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Notiziario Marketpress di Martedì 11 Gennaio 2011
 
   
  BAYER CROPSCIENCE: A MODICA, PRESENTATO L´UNDICESIMO VOLUME DELLA COLLANA COLTURA&CULTURA "IL POMODORO".

 
   
  Alcuni spunti da Il pomodoro. Collana Coltura & Cultura “Si fa presto a dire pomodori!” di Giovanni Carrada Un ingrediente dell’identità italiana Il pomodoro è senza discussioni l’ortaggio più amato dagli italiani, che ne consumano quasi 65 chilogrammi a testa l’anno: una quantità superiore a quella di qualsiasi altro alimento. Si mangiano infatti pomodori – freschi o trasformati – praticamente in tutte le famiglie italiane, in una su sette tutto l’anno. Un italiano su due li mangia più volte alla settimana, e uno su cinque ogni volta che è possibile. I “ghiotti” sono il 28% degli abitanti del Sud e il 15% di quelli del Nord. Per questa passione, spendiamo qualcosa come 400 milioni di euro l’anno. Oltre che essere una presenza assidua in ogni portata della nostra cucina, il pomodoro è diventato anche un ingrediente essenziale della nostra identità nazionale. Sulla pasta e sulla pizza, è il simbolo dell’esportazione della cucina italiana nel mondo. Nonostante tutto questo, lo conosciamo pochissimo, il pomodoro. Le indagini demoscopiche rivelano infatti che delle centinaia di varietà disponibili sui banchi di mercati e supermercati ne riconosciamo solo qualcuna. E che non sappiamo quasi nulla di lui, come se fosse qualcosa di banale, “il” pomodoro e basta. Eppure tutto è straordinario in questo ortaggio, ed è finalmente arrivato il momento di conoscerlo. Praticamente una medicina Il pomodoro è una “colonna” della dieta mediterranea non soltanto perché ne consumiamo tanto, ma perché ci fa particolarmente bene. E ora sappiamo anche perché. Il pomodoro contiene poche calorie (19 Kcal ogni 100 grammi: venti volte meno della pasta, quasi trenta volte meno della cioccolata) molte vitamine (in particolare vitamina C, di cui è la seconda fonte dopo l’arancia) e minerali (in particolare potassio) ma soprattutto moltissimi antiossidanti, sostanze che liberano le nostre cellule dai radicali liberi, molecole fortemente reattive che aggrediscono le proteine, i lipidi e il Dna delle cellule. Il pomodoro è un autentico concentrato di queste molecole naturali bioattive. La più importante è il licopene (si pronuncia con la “e” aperta), il carotenoide che gli conferisce anche il colore rosso. Il licopene contenuto nei pomodori è molto variabile, sia a causa del tipo di coltivazione, sia del tipo di pomodoro e del grado di maturazione: si va da 1 mg/kg nel pomodoro allungato immaturo ai 100 mg/kg nel pomodoro ciliegino. La sua biodisponibilità, che è la capacità di venire assorbito dal nostro organismo, è maggiore nel pomodoro cotto che in quello fresco, così come in quello condito con l’olio, perché si scioglie nei grassi. Insomma, almeno da questo punto di vista, meglio un bel sugo che un’insalata. Il licopene e gli altri carotenoidi, insieme ai polifenoli contenuti soprattutto nella buccia – anch’essi dotati di proprietà antiossidanti – rallentano i processi d’invecchiamento e prevengono l’insorgenza dei tumori a polmone, stomaco, colon, ovaie e soprattutto prostata. A questo contribuisce anche la capacità dei carotenoidi di potenziare il sistema immunitario. Diversi studi hanno però dimostrato che gli straordinari effetti del pomodoro sulla nostra salute non sono attribuibili a queste sostanze da sole, ma solo insieme a tutte le altre presenti nel pomodoro intero, sia fresco sia trasformato. Il tomatl degli aztechi Se ci capitasse di vedere un pomodoro selvatico, il capostipite dei pomodori che conosciamo, non scommetteremmo un euro sul suo futuro in cucina: è una bacca verde, poco più grande di un acino d’uva, per di più tossica come molte delle altre 3000 specie della famiglia delle solanacee. Contiene appunto solanina, un alcaloide che produce per difendersi dai parassiti ma che a noi provoca nausea, diarrea, vomito, fino alle allucinazioni e