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Notiziario Marketpress di Lunedì 25 Ottobre 2010
 
   
  COOPERATIVE O IMPRESE SOCIALI? A VENT’ANNI DI DISTANZA DALLA LEGGE 381: È NECESSARIO CAMBIARE, SE VOGLIAMO CHE LA NOSTRA ESPERIENZA POSSA PROSEGUIRE.

 
   
  Aquileia, 22 ottobre 2010 – Di seguito un intervento di riflessione del Presidente Legacoopsociali Friuli Venezia Giulia dott. Gian Luigi Bettoli. Non deve stupire questa citazione di un giovane che non è ancora diventato il portabandiera della sinistra socialista autonomista, il protagonista della contraddittoria stagione della programmazione economica del centro-sinistra dei primi anni ’60. Quello che nel 1945 sarà uno dei protagonisti del legale tirannicidio che avvia la ricostruzione democratica del nostro paese, nei primi anni ’20 è solo un giovane intellettuale tecnico, formatosi sui testi della Tomistica, che affida le sue riflessioni alle pagine del quotidiano della sinistra cristiana, nato dall’esperienza delle Leghe Bianche. Egli pone però questioni cruciali, ancor oggi attualissime. Ci ritornerò fra qualche momento: ma la riflessione lombardiana ci aiuta a contestualizzare un ragionamento che cerca di uscire dal cerchio della nostra significativa ma 1 Riccardo Lombardi, Le conquiste sociali e la produzione, in: «Il Domani d’Italia». Citazione tratta da: Miriam Mafai, Lombardi. Una biografia politica, Roma, Ediesse, 2009, seconda edizione, p. 21. Contraddittoria quotidianità, segnata da indubbi successi ma anche da una pesante sensazione di incertezza, quando non di frustrazione 2. La legge 381 ha vent’anni, e si vedono. Siamo cambiati, ma non sempre in meglio. Non voglio qui insistere sugli indubbi successi della cooperazione sociale, tanto scontati da rendere quasi privo di senso il soffermarsi su un dato che è sotto gli occhi di tutti: in piena crisi economica il nostro settore sembra ancora reggere, regredisce sul piano del fatturato in termini ancora quasi irrisori, mentre continua – seppure rallentata – la crescita occupazionale e quella del sistema di imprese. Sempre di più, le cooperative che nascono scelgono la forma della cooperativa sociale. Certo, il regresso della spesa pubblica e lo smantellamento del debole ed incompleto Welfare State 3 italiano fanno percepire questi elementi di tenuta - più che come certi elementi di solidità - come i pericolosi scricchiolii che possono anticipare lo schianto di una faglia sismica. E nessuno come noi, seduti tra gli epicentri di ricorrenti terremoti, ne può essere avvertito. Eppure le contraddizioni sono sotto gli occhi di tutti. Uno stesso sguardo superficiale all’Albo delle cooperative sociali fa nascere qualche dubbio: siamo del tutto certi che l’asse principale sia quello dei (relativi) benefici fiscali e contributivi sopravvissuti 4? Quanto hanno veramente di sociale esperienze aziendali segnate da pratiche di governo verticalizzate, difficilmente presentabili come modello di autogestione o di incremento del capitale sociale comunitario? In fondo, non si tratta di processi quasi “naturali”, paralleli a quelli che hanno interessato il consolidamento dell’economia cooperativa “tradizionale”? Certo, a volte capita di avere qualche dubbio, quando si promuove un sistema che dovrebbe ispirare intuitivamente l’idea della ricchezza e fantasia sociale, e si assiste a crisi di gruppi dirigenti cooperativi precipitati dall’esaurimento di leaderships carismatiche – dove non si riesce più a garantire il ricambio intergenerazionale - nello stallo di forme di gestione incapaci di fare il salto dallo spirito generoso dei pionieri alla alta professionalità necessaria per “stare sulla piazza”. Una professionalità per sua natura doppia: di operatori sociali che sono anche imprenditori, e viceversa. Alla ricerca delle cause di quella che può essere una mutazione genetica dell’esperienza storica della cooperazione sociale, non possiamo che tornare da dove siamo partiti, o almeno dalla tappa precedente: quella della regolamentazione legislativa del settore. Appare stridente l’attuale bipartizione della cooperazione sociale in due distinti pezzi, sempre meno comunicanti, imposti per di più per via amministrativa da un’interpretazione restrittiva della legge 381. E che oggi ci consegnano una realtà diversa da quella che avevamo immaginato alle origini. Da una parte, una cooperazione impegnata nella progettazione, realizzazione e gestione di servizi sociali, sanitari ed educativi, che ha visto lo sviluppo di grandi ed efficienti 2 Questo intervento si sofferma con maggiore estensione su alcune problematiche, trascurandone altre, sulle quali ci si è concentrati in altra sede. Non si è per altro rinunciato ad enunciarle, comunque: tanto per mettere alcuni punti di riferimento. 3 Che non significa - non stanchiamoci mai di ricordarlo - “stato sociale”, ma “Stato del Benessere”. Non per meno, i milioni di soldati britannici, dispersi da sei anni per il tutto il pianeta sui fronti della seconda guerra mondiale, mandarono a casa nel 1945 il pur vincitore Winston Churchill, per sostituirlo con un governo laburista che realizzò, con il Piano Beveridge, il modello moderno di Welfare State. 4 Penso in particolare alla trasformazione in cooperative sociali di istituti scolastici e centri di formazione professionale privati. Realtà aziendali, capaci di forza espansiva e di attirare al loro interno molte migliaia di giovani acculturati. Una nuova forma di cooperazione di servizi, sempre più distante nelle forme e nelle preoccupazioni dall’altra: quella di inserimento lavorativo – che, soprattutto nella nostra regione, era stata elemento fondativo primario della esperienza della cooperazione sociale italiana – visibilmente in crisi. La soluzione è semplice, a volerla praticare. Il primo tappo da far saltare: la divisione tra “A” e “B”. La divisione tra coop “A” e “B”, sancita per via di circolari, poteva avere allora una giustificazione urgente e credibile: serviva a creare un filtro, un ostacolo difensivo a protezione della cooperazione sociale di inserimento lavorativo, per lasciare a quest’ultima uno spazio di mercato apposito, impedendo il suo annullamento da parte di quell’altro tipo di cooperazione sociale, tanto più forte quanto più si usciva dai