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Notiziario Marketpress di Lunedì 07 Giugno 2010
 
   
  L’ITALIA, LE BANCHE E LA CRISI DEL 1931 IL RACCONTO DI MARCELLO DE CECCO SULL’ITALIA DEGLI ANNI VENTI E TRENTA

 
   
   Trento, 7 giugno 2010 - E’ possibile che si ripeta un nuovo 1931? Le manovre che l’Italia oppose alla crisi del 1931 sono ancora valide a tutt’oggi? Sono state queste le domande che hanno animato l’incontro fra il professor Marcello De Cecco e il pubblico del festival, moderato dal direttore de L’adige Pierangelo Giovanetti. La risposta alla prima domanda è stata il pretesto per ripercorrere, in un lungo racconto, la vicenda politico-economica dell’Italia negli anni Venti, fra due guerre mondiali, fra regime plebiscitario e democrazia liberale. I parallelismi, dice De Cecco, funzionano per quel che sono: l’Italia di oggi e quella del 1930 sono troppo diverse per proporre una analogia biunivoca fra le due situazioni. Più facile è invece individuare gli elementi che già all’epoca portarono alla realizzazione di riforme drastiche solo in seguito alle crisi vissute dal nostro paese. Il racconto di De Cecco infatti parte da lontano, dalla vigilia della prima guerra mondiale, cesura sia storico-pratica che socioeconomica: alla fine della guerra l’Italia uscì massificata e priva della generazione dei giovani che avrebbero potuto apportare un contributo significativo alla circolazione delle idee. Al momento dello scoppio della guerra, con la chiusura alle importazioni imposta dalle varie potenze europee e con il ritiro dei produttori stranieri dal mercato italiano, l’Italia notabile, consolidatasi su una forte varietà e apertura ai mercati esteri, si trovò nella condizione di dover riempire il vuoto che si era venuto a creare per soddisfare il mercato interno. La nascita di nuove industrie e l’aumento della produzione portarono alla creazione di una grande produzione interna e ad una economia centralizzata di mobilitazione, che garantì i mezzi per resistere (per lo più sul piano militare) fino alla fine del conflitto. Al termine della guerra, con il ripristino del mercato internazionale, l’Italia si trovò a dover gestire la propria produzione nazionale e la proposta di importazione straniera. In questo senso, sottolinea De Cecco, l’Italia sperimentò sia una forma di mercato liberista che una forma di mercato fortemente centralizzato: il problema giunse quando si trattò di stabilire il passaggio dall’uno all’altro, per anticipare e non per subire l’arrivo della crisi economica. Nel corso degli anni Venti si tentò di ricostruire la situazione antecedente alla prima guerra mondiale, accantonando il modello centralizzato alternativo (che tornerà in auge proprio in concomitanza della crisi del 1929) e tornando all’economia liberista. Il passaggio si avrà con l’avvento dei “tecnocrati” o dei cosiddetti “ingegneri e manager” formatisi nella gestione pubblica provenienti dal Sud Italia che interverranno a salvare il nord delle industrie e dei privati. Questi capirono l’importanza del settore tessile italiano (che alla fine della seconda guerra mondiale potè riprendere prima di tutti e in piena competitività con gli stessi mezzi dell’inizio degli anni Trenta) e videro nell’espansione della domanda interna e degli investimenti infrastrutturali una possibile salvezza dell’economia nazionale. Un modello che proseguirà, continua De Cecco, fino alla creazione del mercato unico europeo e che quindi sopravvisse a lungo dopo la fine del regime fascista e che ha mostrato la propria validità in anni più recenti con l’ascesa della Spagna. Il passaggio iniziò però in concomitanza con l’arrivo della crisi americana sui mercati europei. L’impatto fu minore nel nostro Paese rispetto ad altri stati europei: il contemporaneo crollo della Germania Weimariana fu molto più forte per via della maggiore industrializzazione dell’economia tedesca. L’italia