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Notiziario Marketpress di Lunedì 09 Ottobre 2006
 
   
  RADIO 1 RAI: GIANCARLO LEONE, VICEDIRETTORE GENERALE DELLA RAI E AMMINISTRATORE DELEGATO DI RAI CINEMA, AL COMUNICATTIVO DI IGOR RIGHETTI “MIO PADRE, UN GIURISTA PRESTATO ALLA POLITICA” “NON POTREI MAI RINUNCIARE ALLA LIBERTÀ DI POTER SCEGLIERE”

 
   
  Roma, 9 ottobre 2006 - venerdì 6 ottobre su Radio 1 Rai Giancarlo Leone è stato l’ospite del “Confessionale del Comunicattivo”, programma dei linguaggi della comunicazione ideato e condotto da Igor Righetti. Ecco un estratto dell´intervista. Che cosa c’è scritto sul suo biglietto da visita? Lei coglie subito al volo il problema. In teoria, avrei due scritte, una è vice direttore della Rai e l’altra è amministratore delegato di Rai cinema. Quella a cui tengo di più è quella di Rai cinema. Non perché voglia prendere le distanze dalla Rai perché sempre di Rai si tratta. Però in questi anni, producendo film italiani siamo riusciti, da una parte, ad avere grandi risultati però dall’altra, e questo è un fatto personale in cui credo molto, poter tornare a lavorare in profondità sui progetti, cosa che la televisione non sempre consente. In profondità e con il tempo giusto. Per fare un film, spesso, ci sono dietro sette, otto scritture di sceneggiature, c’è un lungo lavoro di brain storming, c’è una fase di preparazione che può durare un anno, un anno e mezzo, la fase di produzione che dura mediamente 11-12 settimane, la post produzione, il montaggio e poi la distribuzione. Vuol dire che spesso un film è una creatura complessa, molto complicata che scaturisce dopo due, tre anni di lavoro. Chiaramente, se lo si fa in serie, come facciamo noi, ci troviamo con dieci, quindici film all’anno prodotti e distribuiti. La televisione, ahimé, è invece una macchina che deve andare in onda ogni minuto del giorno e non sempre, purtroppo, consente questo tempo di approfondimento. Spesso si vede. Il mio tentativo, per quello che potrò, sarà di farlo vedere il meno possibile. Da bambino che cosa sognava di fare da grande? Lo scrittore. Fin da piccolo leggevo tantissimo, soprattutto testi teatrali. Non so perché, ma è stato così. Per cui, a dodici anni ho letto “I fratelli Karamazov”, che non tutti i bambini leggono a quell’età lì. Dostoevskij lo si legge un pochino dopo. Forse è colpa dei miei genitori che mi hanno lasciato nella libreria certi scrittori. Ma forse è anche colpa, o per fortuna, del fatto che c’erano tanti libri in casa. Poi mi ha molto affezionato il teatro, ho letto moltissimo teatro. In verità, volevo fare lo scrittore di teatro. Per fare questo, a 17 anni, finita la scuola, ho fatto il salto, cioè secondo e terzo liceo insieme, allora si poteva fare, sono andato a lavorare in teatro come aiuto regista con due personaggi straordinari all’epoca: Giorgio De Lullo e Romolo Valli che erano, probabilmente, il massimo assieme a Giorgio Strehler e a pochi altri. Mi hanno consentito di fare l’aiuto regista per alcuni anni e io, in verità, lo facevo per imparare i meccanismi, i tempi e i metodi della scrittura teatrale. Poi ho fatto tutt’altro, ma questa era la mia passione. Quali caratteristiche ritiene di aver ereditato da suo padre, Giovanni Leone, sesto presidente della Repubblica? Quando ero piccolo o quando l’ho seguito, fino a che non è morto alcuni anni fa, ero convinto di aver preso pochissimo. Lui era un giurista, un professore universitario, un tecnico prestato alla politica, anche se ha raggiunto i massimi livelli. È stato presidente della Camera, due volte presidente del Consiglio, capo dello Stato. Ma di fatto era un giurista, un professore universitario. In verità, io ho fatto giurisprudenza, e mi sono laureato, ma le mie passioni erano l’arte, la letteratura, la musica. Per mio