territori “primigeni” del movimento basagliano 5. Proprio settori minoritari del nostro mondo - rappresentati in particolare da un filone della psichiatria democratica - hanno teorizzato al contrario la necessità di mantenere uniti i due pezzi della cooperazione: indebolendo però la loro lungimirante intuizione con ipotesi velleitarie, in particolare quella (in realtà mutuata da un’esperienza piena di limiti, come quella delle comunità terapeutiche per le tossicodipendenze 6) della automatica assunzione nelle attività assistenziali dell’utenza 7. Cosa possiamo concludere oggi? Ci ritroviamo con: una cooperazione sociale di inserimento lavorativo ridotta a realtà minoritaria, con l’eccezione quasi solo del nostro contesto regionale; una crisi di senso delle poche esperienze di grande cooperazione sociale di questo tipo, votate o ad una regressione strutturale, o ad una assimilazione al modello della cooperativa multiservizi 8; un impoverimento dei quadri (quanti giovani generosi e motivati entrano oggi nelle cooperative sociali di inserimento lavorativo, a differenza del passato?). I dati sulla scolarizzazione nei due gruppi di cooperative sociali dimostrano una drammatica differenziazione, a tutto vantaggio della cooperazione di servizi sociali. Nel complesso, la suddivisione in “A” e “B” ha provocato una segmentazione delle varie fasi del lavoro sociale, facendone perdere il senso complessivo. Non ci si può stupire se, stando così le cose, il processo di omologazione della cooperazione sociale alle tipologie tradizionali di 5 Non solo Trieste e Pordenone: anche Venezia, Torino, Milano ed altri luoghi. Ma va detto che, in altre esperienze, come quella di Matera, la cooperazione sociale è fin dal principio invece soprattutto cooperazione tra operatori, utilizzando il veicolo delle cooperative di giovani, costituite grazie alle legge 285/1977. 6 Che tra l’altro parte da concetti direttivi che sono l’opposto del movimento di liberazione dalle istituzioni psichiatriche, e finisce per ricreare un circuito chiuso istituzionale, nel quale l’utente “curato” non fa altro che rimanere nel sistema, attraverso la sua nuova funzione di operatore. 7 Da questa teorizzazione è nata, proprio in un’area della nostra regione, una particolare esperienza di cooperazione “mista” A+b, con esiti valutati in modo diverso. Di altro tipo l’impostazione dell’esperienza di cooperazione sociale nata dai gruppi di auto-aiuto tra utenti psichiatrici - introdotta recentemente nel nostro Paese grazie alla Rete Toscana Utenti – che, riproponendo esperienze inglesi, mette al centro il paziente psichiatrico attraverso forti processi di empowerment. Nel Regno Unito questo movimento ha visto un coinvolgimento di primo piano delle Università, che hanno partecipato alla formazione dei gruppi di lavoro di utenti-ricercatori. 8 Fenomeno assecondato dalla “cooptazione” di alcune di queste esperienze nel Consorzio Nazionale Servizi, che le ha usate strumentalmente, senza offrire al settore una crescita collettiva. Anzi, teorizzando nella persona del suo attuale presidente l’inutilità della distinzione tra cooperative di servizi e sociali. Impresa economica è ormai molto avanzato. Dobbiamo scegliere se accodarci, prendendo atto del lento esaurirsi di una esperienza, oppure se tentare di invertire rotta: dalla nostra abbiamo ancora i numeri del bilancio economico, che non vedono del tutto consumata la fase dell’arretramento del settore, e notevoli risorse umane. Non è certo a livello aziendale o territoriale che si deve dare la risposta. Certo, possono essere date risposte parziali, anche se importantissime: la tessitura dei fili della rete infra- ed inter-cooperativa, fortificando i rapporti di collaborazione; la diversificazione dei settori di attività; la sperimentazione di nuovi percorsi, investendo in una fase di ridisegno complessivo dell’economia mondiale. Ma non si può far molto tra le maglie delle normative regionali, ingabbiate da una leggequadro nazionale: è il nostro documento fondamentale, la 381, che va ritoccato coraggiosamente. Ad iniziare dalla divisione in cooperative sociali “A” e “B”. La contraddizione tende inoltre a complicarsi, se teniamo conto delle proposte emerse dal dibattito congressuale di Federsolidarietà, molto più radicali di quelle discusse nel parallelo congresso di Legacoopsociali. L’allargamento delle attività tipiche della cooperazione sociale a sanità, istruzione e cultura, nell’allineare i settori previsti dalla 381 a quelli del decreto 460 per le onlus ed a quelli del decreto 155 per le imprese sociali, compie un atto di razionalità, ma finisce per scardinare inevitabilmente la divisione tra coop “A” e “B” 9. Solo per fare un esempio: chi sono le cooperative sociali che opereranno nell’istruzione e nella cultura? Oggi, nel settore della cultura, o sono cooperative non sociali, oppure sono – con importanti processi di diversificazione, di cui abbiamo testimonianza in regione – cooperative di inserimento lavorativo. Altrimenti, come facciamo ad offrire occupazione qualificata a giovani e meno giovani acculturati? Fra i quali ritroviamo un’utenza dei servizi socio-sanitari che ha livelli sempre più alti di qualificazione, e non è più quella non scolarizzata degli anni ’70 ed ’80. Oppure: che tipo di cooperative saranno quelle del settore esclusivamente “sanitario”? Saranno cooperative di professionisti, isolati nelle loro piccole torri d’avorio, o sarà una nuova leva di intellettuali e tecnici capace di potenziare tutta la rete dei servizi sociali e di inclusione? Il secondo: le categorie dello svantaggio. E’ ormai il caso di andare a fondo. Agire su questo piano non può che voler dire porre il problema delle categorie di svantaggio, ormai ristrettissime rispetto a quelle previste dalla (per altro mutevole) normativa europea 10. Su questo piano, la discussione rischia di apparire simile a quella medievale sul “sesso degli angeli”: è più opportuno tutelare – dopo - le categorie maggiormente svantaggiate (come i disabili e gli utenti psichiatrici), oppure è necessario allargare – prima - le politiche di prevenzione sociale e di regia complessiva dei sistemi di Welfare State, unendo in un unico programma operativo politiche occupazionali e prevenzione del disagio, come indicano le normative europee? Su questo piano, le proposte attuali delle associazioni della cooperazione sociale appaiono riduttive, limitandosi ad introdurre limitate 9http://www.Federsolidarieta.confcooperative.it/c11/documneto%20preparatorio%20assembl/document%20libr ary/Documento_preparatorio_2010.pdf, p. 21. 