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Notiziario Marketpress di
Giovedì 25 Giugno 2009 |
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L´ITALIA ALLA PROVA DELL´EUROPA (SE LA STORIA È MAESTRA DELLA VITA...)
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Roma, 25 giugno 2009 - L’italia post-bellica ha perseguito per quarantasette anni (1947-1994) una politica estera determinata dal principio delle « convergenze parallele » fra i due poli di attrazione dell’Europa occidentale: l’egemonia statunitense e lo sviluppo di una crescente solidarietà sovranazionale continentale. Nel ricostruire lo Stato unitario travolto da venti anni di fascismo e dalla guerra condotta a fianco di Hitler, la società politica italiana ha percepito immediatamente il mutamento avvenuto nelle relazioni internazionali, laddove la questione centrale non era solo la scelta fra indipendenza nazionale e interdipendenza internazionale ma soprattutto la coincidenza fra dimensione politica statuale e dimensione politica internazionale: una coincidenza che ha reso ogni volta velleitarie e incoerenti – e dunque contrarie ai nostri interessi – talune scelte che hanno voluto ignorare l’interdipendenza. La scelta atlantica e quella europea sono state imposte da questo mutamento nelle relazioni internazionali ed hanno costituito il quadro degli impegni in politica estera dell’Italia anche quando – con ricorrenza quasi decennale – è maturato il rischio di una rottura fra l’una e l’altra scelta: con la morte di Stalin e la caduta della Ced a metà degli anni ’50, con la distensione internazionale e la decolonizzazione a metà degli anni ’60, con le guerre mediorientali e la crisi della solidarietà insieme atlantica ed europea a metà degli anni ’70 ed infine con l’acuirsi delle tensioni fra Est ed Ovest alla vigilia del crollo del sistema sovietico a metà degli anni ’80. Se si fa eccezione della ricerca pubblicata nel 1967 dallo Iai sulla politica estera della Repubblica Italiana, nata dal Convegno omonimo promosso da Altiero Spinelli nel gennaio dello stesso anno, sono stati scarsi i contributi intellettuali che hanno analizzato in quegli anni le ragioni e il percorso delle scelte italiane e tale scarsità è certamente legata al modesto contributo che gli intellettuali italiani hanno dato alla conoscenza dei problemi internazionali, modestia che si unisce alla pressoché inesistente politica estera dei partiti e delle forze economiche. Dalla creazione delle Comunità europee in poi, la storia della partecipazione dell’Italia alla costruzione europea è divenuta in buona parte storia dei documenti ora disponibili (alla scadenza trentennale) presso gli Archivi Storici delle Comunità europee ma anche sui siti della Commissione europea e delle altre istituzioni oltre che su fonti non ufficiali come, fra tutte, il Bollettino quotidiano «Agence Europe» inventato da Emanuele Gazzo e pubblicato ininterrottamente dal 1953 prima a Lussemburgo e poi a Bruxelles. La crisi della Prima Repubblica e l’avvento al potere di nuove formazioni politiche come Forza Italia e la Lega Nord ha prodotto un mutamento sostanziale nella politica estera dell’Italia e nelle sue relazioni bilaterali con un’incidenza che è stata fino ad ora scarsamente valutata sul suo modo di stare in Europa. All´inizio di una nuova legislatura europea vale la pena di porsi e porre alcune domande alle quali la scarsa storiografia italiana sull’Europa contemporanea e la parziale conoscenza di documenti ancora inediti non ha ancora dato una risposta esaustiva: - dove stanno i motivi della scelta italiana per l’integrazione europea? - quali obiettivi sono stati raggiunti, quali mancati? - quale è stato il contributo dell’Italia al dibattito politico-istituzionale sull’Europa? - in che modo l’Italia ha influenzato gli sviluppi dell’integrazione europea?. Per quindici anni (1947-1962), la fedeltà atlantica e la scelta europeista sono state al centro della collocazione del sistema politico italiano governato dai partiti di ispirazione cattolica, liberale e socialdemocratica essendo osteggiate – seppure in diversa misura – dai socialisti di Nenni e dai comunisti di Togliatti fino – per quanto riguarda il solo Psi - alle aperture di Nenni alla politica estera italiana nella primavera del 1962 (discorso alla Camera del 1962) ed al primo governo Moro con la partecipazione dei socialisti (4 dicembre 1963). Per quanto riguarda il Pci, l’attesa di una sua evoluzione europeista ed atlantica è durata fino agli inizi degli anni ’70 quando fu firmata alla Camera da tutti i partiti dell’arco costituzionale una dichiarazione secondo la quale la Nato e la Cee rappresentavano «il termine fondamentale di riferimento della politica estera italiana». Da allora e fino al 1994 la fedeltà atlantica e la scelta europeista hanno dunque determinato la collocazione internazionale dell’Italia e la posizione politica di quasi tutto l’arco dei partiti italiani (con l’eccezione del Msi di estrema destra e, più tardi, dei protagonisti della scissione a sinistra del Pci). La collocazione europea dell’Italia non è mai stata una conseguenza della scelta atlantica né tanto meno che vi è