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Notiziario Marketpress di Martedì 29 Settembre 2009
 
   
  GIULIO MEOTTI NON SMETTEREMO DI DANZARE LE STORIE MAI RACCONTATE DEI MARTIRI D´ISRAELE

 
   
  Torino, 29 settembre 2009 - Con un atto di accusa verso la politica europea degli ultimi anni, acriticamente favorevole alle ragioni dei palestinesi, con il suo lavoro Giulio Meotti intende denunciare la cattiva coscienza dell’Occidente che ha rimosso il destino e il nome di migliaia di israeliani assassinati negli ultimi decenni di campagne terroristiche, e al contempo raccontare la tragedia del Medio Oriente da una prospettiva insolita ma significativa, in cui convivono la storia e la cronaca, la dimensione pubblica della testimonianza e quella privata del ricordo e del dolore. Non smetteremo di danzare, è un libro scritto per raccontare i martiri di Israele, per non dimenticare i loro nomi. Sono storie che parlano di coraggio, di disperazione ma anche della voglia di continuare a vivere. Nei quattro anni occorsi per scriverlo, Meotti ha incontrato e parlato con moltissime persone, per dar loro voce, non certo per fare una cinica conta dei caduti, ma per arricchire la riflessione e riproporre punti di vista spesso trascurati dall’opinione corrente. In Israele una famiglia su trecento è stata toccata dagli attentati, e per ogni attentato eseguito ne vengono sventati nove. Ci sono cerimonie funebri praticamente ogni giorno in Israele per le vittime del terrorismo islamico. Persone uccise per il solo fatto di essere ebree: in banca, in pizzeria, per strada, sul pullman, in un centro commerciale. Questo libro racconta le storie di questi «martiri», intrecciate spesso a quelle dei sopravvissuti della Shoah. C’è infatti un filo continuo che corre lungo i racconti del libro e che collega le vittime dell’Olocausto di ieri con quelle degli attentati kamikaze di oggi. Una sopravvissuta all’Olocausto, che deve identificare i suoi parenti vittime di un atroce attentato, si chiede appunto: «è davvero finito l’Olocausto?». Uomini, donne e bambini, condannati dalla furia del fondamentalismo, «rivivono» nelle parole di figli, genitori, amici, parenti. Vittime di un odio di cui non sempre siamo correttamente informati in Europa. Edizioni Lindau pag. 360 euro 24. Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. Ha scritto per il «Wall Street Journal». Con Lindau ha pubblicato Il processo della scimmia. La guerra dell´evoluzione e le profezie di un vecchio biochimico (2006). Non smetteremo di danzare è in corso di traduzione negli Stati Uniti, per la Encounter Books di New York. Intervista a Giulio Meotti Non smetteremo di danzare, un libro scritto per raccontare i martiri di Israele, per non dimenticare i loro nomi. Sono storie che parlano di coraggio, di disperazione ma anche della voglia di continuare a vivere. Nei quattro anni occorsi per scrivere questo libro hai incontrato e parlato con moltissime persone. Quali sono i loro sentimenti di fronte a queste tragedie: rassegnazione, rabbia, ostilità, voglia di vendetta? Nessun israeliano che ha perso i propri cari in un attentato terroristico ha mai cercato o chiesto la vendetta. Alcuni hanno risposto al terrore creando fondazioni benefiche in nome dei cari uccisi e oggi assistono bambini palestinesi. Una ragazza che ha perso il padre, la madre e il fratello in qualità di ostetrica fa nascere i bambini arabi in ospedale. Nell’accostarsi al mondo dei sopravvissuti al terrorismo ti colpisce il fatalismo ottimista, la fede ancora più forte in Israele e soprattutto l’amore per la vita. Non come banale gioia di vivere, ma come santificazione, laica o religiosa che sia, della vita umana in quanto tale. I mariti che hanno perso la moglie in un attentato si sono risposati e hanno creato una famiglia più grande di prima. Nella città di Sderot, sotto i missili di Hamas, gli israeliani si sono sposati nei bunker e i bambini hanno giocato nelle abitazioni sotterranee. Nessun autista di pullman