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Notiziario Marketpress di Martedì 03 Febbraio 2004
 
   
  Pagina4  
  DAL 10 AL 20 FEBBRAIO, PRESSO LA FONDAZIONE MUDIMA DI MILANO, "JUXTAPOSITIONS" U  
   
 


Milano, 3 febbraio 2004 - Christopher Broadbent ama definirsi un illustratore di idee e dal suo incontro con Ray & Berndtson, società di headhunting specializzata nella ricerca di top manager, nasce l’idea di questa mostra. "Juxtapositions", il titolo scelto, è un chiaro riferimento al contenuto delle fotografie ma anche al tipo di lavoro svolto da Ray & Berndtson - società di Executive Search - la cui ricerca è sempre rivolta all’individuazione più che dell’uomo migliore, di quello “più giusto”, manager di spicco che sappia portare valore aggiunto non solo nel breve ma anche nel medio e lungo periodo. Dal 10 al 20 febbraio, presso la Fondazione Mudima di Milano, sarà dunque possibile ammirare le Juxtapositions, di Christopher Broadbent che, nel suo amore per lo still life, degli oggetti cerca sempre le forme primitive, la visione ortogonale, il disegno in chiaroscuro, le prospettive intrinseche. Tecnicamente minimalista, Chris nega che il suo sia un vero e proprio stile personale, affermando di usare semplicemente alcuni parametri del disegno accademico: una luce naturale per disegnare, un piano ed un orizzonte per orientare, un punto di vista ortogonale per innalzare e rendere degni gli oggetti. La macchina fotografica, una 5x4 di legno, viene utilizzato in modo non invasivo, lasciando recitare gli oggetti; così da fare sparire macchina e fotografo. Presentazione del catalogo a cura di Philippe Daverio. Christopher Broadbent è specializzato in still life, lavora a Milano da vent’anni dopo una preparazione cinematografica a Parigi. I suoi lavori sono stati premiati dall’Art Director’s Club italiano e dal Clio. Ray & Berndtson, tra le prime società al mondo specializzate in Executive Search, opera anche nel settore del Middle Management, nella consulenza per il Change Management e nella ricerca di Indipendent Directors e Board Members. Fondata nel 1965 ha 47 uffici in tutto il mondo, a Milano è in Via Bandello 15. “Teste Fini” : una società di “cacciatori di teste” E’ curioso ma per nulla incomprensibile che una società di cacciatori di teste abbia puntato su Chris Broadbent per farne il loro creatore estetico, anzi per chiedergli d’essere l’inventore dell’assetto visivo della loro comunicazione. Dare forma fisica al contenuto ideologico proposto da altri, questa è la pratica dell’artista dal Rinascimento in avanti, interrotta solamente negli anni in cui reputava di dovere svolgere una funzione puramente romantica. E in questo senso l’erede della metodologia dei Caracci o di Guido Reni è senza dubbio il fotografo pubblicitario: lega anche lui l’asino dove vuole il padrone. Ma fin qui la nostra curiosità si trova poco sollecitata. L’attenzione viene suscitata dalla comunanza di ambiguità fra il lavoro del cacciatore di testa e quello di Broadbent. Quelli della Ray & Berndtson si occupano di teste fini ad alto grado di responsabilità, si occupano cioè di coloro che nella retorica internazionale degli affari odierni vengono chiamati top management, e se ne occupano in modo particolarmente attento, quasi maniacale, non soltanto nel momento del collocamento ma pure nella successiva carriera, a tal punto che finiscono alcune volte per essere loro stessi cacciati, diventando soggetti delle loro proprie attenzioni. Non sono teorici astratti dal tessuto delle aziende, provengono dalla gestione e nella gestione spesso tornano. Una questione di sofisticati equilibri, di mondi in costante compenetrazione. Broadbent è parimenti equilibrista. E’ fotografo per la pubblicità e con notevole successo di carriera, ma le sue fotografie sopravvivono benissimo senza le scritte pubblicitarie, vivono una esistenza parallela dove sono oggetti materiali in se. Anzi, una volta tornati nella realtà del visivo operante sembra che con la promozione pubblicitaria non abbiano mai avuto a che fare. Poi basta vedere ricomparire le scritte e il significato prende un’altra strada, immediatamente comprensibile. Due mondi diversi per chi guarda, che sono invece lo stesso percorso creativo della mente per l’autore. Questione anche qui di equilibri. Maturi equilibri fotografici. La fotografia che sembrava già matura negli anni ottocenteschi ormai lontani di