alla paralisi. Il merito di averne intuito le potenzialità va ai primi agricoltori del Messico meridionale, che ne incontrano la pianta come infestante nei campi di mais. Cominciano a selezionare le piante meno tossiche e pazientemente, nel giro di alcun secoli, riescono a trasformarlo nel tomatl. È bastato cambiarne pochi geni – ma loro questo non possono saperlo – per ottenere un prezioso integratore di sali e vitamine per la loro dieta. Gli aztechi amano il tomatl, che consumano sotto forma di un sugo a base anche di peperoncino e semi di zucca, soprattutto come condimento per la carne. Anche umana. Racconta infatti Bernal Diaz, soldato‐cronista della Conquista (avvenuta tra il 1519 e il 1521), che gli aztechi “mangiavano braccia e gambe delle vittime con la salsa di chimole”, fatta di peperoni, pomodori, cipolle selvatiche e sale. Questo non impedisce ai conquistadores di Hernán Cortés, che trovano il tomatl nei mercati aztechi, di apprezzare questo frutto gustoso e ricco d’acqua, ristoro ideale durante le marcie nel caldo clima subtropicale. Tanto da riportarne subito alcune piante in patria. Dal tomate al pomo d’oro A Siviglia, porta della Spagna verso le nuove colonie americane, arrivano sfortunatamente sia piante addomesticate sia piante selvatiche, quindi ancora nocive. Da qui il sospetto che avrebbe accompagnato il pomodoro per i suoi primi due secoli in Europa, tanto che i botanici ne sconsigliano il consumo considerandolo dannoso per la salute, quando non un vero e proprio cibo delle streghe (sempre a causa della famosa solanina). Questo non impedisce tuttavia al pomodoro di intraprendere una brillante carriera come pianta ornamentale. Sir Walter Raleigh ne dona una piantina alla regina d’Inghilterra Elisabetta I. Gli inglesi se lo scambiano come love apple, i francesi come pomme d’amour, i tedeschi come Libesapfel, i siciliani come puma d’amuri, gli austriaci addirittura come paradiser. Da Siviglia intanto, dove il tomatl è diventato tomate, la pianta giunge presto nel vicereame spagnolo di Napoli e si diffonde negli orti botanici italiani. Qui il medico e naturalista Pier Andrea Mattioli dà al suo frutto un nuovo nome: pomo d’oro. I due secoli di oblio non vanno però del tutto perduti. Nelle campagne dell’Andalusia e del Midi francese, ma soprattutto dell’Italia meridionale, anonimi contadini verosimilmente spinti dalla fame riescono ad addomesticare il pomodoro una seconda volta. Non solo eliminano le varietà contenenti la pericolosa solanina, ma riescono anche a selezionare le mutazioni spontanee portatrici di una modificazione genetica fondamentale: quella che consente alla pianta di fecondarsi da sola. In Europa infatti non ci sono gli insetti impollinatori naturali dei bellissimi fiori gialli del pomodoro, che essendo privi di nettarii non interessano alle api. Così la produzione può aumentare, perché basta che il vento o i bombi scuotano i fiori. Il gusto del pomodoro resta tuttavia un “segreto” di popolazioni contadine già abituate a un grande consumo di vegetali. Il resto della popolazione europea, che dall’America aveva preso il mais, continua invece a sottovalutarlo, privandosi così di vitamine essenziali e restando vittima di malattie terribili come la pellagra. Il recupero delle antiche varietà italiane Se i genetisti hanno dovuto darsi tanto da fare, è perché le varietà di pomodoro create con tanta pazienza e fatica dai contadini avevano tanti difetti. Provando quelle conservate nelle collezioni degli agronomi è facile scoprirli: molte non sono affatto buone, o si spaccano facilmente, o si rovinano troppo rapidamente, o si possono coltivare solo nel territorio di origine, e la maggior parte è poco resistente ai parassiti e alle malattie. Che fine hanno fatto, però, quelle migliori? Le stanno salvando proprio i genetisti, fra i quali quelli dell’Istituto Sperimentale per l’Orticoltura di Salerno, partendo da una collezione di oltre 180 tipi appartenenti a 20 varietà locali i cui nomi fanno già venire l’acquolina in bocca: Pantano