10 Cfr. I regolamenti Ce 2204/2002 ed 800/2008. Categorie di nuovo svantaggio 11. E lasciando, tra l’altro, del tutto aperta la situazione di grande confusione data dal sovrapporsi delle definizioni di svantaggio/disabilità offerte dalla legge 381/1991, dalla 68/1999, dal decreto legislativo 155/2006 e dai citati regolamenti europei. In fondo, basterebbe comprendere – utilizzando i meccanismi amministrativi previsti dallo stesso (solo parzialmente applicato) articolo 4 della legge 381 – le varie categorie europee di svantaggio, per assicurare con sicurezza a praticamente tutte le cooperative sociali il 30% minimo di inserimenti lavorativi. Nella realtà, lo sappiamo empiricamente, siamo già oltre. Ovviamente bisogna fare anche una scelta politica e di equità: se il disabile e l’utente in cura ai servizi socio-sanitari ha diritto ad una considerazione e protezione praticamente a tempo indeterminato, le categorie di svantaggio prive di attuale rilevanza socio-sanitaria dovrebbero essere considerate, ai fini del computo e degli sgravi contributivi, solo per periodi determinati, non eccedenti gli uno o due anni. In tal modo sarebbe possibile conciliare l’esigenza di ricostruire un minimo comun denominatore al settore, e contemporaneamente quella di evitare guerre tra poveri: gli “svantaggiati/disabili” che rubano il posto ai “lavoratori padri di famiglia” cassaintegrati, recentemente adombrata come chiave di lettura quasi acritica dei numerosi amministratori comunali componenti dell’Esecutivo dell’Anci regionale, nell’ambito della valutazione sui progetti relativi a Lsu ed Lpu. Terzo movimento: cavalcare la tigre. E’ proprio così difficile? In fondo, tecnicamente, basta un decreto ministeriale, che operi sulle categorie di svantaggio, e non si dimentichi di revocare quell’antica circolare che impone la divisione tra “A” e “B”, ripristinando così il 30% di svantaggiati su tutta la cooperazione sociale. D’altro canto, il rimettere in un unico calderone tutta la cooperazione sociale creerebbe senz’altro una dinamica magmatica, che però sarebbe senz’altro positiva sul medio-lungo periodo, e dovrebbe venire guidata da nuovi strumenti di valutazione sociale: dal Bilancio Sociale 12 alla programmazione dei Piani di Zona. Ovviamente è perfino pedestre dover ripetere che questi strumenti debbono essere gestiti sul piano politico, e non abbandonati alla dimensione meramente burocratica. I Bilanci Sociali non hanno senso se compilati da commercialisti, così come i Piani di Zona sono solo una perdita di tempo se vengono gestiti alla garibaldina come quelli del ciclo che si è appena concluso (con qualche novità positiva che emerge dall’anticipazione triestina del 2° ciclo). Cos’abbiamo da perdere, se non un destino di dignitosa, ma grigia omologazione tra le nebbie di un presente di generale decadenza sociale e produttiva? Certo, chi non ha per la testa altro che bilanci e gare d’appalto, si troverebbe frastornato ed in difficoltà. Ben diversamente, chi ha come priorità altre idee, che si chiamano Welfare State, Inclusione Sociale, Creazione di Capitale Sociale Comunitario, Responsabilità Sociale d’Impresa, avrebbe solo altra carta bianca su cui scrivere, disegnare o sognare. 11 Oltre al citato documento congressuale di Federsolidarietà, sempre a p. 21, cfr. Il documento congressuale di Legacoopsociali: http://www.Legacoopsociali.it/?action=congresso_2009, Documento politico definitivo, p. 4. 12 Che in Friuli Venezia Giulia è obbligatorio già da questo esercizio di bilancio per le cooperative sociali, con la sola eccezione delle microimprese, che hanno diritto alla proroga di un anno Certo, per vivere bisogna anche far quadrare i bilanci, e riuscire a presentare proposte giuste per le gare d’appalto. Anche, non solo. E’ possibile esercitare una funzione sociale, se non tengono più i parametri della democrazia economica? E veniamo all’applicazione della legge sull’impresa sociale. Partiamo da un dato di fatto: in Friuli Venezia Giulia l’idea stessa di i.S. 13 è nata nel mondo della cooperazione sociale. Forse per civetteria, forse non rendendosi conto dell’equivoco innescato ad orologeria, quel concetto ha dato anche il nome a pezzi della cooperazione sociale regionale, come se il termine “cooperativa” non bastasse più, non avesse già di per sé quei significati pregnanti che ha fin dalla sua origine, ben più impegnativi del termine “impresa”. Non c’è quindi da stupirsi se, in Friuli Venezia Giulia, cooperazione sociale ed impresa sociale sono vissute come la stessa cosa: in fondo, la stessa adozione del Bilancio Sociale con la legge 20/2006 rende unico obbligo per le cooperative sociali (se vogliono anche essere i.S.) il fatto di allungare alla loro già lunga ragione sociale (coop “xyz” soc. Coop. Soc. Onlus “impresa sociale” a r.L.). In attesa, ovviamente, di sapere quali ne siano i vantaggi. Ma, qui, appare urgente una chiarificazione. Vantaggi per chi, e per che cosa? I vantaggi offerti alle cooperative sociali (e alle onlus) sono evidenti: decontribuzione Inps e contributi ad hoc per le persone svantaggiate inserite (ma le norme regionali sul lavoro hanno allargato, giustamente, tali facilitazioni a tutte le imprese che assumono disabili); finanziamenti de minimis per investimenti; esenzione Irap a fronte del fatto che si lavora per il sistema sociosanitario regionale, e sarebbe assurda una tassa sul lavoro di collaboratori del Ssr; ecc. A chi vanno allargati questi vantaggi, in cambio delle deboli guarentigie imposte dalla legge sull’i.S. (risibili, se si pensa alle possibilità di aggirare i divieti di ricavare utili, attraverso le retribuzioni ed i benefits della loro tecnocrazia). Facciamo un esempio che è nelle teste di tutti gli operatori del settore, e non solo: quale sarebbe la prima i.S. Non cooperativa ad usufruire di benefici finalizzati, se non la spa “Sereni Orizzonti”, notoriamente collegata al consigliere regionale Massimo