si è licenziato, anche se ogni volta guidare era come una roulette russa. La distruzione arrecata dal terrorismo al cuore di Israele è stata grande, come un “mini Olocausto” ha detto un padre. Ma Israele, la sua società, la sua cultura, ne sono usciti vincitori. Israele ha dimostrato di amare la vita più di quanto non tema la morte. Ecco cosa ci insegna la democrazia israeliana, in guerra da sessant’anni ma senza odiare il proprio nemico. E’ questo il significato più bello trasmesso dai racconti di come erano in vita i morti d’Israele. Nel libro non vi è alcun pregiudizio contro i palestinesi ma ti verrà rimproverato di ignorare le morti palestinesi provocate dall’esercito israeliano. È una guerra dei numeri che pesa sulla democrazia israeliana? La conta delle vittime non ha mai spiegato nulla del conflitto. Ovviamente c’è una differenza fondamentale fra i civili israeliani ammazzati nelle proprie case, ristoranti, hotel e sinagoghe, e le vittime palestinesi che hanno tragicamente perso la vita in azioni militari volte a salvaguardare l’esistenza d’Israele e a fermare la mano dei terroristi. Israele fa di tutto per non arrecare danno ai civili. Questo libro-inchiesta non fa la conta dei morti, racconta una grande storia contemporanea, il martirio ebraico nel Xxi secolo, è la storia orale del conflitto mediorientale dal punto di vista della vittima che viene sempre bandita dai media, dalla cultura, dalla politica benpensante: gli ebrei. Uccisi perché ebrei in dieci anni di campagne fondamentaliste e genocide. Quasi sempre di loro non si viene a conoscere neppure il nome il giorno dopo la strage. Ho scelto di raccontare alcune delle più incredibili storie delle vittime israeliane del terrorismo perché ci parlano di questo minuscolo paese che non conosciamo veramente. E’ il “Ground Zero d’Israele”: 1. 700 vittime civili e oltre diecimila feriti. Israele è un paese molto piccolo e se paragoniamo questa cifra alla popolazione degli Stati Uniti sono 70. 000 vittime. In questi frammenti umani si trova a mio avviso uno dei perché d’Israele. Forse la sua ragion d’essere più importante. Questi “sommersi”, per usare un’espressione di Primo Levi, sono il pegno dell’esistenza dello stato ebraico soprattutto nell’epoca del negazionismo dell’Olocausto e della bomba atomica iraniana. C’è un filo continuo che corre lungo i racconti del libro e che collega le vittime dell’Olocausto di ieri con quelle degli attentati kamikaze di oggi. Una sopravvissuta all’Olocausto che deve identificare i suoi parenti vittime di un atroce attentato si chiede: “è davvero finito l’Olocausto?”. Come risponderesti a questa domanda? Il simbolo del libro potrebbe essere un uomo che ha perso gran parte della famiglia in un ristorante a Gerusalemme e che ricorda il padre mentre fa il segno di vittoria davanti ai cancelli di Auschwitz, dove i nazisti sterminarono la sua famiglia. Le vittime del terrorismo ci rendono così chiaro che l’Olocausto è come una coda di buio che attraversa le generazioni, è il più grande tabù del mondo arabo-islamico e uccidere un sopravvissuto ai lager è un omicidio perfetto. Con lui, si spazza via anche la memoria. La ricostruzione dopo gli attentati contiene il mistero d’Israele. Ci sono familiari che hanno dovuto riconoscere i propri cari dall’analisi del Dna, da una collanina, da qualcosa che apparteneva alla vittima. Il terrorismo ha cancellato letteralmente l’esistenza di migliaia di persone. Per questo ho scelto di raccontare e intervistare gli eroi di “Zaka”, l’organizzazione religiosa che si occupa di dare degna sepoltura ai piccolissimi lembi di carne e sangue delle vittime. Con la loro opera fermano l’annientamento provocato dal terrorismo. Non è possibile costruire la pace in Medio Oriente sull’oblio delle vittime di questa spaventosa ondata di antisemitismo. Per questo, forse, leggere il racconto di questi destini spezzati è già un atto di resistenza alla barbarie. .  
   
 

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