degli anni Venti era ancora fortemente agricola, con una concentrazione industriale limitata al triangolo produttivo del Nord: l’effetto macroscopico della crisi fu limitato al Nord mentre il resto del paese fu sferzato da Mussolini che affermò, come è noto, che “gli Italiani son abituati a mangiar poco: non sono il popolo dei cinque pasti”. Le cause che portarono all’aumento progressivo dell’aiuto statale nell’economia italiana risalgono all’inizio degli anni Venti. De Cecco esemplifica con due esempi: il primo è il caso della Bis, la Banca Italiana di Sconto, liquidata nel 1921; il secondo è il salvataggio del Banco di Roma del 1922. Nel primo caso il governo democratico non concesse alcun prestito; nel secondo caso il governo autoritario fascista trattò il salvataggio della banca imponendo agli azionisti un preciso carico di oneri. Dal momento che si trattava prevalentemente di industrie che avevano scalato le banche nei tardi anni Dieci con i capitali ricavati dall’economia bellica e che si erano arricchiti producendo forzatamente negli anni di guerra, il governo fascista impose grandi quote di produzione industriale per risanare il prestito. L’aumento esponenziale della produzione provocò tuttavia una forte sovrapproduzione, al punto che il ministro Destefani fu costretto ad imporre la nominalità dei titoli di borsa e l’adozione di manovra deflazionistiche volte al contenimento della spesa pubblica e alla riduzione del debito interno nel 1926. Nella seconda metà degli anni Venti si diffonde in Europa la volontà di ricercare la stabilità monetaria. Alla riforma monetaria tedesca seguì quella britannica, con la rinegoziazione del debito pubblico e il ritorno al gold standard. Di conseguenza anche la Francia rivide la propria posizione e costrinse l’Italia all’adozione della famigerata quota-90, ossia la parità lira-sterlina del 1922. Con la “Battaglia della Lira” il governo fascista cercò di limitare il più possibile la speculazione monetaria: nell’inseguimento della quota-90, salari e valore del denaro furono drasticamente ridotti. Quanto alla risoluzione del malcontento per il taglio del 10% dei salari “ci pensò l’olio di ricino”. Le politiche deflazionistiche frustrarono ulteriormente l’economia; la crescita diminuì. E’ in questa situazione che l’Italia viene investita dalla crisi del 1931: “il crollo fu limitato semplicemente perché eravamo già per terra: in sostanza da noi piovve sul bagnato, mentre da altre parti era ancora sereno”. E’ in questi anni che i manager-tecnocrati tentarono l’adozione di un nuovo modello di sviluppo di stampo non tedesco, ma americano, scontrandosi però con una condizione salariale nettamente inferiore a quella americana. Questo sistema, che come detto sopravvisse fino agli anni Cinquanta, si attuerà infatti solo nel secondo dopoguerra: come si poteva vendere automobili ai contadini? Alla crisi del credito, lo Stato rispose assumendo le partecipazioni e finanziando le banche in crisi, entrando nel mercato. Infrastrutture e riarmo, unica alternativa per far ripartire la produzione industriale (per di più giustificato dal discorso fascista stesso) fornirono la direzione per la ripresa. Al termine della ricostruzione storica, De Cecco ha quindi tratto alcune conclusioni, lasciando al pubblico in sala la costruzione dell’altro lato dell’analogia: “i modelli degli anni ‘30 funzionano, e funzionano quando le cose vanno male”. Ma sono manovre “di cartellizzazione, di monopolio e – benché da noi non ci fu – di controllo dei cambi: è mobilitazione, non stabilizzazione”. E’ dunque una costante storica che le riforme abbiano sempre seguito e mai preceduto le crisi, specialmente in Italia. “Non possiamo ridurci ogni volta in questa maniera. Anche se c’è da dire che gli economisti, come portatori del nuovo, non sono proprio sempre in prima linea”.  
   
 

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