Blasoni, fondatore nel passato di quella cooperativa “Sanitalia” che – commissariata negli anni ’90 dalla Regione – rappresentò il più clamoroso caso nazionale di “deviazione” dalla mission di una cooperativa sociale? Stiamo parlando di quello stesso Blasoni che, ad ogni occasione gli viene fornita, cerca di utilizzare la sua funzione pubblica per riproporre l’esclusione della cooperazione sociale (ovviamente “A”: i suoi più diretti concorrenti) dalle normative a favore delle onlus 14. Al di fuori di questo esempio pur significativo, è evidente che l’i.S. Sociale rischia di costituire il vero e proprio “cavallo di Troia” di un’imprenditoria italiana in crisi d’identità, priva di una politica industriale che non sia quella del decentramento e della delocalizzazione produttiva, ma anche di una visione che punti alla difesa e qualificazione dell’istruzione di massa e della ricerca scientifica, ed in cerca semmai di rafforzare le posizioni di rendita. Se l’Italia è diventata una periferia economica della globalizzazione, è anche perché i capitalisti italiani sono più attenti agli investimenti finanziari nei servizi, e mirano quindi a spartirsi non più solo le opere pubbliche, ma anche la previdenza, la sanità, la scuola stessa: dalle autostrade di Benetton alle ferrovie private di Montezemolo agli alberghi di Marcegaglia, tanto per citare nomi noti. Da un progetto del genere non può emergere nuova vera impresa sociale, semmai un 13 D’ora in poi: impresa sociale. 14 Non dimentichiamo che, nella sola Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, per alcuni anni le cooperative sociali “di tipo A” hanno avuto il non ambito primato nazionale di essere considerate “profit” per legge: e non sappiamo ancora chi dobbiamo precisamente ringraziare (anche se poi questa enormità è stata risolta dalla Giunta Illy). “mercato dei servizi” limitato alle classi abbienti. Non è forse un caso l’attenzione verso il “terzo settore” – accolta senza una specifica riflessione critica dall’interno stesso del mondo no profit - prestata da uno dei massimi dirigenti della Fiat, Umberto Agnelli, nei suoi ultimi anni di attività, o l’inserto dedicato a queste tematiche dal quotidiano di Confindustria «Il Sole 24 Ore». Ma sono – dall’interno del settore - le motivazioni espresse da uno dei più autorevoli padri dell’i.S. A sollevare il massimo dissenso: come quando candidamente il prof. Borzaga dichiara 15 che la differenza tra i.S. E cooperativa sociale è che quest’ultima non permette la presa di decisioni veloci, tipiche della gestione monocratica (i francesi direbbero: padronale) dell’impresa non cooperativa. E qui casca letteralmente il palco: per quale motivo dovremmo equiparare società fondate sulla democrazia economica nella sua forma più allargata (“una testa un voto”, verifica e rinnovo democratico dei gruppi dirigenti; intergenerazionalità; divieto di profitto privato 16) a società prive di questi valori comportamentali? E’ o non è la cooperazione uno dei cardini – forse l’unico vivente – di quei principi di democrazia economica che sono fissati nel Capo Iii della Parte I della Costituzione Repubblicana, e che non si limitano solo al primo e secondo comma dell’articolo 45, quelli che stabiliscono che “1. La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. 2. La legge ne promuove e favorisce l´incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”, ma prevedono forme di responsabilità sociale dell’impresa e di partecipazione dei lavoratori alle scelte dell’economia che sono ancora tutte da attuare? Formule nuove, dal sapore irrimediabile d’antan. La domanda è ovviamente retorica. E si somma ad altri elementi di dissenso, come il fatto di aver previsto (al comma 2 dell’articolo 2 del d. Lgs 155/2006 17) una nuova forma di impresa di inserimento lavorativo, concorrente istituzionalmente sleale per le cooperative sociali “di tipo B”, in quanto aperta a quelle forme di svantaggio sociale che oggi non sono ancora riconosciute dalla legge 381. E con quelle altre – inaccettabili - previsioni degli articoli 5 e 10 del decreto 460/1997 sulle onlus, che sottraggono parte del mondo associativo alle necessarie verifiche di democraticità interna 18. 15 Intervento di Carlo Borzaga al seminario di Legacoopsociali «Impresa sociale: a che punto siamo?», Roma, 27 maggio 2010. Il prof. Borzaga per altro è lucido nella sua onestà intellettuale: in una edizione passata delle Giornate di Bertinoro ebbe occasione di rispondere personalmente ad un nostro intervento sull’applicazione del Ccnl, affermando che – se le cooperative sociali non costano di meno del personale dei committenti – non hanno ragion d’essere economica. 16 La Dichiarazione di identità cooperativa adottata dall’Alleanza Cooperativa Internazionale è leggibile su vari siti internet, come ad esempio: http://www.Modena.legacoop.it/updown/storia/storia-08.pdf 17 “2. Indipendentemente dall´esercizio della attività di impresa nei settori di cui al comma 1, possono acquisire la qualifica di impresa sociale le organizzazioni che esercitano attività di impresa, al fine dell´inserimento lavorativo di soggetti che siano: a) lavoratori svantaggiati ai sensi dell´articolo 2, primo paragrafo 1, lettera f), punti i), ix) e x), del regolamento (Ce) n. 2204/2002 della Commissione, 5 dicembre 2002, della Commissione relativo all´applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato Ce agli aiuti di Stato a favore dell´occupazione; b) lavoratori disabili ai sensi dell´articolo 2, primo paragrafo 1, lettera g), del citato regolamento (Ce) n. 2204/2002.” In realtà il vantaggio teorico costituito dalla più larga platea di soggetti inseribili al lavoro è riequilibrato dal venir meno della lettera a), per la decadenza del Regolamento 2204 in seguito all’adozione del successivo Regolamento Ce 800/2008. 