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Notiziario Marketpress di Lunedì 08 Marzo 2010
 
   
  MILANO: IN MOSTRA AL CASTELLO SFORZESCO LE OPERE SCULTOREE DI CHRISTIAN ZUCCONI

 
   
  Milano, 8 marzo 2010 - Da sabato 6 marzo, fino al 25 aprile, al Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco aprirà la mostra “Rivoluzione Kenoclastica” di Christian Zucconi. Quattordici sculture del giovane artista piacentino dialogano con l’arte antica, accanto alla Pietà Rondanini di Michelangelo. L’esposizione, promossa dal Comune e patrocinata dalla Regione Lombardia, è curata da Rudy Chiappini. “Il corpo smembrato e ricomposto è, per l’artista piacentino, oggetto e soggetto d’analisi là dove la prospettiva viene capovolta e il vuoto viene ad assumere una consistenza dal sapore fisico oltre che metafisico – spiega l’assessore alla Cultura Massimiliano Finazzer Flory -. E con quattordici sculture che incarnano e dis-incarnano tale principio l’esposizione presenta in uno dei luoghi michelangioleschi l’evoluzione e la messa, per così dire, in pratica dell’assunto del maestro fiorentino del levare il superfluo”. Per definire l’opera di Zucconi è stato coniato il termine “Kenoclastia”, un neologismo che mette in evidenza il particolare processo tecnico di rompere la scultura finita e di svuotarne i pezzi. Nelle sculture kenoclastiche le leggi naturali sono come sovvertite: il vuoto prende una propria consistenza fisica; il peso del rosso travertino persiano diventa leggero, ricomposto in soluzioni formali estreme, fino ad oggi impensabili nella scultura in pietra. Prendono così vita figure segnate e ferite, nate da un’operazione creatrice di corpi che sembrano liberarsi dalle forme indistinte del marmo, per poi, letteralmente, essere distrutti in frammenti, svuotati e infine ricomposti nell’espressione drammatica di fratture e suture. Il travertino rosso, lavorato da Zucconi, rende vivi e pulsanti i soggetti dell’antichità classica e della tradizione cristiana, come Marsia, Salomè e Selemno, scelti per raccontare la sofferenza del mondo contemporaneo, concentrato sull’esteriorità, sulla forma anziché sulla sostanza, sugli involucri che camuffano vuoti e debolezze. Il percorso espositivo, che mette in rapporto le sculture antiche presenti nel Museo con quelle di Zucconi, è pensato come “via dolorosa” verso la Pietà Rondanini custodita nell’ultima sala. Dall’ingresso alla Sala delle Asse si incontrano sculture mutuate dal mito, da quel mondo precristiano che tuttavia propone figure che anticipano la sofferenza di Cristo e la lacerante condizione dell’uomo alla ricerca di Dio. Inizio e conclusione del percorso è Selemno, figura acquatica, fluviale, simbolo di una memoria che non vuole più esserci, che vuole soltanto scorrere, scivolare via. Collocata accanto allo specchio d’acqua del cortile del Museo, dove le stille gocciolanti nella vasca dell’opera si accompagneranno al sommesso incresparsi dell’acqua, Selemno (e in generale le prime opere incontrate), da un lato prepara lo spettatore alla visione delle ultime sculture del percorso, immettendolo in un tempo mitico, in uno spazio liquido in cui la visione si ammanta di una quieta melanconia; dall’altro vuole collocarsi come termine di un percorso che, per eterno fluire e ciclico rincorrersi, idealmente potrebbe non finire mai. Dalla Sala delle Asse, gli antenati veterotestamentari e i precursori preparano alle rappresentazioni del Cristo crocifisso e deposto. Collocata nel cobaltino raccoglimento della Cappella si trova una Depositio Christi silenziosa. Sotto il pietoso sguardo della Vergine che tiene tra le braccia un piccolo Gesù, quasi prefigurazione della profezia di Simeone, il corpo del figlio morto in tutto il suo crudo realismo. Vera “spada che trapassa l’anima”, il rapporto dialettico che si crea tra le due sculture azzera i secoli, creando una stretta relazione tra due opere di tempi diversi che nella nuova situazione acquistano un senso e una sfumatura prima estranei. Con questa intenzione comincia l’ultima parte del percorso espositivo, ricreando cioè con opere sempre più drammatiche quella passio, quella “via dolorosa” verso il più lacerante dei rapporti filiali e il più tenero: l’Edipo di Zucconi e la Pietà di Michelangelo. Nella Sala degli Scarlioni, culmine di un percorso sempre più tragico, la raffigurazione di Edipo accecato. Strappo non più ricucibile, ferita che non potrà più rimarginarsi, Edipo alza lo sguardo al cielo senza poterlo vedere, fagocitato e soppresso da un amor filiale corrotto e guasto che, oltrepassando i limiti dell’umano, può soltanto cercare rifugio nel divino. E proprio in quelle braccia che sostengono il corpo del figlio morto, icona del dolore universale ma anche della Grazia infinita e beatificante, Edipo cerca infine asilo, ristoro, perdono e tranquillità. Il percorso si conclude con un omaggio che per Zucconi prende quasi sapore di preghiera, in dialogo ideale alla maschera mortuaria di Michelangelo, un ritratto del Maestro eseguito da uno Zucconi bambino, che del Castello Sforzesco e dei suoi tesori ha fatto meta e pellegrinaggio dall’età di sei anni.  
   
 

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