Romano, Canestrino, Cuore di Bue di Albenga, Pisanello, Costoluto Fiorentino, Corbarino, Rosa di Sorrento, Locale di Belmonte, San Marzano… Con grande pazienza, e grazie a una raffinatissima conoscenza della genetica del pomodoro, i ricercatori hanno cominciato a eliminarne i difetti in modo che gli agricoltori possano ricominciare a coltivarle. Così non andranno perdute, e potranno dare vita a una nuova fioritura della già straordinaria biodiversità agraria italiana. Che cos’ha di speciale il San Marzano? La varietà di pomodori coltivata negli orti familiari dell’Agro Sarnese‐nocerino, fra Napoli e Salerno – la Campania Felix degli antichi romani – divenne famosa nel mondo agli inizi del Novecento grazie ai primi pelati in scatola prodotti da Francesco Cirio. Aveva tutte le ragioni per diventarlo. La sua polpa era particolarmente succosa e il suo ricco gusto era il frutto di un perfetto equilibrio fra i circa 400 componenti chimici dell’aroma del pomodoro. Si chiamava “San Marzano”. Purtroppo, come spesso accade nella vita, non c’è rosa senza spine. Il San Marzano richiede infatti cure molto impegnative. Le piante vanno allevate su sostegni, sono sensibilissime alle condizioni del terreno, e i frutti non maturano tutti insieme ma gradualmente, dal basso verso l’alto , nel giro di qualche mese finché il freddo non distrugge le piante. La raccolta va quindi fatta a mano. Per questo negli anni Settanta ha cominciato a essere sostituita da nuove varietà, coltivabili più facilmente a terra e adatte alla raccolta meccanizzata, quasi indistinguibili nella forma ma non altrettanto buone. Dalla metà degli anni Ottanta, il San Marzano è stato anche attaccato da nuovi virus, tanto che alla fine degli anni Novanta la produzione si era quasi azzerata. Da allora la coltura si è ripresa, ma il “vero” San Marzano è diventato quasi una rarità. Non aiuta il fatto che le nuove varietà siano quasi indistinguibili dal San Marzano: solo un occhio molto esperto sa individuare le differenze, e a volte ci riesce solo il cosiddetto fingerprinting molecolare, in pratica una sorta di “test del Dna”. Per questo a tutelare il vero San Marzano c’è oggi il marchio Dop: per riconoscerlo basta cercare sulle confezioni, certificate e numerate, il logo grafico del Consorzio di tutela. Pachino non è un pomodoro! Nel 1989 alcune aziende agricole della punta sudorientale della Sicilia cominciano a coltivare una nuova varietà di pomodoro ciliegino. Si chiama Naomi F1 (“F1” è la sigla che costraddistingue gli ibridi dalle varietà standard) ed è stata creata dall’azienda sementiera israeliana Hazera Genetics, uno spinoff dell’università di Gerusalemme. Da Pachino, il principale comune di produzione, i pomodorini vengono spediti in tutta Italia e fin da subito, senza bisogno di alcuna pubblicità, incontrano uno straordinario successo. Sarà perché il materiale genetico che vi è stato riunito è soprattutto di origine italiana, ma dentro ci riconosciamo subito dei sapori “nostri”. Ed è così che per i consumatori Naomi diventa – erroneamente ‐ “Pachino”. Il segreto del suo gusto, tuttavia, è dovuto proprio a quel lembo estremo della Sicilia, il più caldo e assolato d’Italia, che produce raccolti anche quando nelle altre regioni fa troppo freddo per il pomodoro. Sui suoi terreni sabbiosi molto poveri e aridi a cause delle scarse piogge, irrigati con acque salmastre perché in prossimità del mare, i pomodori crescono più piccoli, concentrando così zuccheri, sali minerali, vitamine e composti fenolici e terpenici: il segreto del loro sapore. Una nuova varietà di pomodoro coltivata in tutto il mondo, cui si affiancano negli anni successivi anche nuove varietà (Shiren, Panarea, Tyty, Corbus, Belize…) può diventare così un prodotto tipico, il “Pomodoro di Pachino Igp”, tutelato dal 2003 dal marchio europeo della Indicazione Geografica Protetta e che include anche le due tipologie costoluto e tondo liscio sia a frutto singolo che a grappolo  
   
 

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