18 Articolo 5. Enti di tipo associativo: (…) “4-quinquies. Le disposizioni di cui ai commi 3, 4-bis, 4-ter e 4-quater (considerazione di alcune attività istituzionali come non commerciali, Nda) si applicano a condizione che le associazioni interessate si conformino alle seguenti clausole, In realtà, la finalità di una normativa come quella sull’i.S. – altrimenti incomprensibile - appare chiara se si pensa alle attuali tendenze allo smantellamento del Welfare State, che si manifestano sul piano internazionale. Recente è l’innamoramento provinciale per le melensaggini del nuovo premier inglese David Cameron, che con la sua idea di Open Society cerca di nascondere una nuova ondata di tagli alla spesa sociale; sulla stessa linea il Libro Verde del ministro italiano Sacconi. Quello che si ipotizza, di fronte alla consistente tutela - questa sì inossidabile – dei redditi da capitale, e di una torsione strutturale della spesa pubblica verso interessi lontani dall’utilità sociale 19, è un utilizzo della sussidiarietà – recentemente introdotta in Costituzione – come forma di delega generalizzata delle funzioni pubbliche ad una società impoverita, segmentata, abbandonata ad una “autogestione” dei servizi che non può essere che residuale. Per reggere questa vera e propria ondata controriformistica (se rimaniamo agli anni ’70 italiani, tanto aborriti dal citato Sacconi: ma verrebbe pure da definirla, per completezza di riferimenti al secolo che ci siamo lasciati alle spalle, controrivoluzionaria), è necessaria una fioritura di iniziative dal basso, incaricate non di gestire veramente servizi, ma di “mettere una pezza” al disastro sociale. Voglio concludere questo paragrafo con la citazione letterale di quello che ritengo un lapsus freudiano piuttosto rivelatore. Una nota ad una autorevole proposta dall’Agenzia per le onlus, recita (riferendosi a ciò che qualifica un soggetto del terzo settore): «Ad esempio, per un ente che opera a favore di indigenti non importa che i fondi siano raccolti con la vendita di uova pasquali o con attività abituale di ristorazione aperta al pubblico: ciò che conta è che gli indigenti abbiano il vestiario o il pasto caldo. Oppure, per un ente operante nel settore della prevenzione e recupero della tossicodipendenza, che i fondi provengano dalla vendita delle stelle di Natale o dalla raccolta di contributi, oppure dal commercio abituale di prodotti artigianali, non ha nessuna importanza. Anche in da inserire nei relativi atti costitutivi o statuti redatti nella forma dell´atto pubblico o della scrittura privata autenticata o registrata: (…) “c) disciplina uniforme del rapporto associativo e delle modalità associative volte a garantire l´effettività del rapporto medesimo, escludendo espressamente la temporaneità della partecipazione alla vita associativa e prevedendo per gli associati o partecipanti maggiori d´età il diritto di voto per l´approvazione e le modificazioni dello statuto e dei regolamenti e per la nomina degli organi direttivi dell´associazione; (…) “e) eleggibilità libera degli organi amministrativi, principio del voto singolo di cui all´articolo 2532, secondo comma, del codice civile, sovranità dell´assemblea dei soci, associati o partecipanti e i criteri di loro ammissione ed esclusione, criteri e idonee forme di pubblicità delle convocazioni assembleari, delle relative deliberazioni, dei bilanci o rendiconti; (…) “4-sexies. Le disposizioni di cui alle lettere c) ed e) del comma 4-quinquies non si applicano alle associazioni religiose riconosciute dalle confessioni con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese, nonché alle associazioni politiche, sindacali e di categoria.” Articolo 10. Organizzazioni non lucrative di utilità sociale: “1. Sono organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus) le associazioni, i comitati, le fondazioni, le società cooperative e gli altri enti di carattere privato, con o senza personalità giuridica, i cui statuti o atti costitutivi, redatti nella forma dell´atto pubblico o della scrittura privata autenticata o registrata, prevedono espressamente: (…) “h) disciplina uniforme del rapporto associativo e delle modalità associative volte a garantire l´effettività del rapporto medesimo, escludendo espressamente la temporaneità della partecipazione alla vita associativa e prevedendo per gli associati o partecipanti maggiori d´età il diritto di voto per l´approvazione e le modificazioni dello statuto e dei regolamenti e per la nomina degli organi direttivi dell´associazione; (…) “ 7. Le disposizioni di cui alla lettera h) del comma 1 non si applicano alle fondazioni, e quelle di cui alle lettere h) ed i) del medesimo comma 1 non si applicano agli enti riconosciuti dalle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese.” 19 Vedasi le crescenti spese militari legate alla gestione imperiale degli squilibri mondiali. Questo caso il solo elemento rilevante è che la ricchezza soddisfi la finalità costitutiva dell’ente e quindi persegua un’utilità sociale di rilevanza costituzionale» 20. Si tratta forse di una provocazione, da parte degli autori, ma non ne siamo certi. In ogni caso, se non è uno scherzo, siamo al “capitalismo compassionevole” di bushiana memoria. Non si sta parlando di diritti, dignità umana e di ogni essere vivente, mutualità, cooperazione e solidarietà: quella fraternité che stava sui gagliardetti tricolore dei sanculotti durante la Grande Révolution, a pari merito con liberté ed égalité. Si sta discettando elegantemente dell’esercizio di un’attività antica quanto la miseria e l’ingiustizia: la carità, quella che si possono solitamente permettere solo gli abbienti (illuminati). Dobbiamo uscire dalla marginalità produttiva, se vogliamo uscire dalla marginalità sociale. E’ evidente che non bastano le critiche all’ideologia solidaristico-pietista ormai dominante, ma bisogna darsi velocemente un piano d’azione per il futuro. Dobbiamo, come afferma il prof. Zamagni 21, certamente contribuire a mantenere il livello di un Welfare universalistico, anche attraverso un’offerta di servizi come quelli della sanità oggi esclusa dalle prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale: fisioterapie, dentista, oculista… Per farlo, non abbiamo altra via che la creazione di nuova cooperazione sociale, allargando la platea dei tecnici che lavorano nel nostro sistema. Più in generale, abbiamo bisogno di creare alleanze, infra- ed inter-settoriali, per poter affrontare la dinamica delle centrali d’acquisto e della richiesta di global services per i quali le singole cooperative (e gli stessi consorzi, nel loro stadio attuale) non sono sufficienti. Ma dobbiamo anche avere chiaro che non esiste