Nadar, e che si convinse di essere maturissima negli anni trenta del secolo appena concluso, quando per alcuni come Ansel Adams s’era fatto linguaggio tecnico ineccepibile e teorizzabile mentre per altri, dai futuristi a Man Ray, si faceva pratica dell’arte, la fotografia che rimaneva per altri ancora la migliore alternativa alla narrazione anche se si trovava costretta nel grande equivoco dell’unico fatto che nella realtà fenomenologia non è mai esistito, l’istantanea, ebbene la fotografia sta forse oggi affrontando un suo percorso di reale maturazione. Nadar a Parigi era così convinto d’essere artista da ospitare nel suo studio le prime mostre degli impressionisti. Giacomelli mezzo secolo dopo a Senigaglia lo era così poco da continuare per tutta la vita a fare il tipografo stampando nella modestia correttissimi biglietti da visita mentre nel retrobottega sviluppava nelle sue domestiche vaschette alcune delle più belle immagini della sua epoca. Robert Capa era intimamente convinto d’appartenere alla categoria dei giornalisti, poiché era reporter, e per lui la macchina fotografica era sostanzialmente uno strumento pari a ciò che la macchina per scrivere Remington era sotto le dita da cacciatore di Hemingway. In realtà è da pochissimo che la fotografia è diventata arte nel senso mercantile e quindi filosofico del termine: da quanto nelle aste internazionali il martello del banditore l’ha sancita tale per poterne sancire i prezzi per la prima volta alti e quindi commoventi, da quando è apparsa la traduzione del termina francese vintage (da pronunciare con accento francese perché nato per le annate dei vini) nel termine anglosassone vintage (da pronunciare oggi in inglese perché viene applicato alle tirature primigenie delle fotografie, quelle rare dove la carta ai sali d’argento da il sapore dell’insostituibile). La società attuale considera, secondo l’autorevole parere del londinese Charles Saatchi, che sia il mercato a determinare l’arte. Ed è un altro inglese, Chris Broadbent, che s’adopera con la prassi quotidiana, a smontare il teorema. Perché Broadbent stampa le sue foto anche con la stampante a getto del più normale dei computer, ovviamente sceglie come un artigiano d’una volta gli inchiostri e le carte, ma poi proprio come Piranesi o Rembrandt non ne limita le tirature, vende l’oggetto e poi si vedrà. Tanto il lavoro è anche quello della pubblicità che finisce sui giornali a centinaia di migliaia di copie e non per questo si sfibra. E poi sarà l’arte un giorno a determinare il mercato. Questa rara libertà mentale consente un’altrettanto rara libertà di creazione, un percorso dove la fotografia mente pochissimo perché rappresenta una realtà statica quanto lo è quella della luce, fenomenologicamente oggettiva quanto lo è il sistema ottico, a pellicola o digitale, non importa. Broadbent fotografa esclusivamente nature morte. Sicchè il suo è creare, non documentare, non narrare. E’ curiosamente un creare che segue la metodologia di Giorgio Moranti, per il quale l’opera non iniziava dal dipingere, gesto puro alla giapponese, ma dal comporre gli oggetti semplici che accompagnarono l’intera sua esistenza, dal piazzarli nella luce o nelle ombre per calibrarne la metafisica tensione. Così lavora Christopher Broadbent, prima di tutto componendo, applicandosi manualmente a dipingere enormi teloni privi di pretesa artistica che andranno ad evaporare negli sfondi delle sue composizioni, applicandosi a raccogliere come Daniel Spoerri gli oggetti inattesi che entrano in dialoghi altrettanto inattesi, scattando con scarso rispetto per la meccanica delle macchine, facendo stampare o stampando. Ed è proprio la complessità del percorso a dare al suo fare quel senso di tecnè che già per Aristotele era la base dell’arte, così come lo era per i pittori vissuti prima dell’invenzione del tubetto. Che sia la diavoleria fotografica a coagulare l’esperimento in una opera dall’aspetto stabile è quasi un accidente. Sempre per continuare a citare Aristotele, va ricordato che per il vecchio greco la questione delle tecnè non era sufficiente senza che l’opera venisse pervasa dal fiato della poesis: qui la poesis si riconduce al colloquio fra un tocco di legno e un attrezzo di ferro che lo guarda come per penetrarlo. Hanno fatto un buon lavoro i cacciatori di “teste fini” della Ray & Berndtson!

 
     
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