stata (dal terzo governo De Gasperi-sforza del 1947 – anche se questo governo fu in qualche modo il risultato politico più eclatante del viaggio oltre-oceano di De Gasperi all’inizio del 1947 – fino al governo Ciampi-andreatta del 1993/1994) una piatta coincidenza fra europeismo ed atlantismo. Le scelte di politica estera dell’Italia durante le fasi iniziali della storia repubblicana furono il frutto di grandi dibattiti che coinvolsero gli uomini di governo e i leader dei partiti con la partecipazione di una parte consistente del mondo economico e della stampa, alcuni intellettuali soprattutto vicini al pensiero federalista e, attraverso di essi, anche dell’opinione pubblica. A questo dibattito contribuirono personalità come De Gasperi, Einaudi, La Malfa, Vanoni, Segni, Scelba, Saragat, Lombardo e Nenni in un confronto spesso aspro ma civile con Togliatti, Amendola, Di Vittorio, Paietta e, più avanti negli anni ’50 e ’60, con Andreotti, Colombo, Fanfani, Giolitti e Moro. La linea di politica estera dell’Italia fu certo facilitata dalla continuità nella gestione delle nostre relazioni internazionali poiché Carlo Sforza fu ministro degli Esteri dal 31 maggio 1947 fino alla sua morte il 4 settembre 1952, essendo poi sostituito dallo stesso De Gasperi fino all’agosto 1953, una continuità che ha poi caratterizzato fasi successive della storia italiana con Aldo Moro (ministro degli Esteri dal 1964 al 1966 – durante il periodo difficile della crisi fra la Francia e gli altri cinque partner europei – e poi dal 1969 al 1976 e cioè dal rilancio del processo di integrazione dopo la scomparsa di De Gaulle fino alla decisione di indire le elezioni a suffragio universale e diretto del Parlamento europeo, quando Moro fu prima ministro degli Esteri e poi capo del governo) e quindi con Giulio Andreotti dal 1976 al 1979 e poi dal 1983 al 1992 sia come capo del governo che come ministro degli Esteri. Trascorso il periodo delle scelte di fondo (1947-1957), gli impegni atlantico ed europeo dell’Italia furono essenzialmente decisioni dei governi, soprattutto del Gabinetto Zoli (1957-1958), con uno scarso coinvolgimento delle forze politiche, economiche e sociali se si eccettuano le battaglie di retroguardia di una parte del mondo industriale contro il Mercato Comune ed una pressoché totale estraneità del mondo accademico, oltre ad un diffuso disinteresse della pubblicistica. Fino al 1994, le «convergenze parallele» della fedeltà atlantica e della scelta europeista hanno consentito all’Italia di coniugare gli interessi nazionali con l’attiva e convinta partecipazione del paese alla costruzione di un sistema internazionale ed europeo che chiudesse i conti definitivamente con il passato. L’europa o meglio i vincoli esterni derivanti dalle regole comunitarie sono stati considerati in questo quadro come la premessa indispensabile per il consolidamento dello Stato travolto dal fascismo e dalla guerra e come la bussola (oggi si direbbe: il navigatore) necessaria per pilotare l’Italia sul buon cammino delle riforme. A metà degli anni novanta e con l’inizio di una nuova fase della politica italiana, si è invece interrotto questo lungo periodo fecondo in cui gli interessi nazionali si sono coniugati con la scelta europea ed in cui la nostra collocazione strategica ha fatto bene all’economia e alla politica del paese. L’arrivo di nuovi soggetti politici ha coinciso talvolta con fenomeni culturali di implicita nostalgia della politica di potenza del Regno d’Italia prima e del regime fascista poi, quando l’Italia dei Savoia e quella del Duce avevano perseguito una politica di potenza nazionale giocata soprattutto attraverso alleanze e capovolgimenti di alleanze, protezionismi e velleitarie difese degli interessi nazionali. In particolare – nel nome della patria – con una discutibile e discussa rilettura storica della transizione dalla caduta di Mussolini nel luglio 1943 all’Armistizio dell’8 settembre ed al ruolo svolto dagli italiani nella Resistenza, è nota la tesi di Ernesto Galli della Loggia secondo cui il cedimento di Badoglio agli Alleati suonò come il De Profundis dello Stato nazionale, aprendo poi le porte ad altri cedimenti di sovranità nazionale fino all’ultima e più recente perdita dell’identità nazionale a favore della crescente egemonia culturale laicista e dell’inquinamento religioso di origine islamica. Probabilmente Galli della Loggia si è dimenticato di chiedersi se era patria quello Stato che discriminava gli italiani in base alla pretesa differenza di razza, che toglieva loro la libertà, che stringeva alleanza con un’altra dittatura e scatenava una guerra in chiaro contrasto con l’interesse nazionale. Poiché la campagna elettorale europea non ci ha illuminato sugli orientamenti dei partiti italiani in relazione alla partecipazione dell´Italia al processo di integrazione europea, aspettiamo con interesse che questi orientamenti si chiariscano giorno per giorno di fronte alle decisioni che dovranno essere prese durante la settima legislatura europea. Pier Virgilio Dastoli, Direttore della Rappresentanza in Italia della Commissione europea . |
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