per noi un futuro chiuso solo nel mercato dei servizi. Non ha senso una proposta alternativa - di difesa del poco di Welfare che abbiamo, ma soprattutto di creazione di quello nuovo che non abbiamo mai assaporato – se non siamo capaci di creare nuova economia e nuova socialità. Con un’aggiunta non di poco conto: se siamo nati nel 1972 per dare dignità, retribuzione ed inquadramento assicurativo e previdenziale a chi faceva lavori umili nelle istituzioni totali, non è possibile che quasi quarant’anni dopo non siamo capaci di realizzare quel salto di qualità professionale che ogni sistema socio-economico, se non vuole cadere nella marginalità, deve saper compiere. C’è l’esigenza di valutare storicamente e di ridare un senso generale a canali di inserimento lavorativo che rischiano di apparire datati: quando le cooperative sociali nacquero inserendo le persone nel settore delle pulizie, contendevano il loro mercato – marginale rispetto a quello del lavoro “normale”, cioè in fabbrica e nel pubblico impiego – a lavoratori in gran parte irregolari, inquadrati come artigiani. Ma c’era una prospettiva: una volta “vissuta” la riabilitazione, si riapriva l’occupazione “normale”. Oggi invece i settori di servizi a basso contenuto tecnologico ed a bassa retribuzione vedono in concorrenza i soggetti deboli “indigeni” e quelli stranieri, oppure i lavoratori precarizzati dell’industria, andando ad 20 Agenzia per le onlus, Proposte per una riforma organica della legislazione sul terzo settore, 13 luglio 2009, cfr. In: http://www.Forumterzosettore.it/multimedia/allegati/20090728%20ag%20onlus%20doc%20riforma%20leg%20ter zo%20Settore.pdf, nota 4 a p. 17. 21 Faccio riferimento ad esempio al suo più recente intervento alle Giornate di Bertinoro dell’ottobre 2010: cfr. Http://www.legiornatedibertinoro.it/upld/news/doc/1.stefano_zamagni_gdb2010.pdf, pp. 12-14. Allargare a dismisura una bolla di sottoccupazione sempre più vasta (che tende a comprendere il precariato del pubblico impiego, delle “partite iva”, del lavoro interinale, dei nuovi settori “avanzati” tecnologicamente ma primitivi dal punto di vista delle relazioni industriali) senza sbocchi all’orizzonte. In poche parole: fare pulizie non è più una grande proposta di integrazione sociale, anche se la nostra contraddizione è che – almeno nel settore dell’inserimento lavorativo – viviamo soprattutto facendo pulizie. A maggior ragione abbiamo bisogno di creare alleanze anche con il settore dell’economia profit, contrattando la nostra “convenienza” economica con trasferimenti di capitali e soprattutto tecnologia e quadri che oggi non possediamo all’interno del nostro settore. Piccolo non è bello: è spesso, solamente, piccolo. Credo vada riconfermato innanzitutto il fatto che la pluralità e la diversità della cooperazione sociale è una ricchezza. E vada d’altro canto posto l’accento sui consistenti ed irrisolti problemi di governo democratico della grande cooperazione, ivi compresa quella sociale. Non possiamo assumere come una variabile indiscussa la scelta della grande impresa cooperativa, riaffermando che le scelte di costruzione di reti (consorzi, ma anche semplicemente reti informali, spesso altrettanto efficienti) è una soluzione flessibile e funzionale per i nostri problemi di scala dimensionale. Viceversa, va respinta l’ideologia del “piccolo è bello”, quando essa non sia verificata nella pratica, commisurata a precise ed efficienti scelte economiche, di nicchia qualitativa ma anche territoriale. Non è un caso che troviamo il rifiuto esplicito della grande dimensione cooperativa nel documento dell’Agenzia delle onlus, proprio subito dopo quella frase infelice sopra citata 22. Facile rispondere, sul piano tecnico, che le grandi cooperative sociali hanno per fortuna trovato nelle loro dimensioni quelle risorse economiche loro negate (per una ingiusta parificazione all’impresa profit) dal principio comunitario del de minimis. La questione, più generale, è che riemerge continuamente la dimensione tra la visione del capitalismo compassionevole (“fai del bene, perché/quindi sei una realtà del tutto fuori mercato”) e quella, efficiente oltre che solidale, dell’impresa autogestita. Ci si domanda come questa ideologia possa stare in piedi in un mondo in cui la scala dimensionale, sia dell’impresa che del “mercato” (compreso quello del lavoro), hanno assunto dimensioni fino a ieri impensabili. Che dire di dimensioni industriali come la Foxconn, la multinazionale cinese che controlla il 44% del reddito dell’intera industria elettronica mondiale con 900.000 operai, e che prevede di aumentare la propria occupazione a 1.300.000 dipendenti entro il 2013? 23 Beh, da parte nostra c’è innanzitutto da dire che quella è la ormai famigerata “fabbrica dei suicidi”, a causa di un regime di gestione del lavoro di tipo militare: lo stesso che una multinazionale italiana vorrebbe importare nel nostro paese. 22 Agenzia per le onlus, Proposte per una riforma organica della legislazione sul terzo settore, cit., pp. 18-19. 23 Cfr. Il rapporto Sacom (Students & Scholars Against Corporate Misbehaviour): «Workers as Machines: Military Management in Foxconn» del 12 ottobre 2010, in: http://sacom.Hk/wp-content/uploads/2010/10/report-onfoxconn- workers-as-machines_sacom3.Pdf Prima che sulle dimensioni, sarebbe importante che cooperatori, studiosi ed opinione pubblica iniziassero a volgere la loro attenzione maggiormente sulla qualità del lavoro, sul livello dei diritti, e sulle effettive esperienze di democrazia economica realizzate o da sperimentarsi nelle cooperative. Prima, appunto, di scoprire che abbiamo distrutto parte delle istituzioni totali, per ritrovarci chiusi in una grande istituzione globale chiamata “mercato”. Post scriptum: Quarto atto, le forme di affidamento. L’articolo 5 della legge 381 ha aperto possibilità ancora in gran parte inespresse di affidamento riservato alla cooperazione sociale “B”, introducendo una discriminazione attiva a favore della cooperazione di inserimento lavorativo. Tale normativa è stata valorizzata dalla nostra legislazione regionale, anche se dobbiamo ancor oggi lamentare un troppo limitato utilizzo di questa possibilità da parte delle amministrazioni locali. Eccezione positiva di grande rilievo è