Pubblicità | ARCHIVIO | FRASI IMPORTANTI | PICCOLO VOCABOLARIO
 













MARKETPRESS
  Notiziario
  Archivio
  Archivio Storico
  Visite a Marketpress
  Frasi importanti
  Piccolo vocabolario
  Programmi sul web








  LOGIN


Username
 
Password
 
     
   


 
Notiziario Marketpress di Mercoledì 19 Gennaio 2011
 
   
  MARIO SCHIFANO OPERE SCELTE MILANO 20 GENNAIO - 12 MARZO 2011

 
   
   Milano, 19 gennaio 2011 - Nel 1962 andai a New York ad una mostra organizzata da Sidney Janis, dal titolo New Realist Show. C’erano tutti, Rauschenberg, Oldenburg, Jasper Johns. Entrai così in un circolo che era un circolo d’affari. La società mi rincorreva, e la trappola fu il denaro. Mario Schifano. Gli anni passano e la popolarità di Mario Schifano aumenta. Secondo un recente sondaggio dell’autorevole rivista Exibart.com, il 2010 ha visto in Italia primeggiare proprio “il Puma”, con un attivo di oltre ottanta mostre a lui dedicate. Mario Schifano è stato uno dei primi a fuoriuscire, come un satellite che tange un pianeta per accelerare la sua corsa verso lo spazio siderale, dalla cultura massimalista per protrarsi verso le più lontane e desolate frontiere dell’individualismo. Artista geniale e solo, Schifano è stato amato dalle donne, dagli amici, dall’intellighenzia italiana e dai colleghi di New York. Ma era anche solo di fronte a se stesso e spesso preda di quella fame di vita e di sensazioni che hanno segnato i momenti più drammatici della sua vita. Schifano ci ha raccontato per primo l’avvento della comunicazione globale ed è stato dalla parte della democrazia intesa come inizio della fine delle ideologie. La sua arte ha rappresentato una forza di rinnovamento che questa mostra permette di leggere in controluce. Portatrice di valori come l’individualismo, la libera creatività e l’anti-ideologia, la pittura di Schifano ci ha insegnato che malgrado possano esistere epoche fortemente ideologizzate, l’arte può e deve restare un’avventura profondamente umana, personale, esistenziale. Soltanto così può aspirare a quell’eterna giovinezza che le spetta di diritto. La mostra alla Whitelabs di Milano raccoglie opere provenienti da collezioni private e appartenenti ai due decenni d’oro di Schifano, quegli anni Sessanta e Settanta che lo hanno visto creare serie di opere che hanno segnato i tempi, come i Paesaggi anemici ed i Paesaggi tv. Una delle prime Palme del 1970 e un Albero della vita del 1970, rappresentano invece il retaggio dell’infanzia libica dell’artista e il segno di un’attenzione per la natura che Schifano alimenta negli anni Ottanta. A tredieci anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel 1998, la mostra vuole ricordare la figura di uno dei più originali artisti italiani del secondo dopoguerra. Mario Schifano è un artista mediterraneo (istintivo, caldo, armonico e violentemente cromatico) che guarda all’America. E’ l’Andy Warhol italiano che diventa presto un “personaggio pubblico”, amico del jet set e dei grandi artisti americani, da Robert Rauschenberg a Jasper Johns, ma anche di una generazione di artisti romani, tra cui Tano Festa, Franco Angeli e Renato Mambor, Giosetta Fioroni e altri, passati alla storia come Scuola di Piazza del Popolo. Grazie alle sue vivaci intuizioni, alla sua arte graffiante, alla sua estetica (colta e popolare insieme) e ad una vita intessuta di sregolatezze (e coup de théâtre), Schifano è uno degli ultimi artisti contemporanei iscritto nel Pantheon dei “maledetti”, in un’epoca in cui questa figura scompare a vantaggio dell’artista-businessman o dell’artista-pubblicitario o dell’artista-artigiano. Parabola Schifano - Forse la storia di Mario Schifano è quella di un’infanzia perduta, attesa o inseguita lungo il corso della vita e giunta sfinita, sfibrata esausta nella sua arte candida e arrabbiata, irriverente e giocosa. Con la famiglia viene deportato dalla natia Homs in Libia (dov’era nato nel 1934) in un centro raccolta sfollati di Roma a soli dieci anni. Studia poco e per questo si condanna ad un “masochismo volontario” che