divertimento, scrivo e suono musiche, sono iscritto alla Siae come compositore. Quindi, avevamo, da questo punto di vista, quasi nulla in comune. Io lo rispettavo come padre e lui ha sempre rispettato le mie decisioni come figlio. Qualche anno fa avrei detto in comune nulla. Poi, più vado avanti più mi rendo conto, crescendo, che ho preso moltissimo da lui e ogni volta che scopro un aspetto in più ne sono felice. Se dovessi dirle, sinteticamente, due cose, il senso della giustizia, del giusto soprattutto, cioè qualsiasi cosa accada nella nostra vita, qualsiasi lavoro si faccia, in qualsiasi materia umana, nei rapporti, il senso del giusto è qualcosa che se lo si ha, è qualcosa che consente, nei rapporti, nelle relazioni, di vedere sempre tutti gli aspetti e quindi di non essere egoisti, di cercare sempre di capire gli altri. Questa è una cosa che ho preso da lui. L’altra è la velocità. Lui aveva, nel suo modo di lavorare, una rapidità di cognizione che era unica. Io faccio un lavoro diverso dal suo, non sono avvocato, né professore universitario, né politico, però scopro nel mio modo di lavorare una rapidità che devo a lui. Quali sono i ricordi che ha di lui che più la commuovono? Essendo un tecnico, un giurista prestato alla politica, sicuramente non conosceva, o meglio, non era dentro i meccanismi, anche quelli più perversi, della politica, cioè dove il politico, aldilà della sua professione, della sua esperienza, deve anche essere in grado di rapportarsi rispetto agli altri con mille compromessi e sotterfugi. Lui non aveva mai avuto ruoli di partito, non aveva correnti politiche né interessi quindi era un politico un pochino sui generis. Questo ha fatto sì che la politica, nel momento in cui non vi è stato più bisogno di lui o nel momento in cui una serie di vicende politiche negli Anni ’70 hanno portato a una campagna scandalistica che a sua volta lo ha portato a dimettersi da capo dello Stato, sei mesi prima della fine del suo mandato. Ecco, quando ho visto una persona che dagli altari, spesso stimata per la sua capacità di essere neutra rispetto a tutti gli interessi, al di sopra delle parti, poi è stato coinvolto in una campagna scandalistica dalla quale è uscito dopo alcuni anni con gli interventi ufficiali di tutti coloro che allora lo avevano attaccato, vederlo così indifeso e senza alcuna possibilità di replicare, ma non perché non lo volesse fare, ma perché non si sentiva più di farlo. Non era un politico di professione, abituato a girare, se vogliamo, a camminare nelle zone più grigie di questo Paese. Vederlo così impotente, ancora oggi, mi commuove. Essere un privilegiato per nascita, ma anche per meriti personali, la fa sentire diverso dagli altri? Adesso non più. Mi sentivo diverso quando ero ancora un giovane che cercava il suo lavoro nella sua passione, il teatro la letteratura, il giornalismo. Sono diventato giornalista molto giovane perché poi, per finire la puntata sul teatro, non sono diventato scrittore ma da giornalista ho cominciato a scrivere in altro modo. Poi, piano piano, da giornalista sono entrato in Rai e ho fatto altre professioni meno giornalistiche che mi hanno portato a questo incarico. Da questo punto di vista, agli inizi mi sentivo diverso, oggi non più. Perché ero visto come il figlio di un personaggio importante, sentivo il bisogno e la necessità, per orgoglio perché così mi era stato sempre insegnato, di dimostrare che valevo anch’io, anche se avevo dei privilegi, e li ho avuti. Ma dovevo dimostrare che questi miei privilegi erano ricambiati dalla mia capacità di fare. Tutto questo mi ha spinto, professionalmente, a essere migliore di quanto già magari non potessi essere. Per cui i primi anni lavoravo più degli altri. Volevo dimostrare che non avevo niente di meno per, magari, lavorare in un giornale