quella del Dipartimento Servizi Condivisi, su indicazione dell’Assessorato regionale alla Salute, che ha permesso importanti sperimentazioni nel campo delle pulizie sanitarie, della logistica, degli stampati (protagonisti in particolare i consorzi Cosm ed Hand), oltre ad altri affidamenti minori. La legge 328/2000 ha successivamente cambiato il quadro degli affidamenti relativi alla cooperazione sociale “A”, con il rafforzamento conseguente a livello locale a seguito della legge regionale 6/2006, ed in particolare dal suo articolo 35, che vieta l’affidamento al massimo ribasso ed introduce un rapporto minimo nel punteggio che lascia al prezzo solo un massimo di 15 punti percentuali. Anche in questo caso dobbiamo segnalare il mantenimento di una fascia di disapplicazione, soprattutto nell’area dei servizi rivolti all’infanzia. L’atteso Atto di indirizzo per gli affidamenti ai soggetti del terzo settore, applicativo del citato articolo 35, dovrebbe migliorare la situazione, fornendo indicazioni precise alle amministrazioni locali, soprattutto attraverso la fissazione di direttive vincolanti, se non autoritativamente, sul piano della formazione del personale delle autonomie locali. Ma ormai il quadro è radicalmente cambiato, in particolare con l’approvazione della Risoluzione del Parlamento europeo del 19 febbraio 2009 sull’economia sociale, che ha fissato importanti principi, che spingono sul piano dell’auspicata “fuoriuscita dalla necessità dell’appalto”. In tal modo si è andati molto oltre la conferma delle norme delle leggi 381 e 328 (oltre che di quelle regionali correlate), contenuta negli articoli 20 e 52 del decreto legislativo 163/2006 “Codice dei contratti”. Riportiamo di seguito solo una scelta di alcuni dei passi del dispositivo della Risoluzione, che implica anch’esso una rivisitazione coraggiosa dell’articolo 5 della 38: (…) 4. Ritiene che le imprese dell´economia sociale non debbano essere soggette all´applicazione delle stesse regole di concorrenza delle altre imprese e che esse necessitino di un quadro giuridico certo, basato sul riconoscimento dei loro specifici valori, che permetta loro di operare su un piano di parità rispetto alle altre imprese; (…) 5. Sottolinea il fatto che un sistema economico in cui le imprese dell´economia sociale ricoprono un ruolo più incisivo sarebbe meno esposto alla speculazione sui mercati finanziari dove operano società private non soggette al controllo da parte degli azionisti e alla vigilanza degli organi di regolamentazione; (…) 20. Sottolinea che l´economia sociale aiuta a rettificare tre tipi principali di squilibri sul mercato del lavoro: la disoccupazione, il precariato e l´esclusione sociale e dal mercato del lavoro dei disoccupati; rileva inoltre che l´economia sociale svolge un ruolo nel miglioramento dell´occupabilità, crea posti di lavoro solitamente non soggetti a delocalizzazione e contribuisce al conseguimento degli obiettivi della strategia di Lisbona; (…) 21. Ritiene che il supporto degli Stati membri alle imprese dell´economia sociale dovrebbe essere interpretato come un autentico investimento nella creazione di reti di solidarietà che possano rafforzare il ruolo delle comunità e degli enti locali nello sviluppo delle politiche sociali; (…) 27. Chiede ai governi degli Stati membri e alle autorità locali, nonché agli operatori del settore di promuovere e sostenere le possibili sinergie che possono realizzarsi nel campo dei servizi tra gli attori dell´economia sociale e la stessa utenza, ampliando l´ambito della partecipazione, della consultazione e della corresponsabilità; (…) 32. Sottolinea l´importanza dell´economia sociale nell´ambito dei servizi di interesse generale; evidenzia il valore aggiunto della creazione di reti integrate pubblico-privato, ma anche il rischio di strumentalizzazioni quali ad esempio le esternalizzazioni basate sulla riduzione dei costi a carico delle pubbliche amministrazioni, anche con contributi prestati sotto forma di volontariato; (…) 45. Chiede alla Commissione di mettere a punto un quadro giuridico dell´Unione europea favorevole alla costruzione e al mantenimento di partenariati territoriali tra il settore dell´economia sociale e le autorità locali, definendo criteri per il riconoscimento e la valorizzazione dell´economia sociale, per lo sviluppo locale sostenibile e per la promozione dell´interesse generale; (…) 24. Si tratta di indicazioni preziose, che vanno nel senso da noi più volte indicato: più che di imprese private con finalità sociale, le cooperative sociali - sommando la specifica mutualità allargata alle fasce deboli della società al carattere pubblico tipico della proprietà cooperativa - appaiono come vere e proprie realtà di pubblico autogestito. Fondamenti, quindi, di quella dimensione della pubblica amministrazione che non può essere espressa solo dalla struttura burocratica dello Stato e delle Autonomie Locali, ma deve veder compresa anche l’area dell’autorganizzazione da parte delle persone associate. Non possiamo dimenticare che sono ancora tutte da conquistare le fattive relazioni di alleanza tra cooperative sociali e pubbliche amministrazioni, che potrebbero essere sperimentate nella promozione di nuovi servizi di Welfare comunitario, a partire dalla ripresa di esperienze massicce di abitare sociale, nelle sue varie fasi correlate di cooperazione di costruzione, di abitazione e di gestione di servizi. 