NEL SETTORE APPARECCHIATURE TRATTAMENTO ACQUA POTABILE  
   
  Milano, 6 ottobre 2004 - (da appunti del Dr. Luciano Coccagna, past. President Associaz. Acqua Italia – Comitée Europeen de Normalisation Aqua Europa) Chi si occupa degli apparecchi di trattamento dell’acqua potabile, anche da un punto di vista regolatorio e legislativo, si è reso conto che l’idoneità di questi apparecchi dipende da due fattori essenziali: a) la valida modificazione della qualità dell’acqua e b) la funzionalità degli apparecchi. In Italia è un decreto ministeriale di 15 anni fa [n. 443/1990] che ancora regolamenta le caratteristiche tecniche di queste apparecchiature. Decreto - oggi in revisione perché lo si vorrebbe applicabile anche agli apparecchi installati in luoghi pubblici – ch’è stato a suo tempo molto utile per mettere un po’ d’ordine nel mercato ma, alla fine, ha mostrato tutte le sue difficoltà d’applicazione. La sua revisione, oggetto d’accelerazioni e decelerazioni improvvise, è di fatto rimasta nei cassetti ministeriali fino a quando è esploso il caso delle vendite “porta a porta” di apparecchiature per il trattamento dell’acqua, specialmente del tipo ad ‘osmosi inversa’. Per reclamizzare e spingere all’acquisto di questi prodotti, i venditori si avvalevano di dimostrazioni pratiche dai toni quantomeno terroristici. Per intenderci subito meglio, conviene chiarire immediatamente di che si tratta. Le apparecchiature ad ‘osmosi inversa’ sono largamente utilizzate da industrie, ospedali, ma anche da privati, sia per la potabilizzazione di acque salate o salmastre sia per la rimozione di inquinanti (nitrati, arsenico, etc….): hanno la proprietà di ridurre il contenuto salino totale dell’acqua contemporaneamente alla rimozione d’altre sostanze pericolose o tossiche. Nella realtà media delle acque italiane tale riduzione dei sali risulta dell’ordine del 90 per cento circa, ottenendo così un’acqua di composizione salina analoga a quella d’acque naturali definite ‘minimamente mineralizzate’ (ne sono commercializzate a decine...). Negli Usa sono stati venduti nel 2003 circa 250.000 apparecchi ad osmosi inversa con crescita percentuale di mercato in doppia cifra. Per convincere il cliente esiste una dimostrazione visiva estremamente efficace (descritta anche in libri “seri”), che mostra come l’acqua non trattata, con maggiore contenuto salino, possa provocare - per elettrolisi - il discioglimento di un elettrodo metallico (in genere ferro) che crea nell’acqua sia una “nube” più o meno rossastra sia un innalzamento della sua temperatura. Pur essendo di per sé una banale e onesta prova elettrochimica, essa è stata spesso utilizzata per raccontare frottole, ossia per affermare che quella nube rossastra era costituita da “porcherie” presenti nell’acqua dell’acquedotto. Quest’uso truffaldino della dimostrazione è talmente noto e “datato” che già da tempo le aziende più serie del settore hanno diffidato i propri agenti e concessionari dal farne uso. Non stupisce quindi che alcune aziende - curiosamente concentrate nel padovano, ma anche a Roma e a Torino, spesso emanazioni o eredi d’altre aziende con un passato di truffe nel mercato immobiliare, in quello dei computer, delle enciclopedie etc… - si siano rapidamente convertite al nuovo “business” con questo e con altri elementi truffaldini: ad esempio l’apparecchio dato in “dono” ma con un contratto di servizio di manutenzione pluriennale a costi folli... Questa situazione commerciale è stata peraltro confermata dalle associazioni dei consumatori di Padova che per prime si sono occupate dell’argomento interessandone poi giustamente la Magistratura. Le accuse principali sono state quelle di “eccessiva” dissalazione dell’acqua e di crescite microbiche nell’acqua trattata. Entrambe le accuse sarebbero sostenute (a detta dei “media”) dalla stessa Legislazione vigente. Si ritiene che in realtà non ci sia alcuna inosservanza delle leggi (sarà la stessa magistratura a dare prima o poi un responso) e che anzi l’interpretazione delle leggi sia stata quantomeno manipolata allo scopo principale di ostacolare la diffusione di un nuovo “mercato” dell’acqua in concorrenza con l’”establishment” consolidato nei decenni di più o meno tranquilla convivenza. Questa opinione è ulteriormente supportata dal fatto che alcuni massmedia hanno nel contempo attaccato altri tipi di trattamenti dell’acqua: a seguito di prove sì molto accurate, ma i cui risultati, se ben analizzati, contraddicono invece in modo clamoroso il giudizio negativo finale riportato a commento delle prove. Si può anzi affermare che proprio l’accuratezza di tali prove dimostra come dietro ad esse ci sia o una clamorosa ignoranza in materia oppure una volontà denigratoria quantomeno sospetta e pregiudiziale. E’ comunque evidente che un simile pasticcio non sarebbe stato possibile in una situazione di certezza del diritto. Se, infatti, si confrontano le leggi italiane con le Direttive europee che le hanno originate, si osservano difformità molto gravi dal punto di vista formale e sostanziale. Si osserva ad esempio che né la Direttiva europea 98/83/Ce, (all’origine del nostro decreto legislativo n.31 del 02/02/01), né i recepimenti legislativi degli altri Paesi dell’Unione europea hanno posto alcun limite ai valori di durezza e di salinità minima delle acque potabili. Il D.l.vo n. 31/2001 invece pone un limite semplicemente “consigliato” che, come facilmente dimostrabile con decine di bollettini d’analisi, è stato invece molto spesso interpretato come “obbligatorio” da strutture come l’ Asal e l’Arpa, con conseguenti giudizi di “non potabilità” dell’acqua trattata. Si spera che anche questa sia l’occasione per sollecitare ai nostri legislatori un atteggiamento più serio e coerente nei confronti dei nostri partner europei. E’ appena il caso di segnalare come, appunto, la dizione “consigliato” abbia a suo tempo esentato l’Italia dal sottoporre al giudizio della Commissione europea (in base alla Direttiva 98/34/Ce) la sua volontà (più o meno “volontaria”) di mantenere un limite per la durezza. Infatti, se anziché un “consiglio” fosse stato un “obbligo”, sarebbe stata sicuramente provocata la reazione dei nostri partners europei, essendo palese il contrasto con la Direttiva comunitaria. Non si può neppure non segnalare che già “giacciono” presso la Commissione almeno altri 3-4 bozze di decreti ministeriali (anch’essi caratterizzati da alcuni contenuti discutibili) a causa di “blocchi” di legittimità espressi da altri Paesi europei. Ulteriori commenti sono superflui.  
     
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