lo porta a fare il garzone di pasticceria, dove impara ad essere simpatico a tutti. Nel 1960 lascia il lavoro d’assistente restauratore del padre, al museo archeologico di Villa Giulia, per l’arte: “Quando nel ’60 ho deciso di fare il pittore non si è trattato di vocazione, era una cosa più intelligente”, spiegherà anni dopo nelle tante interviste che rilascia. Dall’altra parte dell’oceano intanto, Andy Warhol vaticina: “è molto meglio fare della Business Art che della Art Art”, spiegando che “un artista è uno che produce cose di cui la gente non ha alcun bisogno, ma che lui – per qualche ragione – pensa sia una buona idea dargli”. A ventotto anni Schifano è a New York dove fa mostre importanti e vive come esule di lusso. Ama fare il dandy, vestire bene e le belle macchine. Tornato a Roma diventa una star, un personaggio da rotocalco. “Era molto pop, non era arte pop, lui viveva pop!” spiega di lui Eleonora Giorni, sua amica e modella. Schifano, secondo Enzo Siciliano, è un “ragazzo di vita”. Che dipinge monocromi originali: “i primi quadri gialli con dentro niente, immagini vuote, non volevano dire nulla – ricorda l’artista -, andavano di là o di qua di ogni intenzione culturale, volevano essere loro stessi”. In queste serie di monocromi “distratti”, fatti senza tensione ideologica si vede la volontà d’essere se stesso, magari trasformando il campo della pittura in un embrionale schermo televisivo frusciante. Tali possono apparire i suoi monocromi post-informali. Nel 1963 inizia una serie di opere in cui fa i conti con le avanguardie storiche, da Malevic al futurismo italiano, che “rivisita” a partire da una foto di gruppo dove Marinetti, Balla, Boccioni e altri sorridono alla Parigi degli anni Venti. La serie celebra ed elude l’ideologia estetica del futurismo e si concentra sull’avventura umana di questa banda di artisti in trasferta. Come e prima di Warhol, che dall’altra parte del mondo in silenzio risponde con le serigrafie dedicate a incidenti e camere della morte (Car crash e Electric chair), Schifano registra una icona, omaggio alla statura culturale ed economica dei padri dell’avanguardia italiana, proprio allora rivalutati da importanti critici italiani. Ha inizio la stagione del piacere. Schifano sembra dipingere quasi solo per scherzo. “Pensavo – racconta - che dipingere fosse partire da qualcosa di assolutamente primario, quel che vedevo, i cartelloni pubblicitari, la Coca-cola, gli ovali con Esso. Dipingevo quadri così, con il giallo, il blu e il rosso. Dicevo: questi sono segni di energia, segni di propaganda. Oppure rifacevo i segnali stradali e le strisce sull’asfalto”. Insieme al godimento fisico, prodotto da una dissipazione d’energia psichica eccedente, fa capolino nell’opera una “fame” di oggettività del tutto particolare. L’incontro-scontro tra Schifano e i dati minimi di un paesaggio urbano consumistico, scatena un’orgia d’energia tradotta in sfregamento tra una soggettività che funziona come un registratore con nastro smagnetizzato, interrotto e sporco, e l’opulenza tattile degli oggetti. Schifano prende le misure del mondo, dipingendolo e riprogettandolo. Nel titolo di un’opera nota, dichiara Io sono infantile. Chiassoso, ribelle e romantico, docile e indomito. Le sue contraddizioni e gli sbalzi caratteriali sono riassunti nella celebre definizione che ne dà Goffredo Parise nel ´65: “felino innocente e attonito come un piccolo puma di cui non si sospetta la muscolatura e lo scatto”. Schifano danza davanti alle tele. La sua arte ha della magia, impreziosita dall’estro di un’esecuzione in diretta. Il gioco diventa estasi. “Il suo lavoro era una specie di religione - ricorda Emilio Mazzoli, uno dei suoi galleristi - mi faceva pensare alle suore di clausura”. La doppia natura di Schifano: animale sociale da Factory e frenesie mondane, ma anche monaco claustrale alle prese con la propria vocazione. Un ossimoro vivente. Come resistere ad una simile tensione? I paradisi artificiali vengono in aiuto e presto si trasformeranno in colpe. Ma non manca in