o per fare una certa cosa. In questo mi sentivo diverso, però quella diversità mi ha aiutato a migliorare e non, invece, ad approfittare della situazione. Le capita di avere dubbi? Ne ho spessissimo. Adoro, tra i tanti scrittori, Proust, che era noto, da questo punto di vista, anche come linguaggio letterario scriveva periodi molto lunghi. Aldilà della sua memorabile “Recherche”, sette libri che se uno riesce a leggerli fino alla fine è come se avesse vissuto tante vite degli altri che servono molto. Però, tra gli scrittori che amo molto c’è anche Ennio Flaiano, che adorava, da questo punto di vista, aldilà dei suoi romanzi, anche fare raccolte di pensieri, gli aforismi. Ci sono alcuni suoi libri, “Autobiografia del blu di Prussia” e “Diario notturno”che sono straordinari. Tra gli aforismi, o comunque tra le frasi che io ogni tanto mi diverto a coniare anche per me stesso o per gli altri, ce n’è una che recita “Il dubbio era la sua unica certezza”. Tanto per restare nel tema. A che cosa non potrebbe rinunciare? Alla libertà di poter scegliere, di poter dire un domani, prendere anche un’altra strada. Questo è un grande privilegio. Se il proprio lavoro non è solo un modo per vivere e per sopravvivere, ma è anche una scelta, poter scegliere il proprio lavoro, poter fare delle scelte anche solo di libertà, lasciare certe situazioni che non sono congrue, ecco che la libertà, da questo punto di vista, è un bene essenziale. Non è solo un bene, la libertà nella democrazia, o gli altri sensi di libertà. La libertà come uomo di poter fare delle scelte di vita, aldilà della famiglia, che si spera uno abbia sempre con sé, che possono poi darti quella sensazione di fare quello in cui tu veramente credi. Della sua lunga carriera in Rai quale tappa le ha dato più soddisfazione? Tutte sono state molto importanti. Sono entrato in Rai come giornalista al Televideo. Ho avuto la fortuna, in sette anni, assieme ad altri colleghi, di far nascere una creatura che non esisteva, che era appunto il Televideo. Oggi è in tutte le case, ma negli Anni ’80 non lo conosceva nessuno. E quella fu una bellissima avventura che ho vissuto con dei colleghi straordinari e con un direttore, Giorgio Cingoli, che non c’è più, ma che è stato un grandissimo direttore della Rai a quell’epoca. Poi, sono andato a dirigere l’ufficio stampa, altra bellissima ma avventurosa e faticosissima esperienza. Poi ho diretto i palinsesti che è stata una delle cose più belle. Ma devo dire che questi sei anni di Rai cinema, che mi hanno messo in contatto con un mondo, viceversa, dove essere fautori di qualcosa significa lavorare in profondità, come dicevo prima, è stata probabilmente l’esperienza più importante. Aldilà dei risultati che sono stati anche molto belli, ma il fatto di poter lavorare con il tempo e la possibilità di approfondire tutte le cose, in un mondo che ci corre sempre più dietro, che ci scappa, ci sfugge, è superficiale, è leggero, è fatuo, poter invece lavorare con il tempo e la necessaria possibilità di continuare a pensare di fare è un’esperienza che credo sia insuperabile. In questo senso credo che il lavoro a Rai cinema per il modo in cui si è lavorato resta per me l’esperienza più importante. Al recente festival di Venezia ha colto grande successo con i due film prodotti da Rai cinema uno dei quali, “Nuovomondo” ha vinto il Leone d’argento. Come sceglie Rai cinema i film da produrre? Spesso veniamo scelti, in verità. Se dovessi dire che siamo bravi a scegliere e basta sarebbe troppo facile. La verità è che noi abbiamo un nostro stile di racconto. Vogliamo raccontare storie che siano belle, vere, profonde, che possano toccare l’attualità come la storia. Però abbiamo il compito di innalzare i valori, la possibilità di raccontare cose che non siano fini a se stesse. Questo vuol