24 Cfr. La Risoluzione del Parlamento europeo del 19 febbraio 2009 sull’economia sociale (2008/2250(Ini)). Le relazioni industriali. Non possono essere trascurate infine alcune riflessioni sulle particolari relazioni industriali nella cooperazione sociale. La strutturazione di questa esperienza non a caso ha avuto come elementi fondativi due momenti ravvicinati, come l’emanazione alla fine del 1991 della legge 381 e la stipula nei primi mesi del 1992 del primo contratto collettivo nazionale del settore. Purtroppo però le relazioni industriali non sono cresciute parallelamente allo sviluppo della cooperazione sociale. Certo, dobbiamo autocriticamente prendere atto della mancanza di una cultura nelle stesse cooperative, per vari motivi (generazionali, culturali, di formazione dei quadri…). Ma sono stati fatti grandi passi avanti. Un settore che nel Friuli Venezia Giulia era a bassa contrattualizzazione dei lavoratori, oggi gode di un’applicazione contrattuale diffusa. Per quanto riguarda invece le organizzazioni sindacali, non si è andati oltre. Questo per vari motivi, il primo dei quali è sicuramente il fatto che le categorie che organizzano il settore sono soprattutto quelle del pubblico impiego (ed in minor partis dei servizi privati). L’idea di un sindacato generale che coprisse tutta l’area della funzione pubblica non era sbagliata in generale: peccato che sia stata globalmente amministrata in modo burocratico, non capendo le particolarità della cooperazione, men che meno di quella sociale. L’immaturità delle due parti ad instaurare mature e congruenti relazioni industriali ha prodotto una situazione di non applicazione nazionale del Ccnl, e d’altra parte uno stratificarsi di vari contratti collettivi della sanità ed assistenza privata, oltre che di un associazionismo sostanzialmente di nicchia (ad es. Anffas e Tavola Valdese, che organizzano poche centinaia di dipendenti). Mentre, sul piano interno al Ccnl della cooperazione sociale, esso è solo una brutta copia di quelli dell’assistenza privata, e non risolve problemi fondamentali, come l’inquadramento dei lavoratori del settore dell’inserimento lavorativo (non basta certo la “finestra” che rinvia ai Ccnl dei vari settori merceologici, soprattutto di fronte alle lavorazioni miste, molto diffuse nelle cooperative) oppure orari di lavoro connaturati alla strutturazione dei turni: chi è mai riuscito ad organizzare turni a ciclo continuo sulle 38 ore settimanali? L’ipotesi di nuove reti di i.S. Non farebbe altro che agire da detonatore in una situazione già delicata, dove il pericolo di deregolamentazione e concorrenza è già presente. Facciamo alcuni esempi, forse limite, come gli affidamenti diretti che (pochi) enti locali ed aziende sanitarie fanno ad associazioni di volontariato, che in realtà organizzano lavoratori irregolari – e qualche associazione è pure di emanazione sindacale! – oppure la presenza di più Ccnl in singole aziende: come la multinazionale Sodexho che applica negli asili nido (imitata da qualche cooperativa sociale “spuria”) il cosiddetto Ccnl Aninsei, firmato da Cgil-cisl-uil Scuola, molto più basso del Ccnl delle cooperative sociali. Di fronte a queste contraddizioni, non abbiamo potuto apprezzare una capacità di coordinamento adeguata da parte delle organizzazioni sindacali, anch’esse use ad accampare la scusa della “competenza”. Viceversa, a fronte di un’esperienza forse unica in Italia, di contrattazione permanente a livello di Comitato Paritetico Regionale (istituto previsto dal Ccnl della cooperazione sociale), abbiamo dovuto riscontrare un disimpegno sindacale in varie forme, nonostante la serie di buoni accordi sottoscritti su varie tematiche. E’ così restato sulle spalle delle associazioni regionali della cooperazione sociale l’onere di svolgere l’attività di Osservatorio sugli appalti, con decine e decine di contestazioni, ma anche consulenze, incontri, formazione congiunta con gli Enti Pubblici regionali, oltre che la contrattazione con l’Ente Regione degli investimenti a favore del settore. Nel dicembre dell’anno scorso, la manifestazione delle cooperative sociali in occasione della discussione in Consiglio Regionale del Bilancio preventivo 2010 ha visto l’autorganizzazione da parte delle cooperative, con una raggelante assenza delle organizzazioni sindacali. Oggi, come nel corso dei rinnovi precedenti, siamo di fronte ad una rappresentazione kafkiana, nella quale la trattativa non corrisponde alla realtà dei fatti, e le due parti trattano “senza fare i conti con l’oste” cioè la Pubblica Amministrazione, dalla quale deriva la gran parte degli affidamenti alle cooperative sociali. Chi ha lavorato seriamente per contrattualizzare il settore si sente rinfacciare le irregolarità di altre cooperative o territori, mentre chi professionalmente organizza i lavoratori dipendenti promette di farsi carico delle esigenze di pareggio economico delle cooperative, salvo – nella maggioranza dei casi – disinteressarsene appena firmato un accordo. L’esperienza delle relazioni industriali del settore ha un indice di variabilità quasi assoluto, difficilmente gestibile. Se tra i cooperatori c’è ancora chi non accetta il fatto che i lavoratori possano rivolgersi al sindacato (non capendo che questo è un elementare indice di mancanza di comunicazione, se non di democraticità, nella cooperativa), tra i sindacalisti si può oscillare tra l’economa di un istituto scolastico che organizza le gare al massimo ribasso (“tanto poi le coop pagano quello che vogliono la gente, lo so io che sono nella segreteria del mio sindacato!”) e la segreteria provinciale che interviene in surroga degli organismi della cooperativa, insegnando ai soci come far valere il loro voto durante le assemblee, fino a portare al rovesciamento di un gruppo dirigente ormai superato dagli eventi 25. Anche se generalmente la pratica sindacale si limita alla gestione delle sole vertenze individuali, oppure a sporadici momenti informativi, basati più sulla propaganda a fini di autolegittimazione che su una strategia organica. Da qualche voce del nostro settore è emersa l’esigenza (rivolta alle organizzazioni sindacali generali, quelle confederali come quelle del sindacalismo di base) di una diversa rappresentanza dei cooperatori sociali, che non sono dipendenti pubblici ma lavoratori sociali trasversali ai vari settori dei servizi e della produzione. Forse è il caso di ripresentarla oggi, anche se ogni riflessione costruttiva, ogni reale tessuto di relazioni industriali deve partire da un reciproco riconoscimento fra le parti: i cooperatori non hanno padroni, né controparti, ma vivono una duplice condizione di lavoratori ed imprenditori di se stessi, con una duplice identità anche sul piano della rappresentanza sociale. 25 E’ ovvio che la nostra preferenza va a questi intraprendenti sindacalisti fuori dal coro, non ristretti nella logica delle “competenze” e capaci di discernere tra le cooperative funzionanti e quelle ove – per usare un eufemismo alla moda – ci sono “problemi di governance”.  
   
 

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