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Notiziario Marketpress di Lunedì 07 Giugno 2010
 
   
  SAPER ASCOLTARE LA “PANCIA” DEL PAESE DARIO DI VICO E IL SUO LIBRO INCHIESTA SUI “PICCOLI”: OTTO MILIONI DI PARTITE IVA

 
   
  Trento, 7 giugno 2010 - Un deputato del Pd, Pier Paolo Baretta; un senatore del Pdl, Maurizio Castro; un professore di economia politica all’università di Milano, Michele Salvati: chiamati al confronto, coordinati da Tonia Mastrobuoni, alla facoltà di giurisprudenza, con Dario Di Vico, inviato ed editorialista del “Corriere della Sera”. Cui è andato – da subito – l’unanime riconoscimento di essere riuscito, nel suo libro inchiesta “Piccoli. La pancia del Paese”, edito da Marsilio, a fotografare con rappresentatività quasi drammatica una parte della società che – specie nel Nord, in particolare nel Nord est – ha ancora le sembianze dell’invisibilità. Di che parla infatti il libro di Di Vico? Leggiamo: “Piccoli: quattro milioni di piccole aziende, otto milioni di partite Iva rappresentano per un Paese un patrimonio vitale. Ma se questi signori, da quando aprono bottega fino a sera, hanno la sensazione di lavorare «contro», c´è qualcosa che non va. La crisi ha moltiplicato gli outsider, reso più corta la coperta e ha lasciato senza voce non solo precari e disoccupati, ma anche artigiani, piccoli commercianti, partite Iva e professionisti. E il silenzio deve preoccupare più di una protesta clamorosa. Nel silenzio i valori finiscono nel tritacarne, quelli tradizionali non reggono l´urto della secolarizzazione e quelli moderni sono considerati velleitari, buoni per le élite. I Piccoli credono nella libera impresa e nel lavoro autonomo, non disdegnano il mercato e lo considerano meglio della politica, odiano le tasse e la burocrazia, lo Stato-imprenditore e le oligarchie industriali. Sono la pancia del Paese, ne esprimono gli umori, le paure, gli slanci. Non hanno riti da onorare, linguaggi da tenere in vita, manifestazioni da propagandare, Pantheon da riempire. E anche per questo le élite e la cultura li escludono sistematicamente dalla rappresentazione del Paese. Per loro sono e restano degli Invisibili”. Già. Lo ha detto chiaro, quasi con rabbia, Dario Di Vico. “L’italia è un Paese ben strano. Noi disprezziamo la pancia del Paese. Magari accettiamo quella degli Stati Uniti, guarda caso capace di esprimere un presidente, ma da noi no, non si può…Eppure noi dobbiamo dialogare con questa parte della società, altro che assecondare l’obbrobrio di chi dice che la terza Camera del Paese è quella che si rappresenta da Bruno Vespa. Scherziamo? E’ la rappresentanza che rappresenta, forse è il caso di riconoscere che è finito il format che ha rappresentato la dialettica italiana lungo l’asse grande impresa – sindacati. E’ finita. E le figure santificali quali sono stati Agnelli e Lama non ci sono più. I voti contano nelle democrazie, il resto sono chiacchiere. Non è più scontato il poter dire: noi facciamo il capitalismo con il sedere degli altri. Gli altri ti possono dire che loro il sedere non ce le mettono più”. Di Vico incassa il riconoscimento di aver dato volto e voce, in modo vitale, con una inchiesta giornalistica di qualità, a chi per anni con schematica visione è stato indicato come evasore, grezzo, antisolidaristico. Una buffa categoria fiscale che va invece raccontata – come ha fatto Di Vico – inserendola nel contesto del gigantesco sforzo di produttività ed efficienza cui è chiamato in questi giorni il Paese per uscire dalla crisi. Ecco, pensare che l’invisibilità della partite Iva, così come quella dei giovani non garantiti, possa continuare, a favore di una rappresentazione tutta verticale, tutta interna alle èlite, sarebbe un errore colossale.  
   
 

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