dire tutto e niente. Allora, cerchiamo di parlare con gli autori che, secondo noi, sono più in grado di intercettare le domande del pubblico ma anche di essere ottimi testimoni del nostro tempo. Allora ecco che siamo riusciti in questi anni ad avere rapporti straordinari con autori come Gianni Amelio, Marco Bellocchio, Marco Tullio Giordana, Francesca e Cristina Comencini, Emanuele Crialese e tanti altri. Chiaramente, la fortuna sta nel fatto che in quel momento, quando noi li incontriamo, possiamo avere progetti portati da loro o da noi, molto più spesso portati da loro, in cui noi crediamo. E la fortuna sta anche nel fatto che se noi crediamo in questi progetti poi vengono realizzati bene. La fortuna vuole anche che questi progetti abbiano successo e trovino un riscontro di pubblico. Però quando si è scelti ci si mette nelle condizioni di essere scelti. In questi anni siamo riusciti a interpretare, spesso grazie a questi autori, realtà molto importanti. A Venezia siamo stati con il film di Amelio “La stella che non c’è”, in cui Sergio Castellitto interpreta questo operaio che decide di andare in Cina per scovare e trovare quest’impresa che ha comprato un altoforno in un impianto siderurgico in Italia e che ormai vende tutto ai cinesi e vuole andare lì e dirgli che c’è un pezzo rotto che potrebbe metterli in pericolo. Il “Nuovomondo” di Emanuele Crialese, film che è nelle sale in questi giorni e che ha avuto il Leone d’argento, è una storia bellissima di questi italiani dei primi del ‘900 che vanno in America, ma a differenza di come spesso vengono raccontati i loro viaggi, non arrivano in America e trovano più o meno fortuna. Non arriveranno a New York come spesso viene raccontato, ma verranno fatti scendere in un isolotto, che si chiama Ellis Island, a poca distanza dalla statua della libertà e dove entrano in quarantena. Da un certo anno in poi avveniva per tutti. Questa quarantena non era solo per le eventuali malattie contagiose, ma era il luogo dove venivano selezionati, dove chi mentalmente non era sufficientemente in grado di superare dei test veniva rispedito nel proprio Paese. Le famiglie venivano spesso separate ed è un racconto straziante ma ironico proprio su questa realtà. Il cinema italiano è in affanno. I sostegni pubblici aiutano il cinema o provocano il sonno della creatività? Negli anni scorsi gli aiuti pubblici, paradossalmente, anziché aiutare hanno provocato alcuni problemi perché hanno dato la convinzione, a produttori e autori, di poter fare i film indipendentemente dal rapporto col pubblico. Paradossalmente la crisi che c’è stata, anche di finanziamenti, ha costretto tutti a pensare al pubblico a cui ci si rivolge. Quando si fa un film lo si fa non per se stessi ma per un pubblico potenziale. Paradossalmente. La crisi finanziaria che c’è stata a livello di fondi pubblici ha aumentato il livello di attenzione di chi ha fatto cinema e oggi i risultati positivi si vedono. Oggi è il momento in cui anche lo Stato, se potesse aiutare di più il cinema, sarebbe il benvenuto. Qualche anno fa ha creato dei problemi. Nella “power list” del cinema italiano lei occupa la prima posizione davanti ad Aurelio De Laurentiis e a Giampaolo Letta. Più oneri o onori? È un onore essere in cima alla lista, ma la verità è che il mio nome non è altro che la punta dell’iceberg di una squadra che lavora, formata da tante persone straordinarie. Non riesco a vedere gli oneri da questo punto di vista, riesco solo a vedere il fatto che viene premiato un lavoro di una grande squadra che crede che nella cultura di massa, cioè di una cultura che arrivi al pubblico, che non sia fine a se stessa. Se fosse un onere, ben venga. Se è un onore ce l’abbiamo già e ce lo teniamo volentieri. .  
   
 

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