Schifano un tratto malinconico, che Maurizio Fagiolo Dell’arco avverte nelle opere dedicate alla natura (altro grande amore di Schifano insieme alla televisione) dopo il ritorno dagli Stati Uniti, quando gli smalti si fanno meno brillanti e la natura diventa Paesaggi anemici: “È una pittura – scrive Fagiolo Dell’arco che si rivolge agli uomini che cresce sempre su se stessa in una continuità spaziale e temporale, che è fatta d’impronte più che di cose, di tracce più che di oggetti”. Tra natura geometrizzata e geometria naturalizzata, la pittura di Schifano non decide e resta work in progress, opera aperta. Rifiuta l’immagine definita e rifinita, non è cartolina dal reale o souvenir di vita. È più come una pellicola fatta di tanti fotogrammi scorrenti l’uno a fianco all’altro, l’uno un po’ diverso dall’altro, tesi insieme a creare un movimento. Federico Fellini una volta gli dice: “Mario, vorrei essere come te e mettere tutto un mio film in una sola scena, come in un grande quadro”. Ma sarà Mario a imitare Federico e traghettare i suoi quadri dentro quel flusso pellicolare che ha nome “cinema”. Il passaggio è piuttosto brusco. Un bel giorno è il Sessantotto e Schifano dichiara i limiti della sua amata: “la pittura, nonostante tutto non riesce a completarmi”, dice e guardando le sue opere aggiunge: “quanto al destino di queste cose, vedi, sono destinate ad una società che non amiamo più”. A sua difesa chiama un ragionamento estetico di facile, ingenua linearità: “È che gli uomini assomigliano più al cinema che alla pittura: in un film camminano, mangiano, fanno l’amore, così come accade veramente; nella pittura no”. E poi sentenzia: “il cinema è uno strumento più rivoluzionario”. In due anni, tre film d’artista. Anche molti video a creare la costellazione cinematografica di uno che ha preso coscienza che fuori dallo studio i giovani contestano e sognano. “Nel ’68 – ammetterà - ho sentito il fascino della contestazione. Il motivo era uno: il rifiuto dei giovani ad essere assimilati dai padri. Mi piaceva. E questo era un rifiuto collettivo, non individuale”. Sull’onda di questo entusiasmo giovanile-infantile, gira la trilogia composta da Satellite (1968), Umano non umano (1969) e Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani (1969). L’“imagofilia” di Schifano trova nel cinema un nuovo sfogo e rigenerazione. La sua propensione alla frammentarietà del montaggio, fatto di “corrispondenze” tra immagini e suoni, ne fa uno dei primi e più grandi autori del cinema d´artista. Con esso contesta e fa politica, usando pellicola scaduta e privandosi di qualsiasi mercanti(sti)listico sviluppo narrativo. Come film-maker, nel 1964 in America ha già girato Round Trip, Reflex e filmato Mick Jagger. Dedica opere a Marco Ferreri, Jean-luc Godard e altri, e nel 1967 realizza Vietnam, usando immagini di repertorio. Uno dei video più famosi è Anna Carini vista in agosto dalle farfalle (1967) dove Schifano simula il modo di vedere degli insetti. Quando però Carlo Ponti si fa avanti per finanziare il primo film vero, Schifano si fa da parte. Human Lab lo aveva scritto nel 1970 con Tonino Guerra, ma non sarà realizzato. Lo stile frantumato e dispersivo di Schifano vince sulla sua debole volontà, vagamente narcisista, che lo porta a confessare: “vorrei arrivare alle sale di prima visione, ai titoli sui giornali”. Il suo collega, e corrispettivo americano, Julian Schnabel vi riuscirà decenni dopo con Venezia e Cannes ad adularlo, ma per ora la stagione del terrorismo e delle contrapposizioni ideologiche incombe. A Schifano risultano incomprensibili: “quello che non mi piace sono coloro che discutevano, e che discutono, con un accanimento, una cecità e una stupidità che è solo fascismo, come “Servire il popolo”; il popolo non lo servo con i colori o con la cinepresa, lo servo con il denaro. Dò denaro a questi ragazzi e perché no? Il denaro lo guadagno con brutale facilità”. Sulla base di questa avversione al pensiero sclerotizzato in forme di asservimento alle idee, la lucida incoerenza di Schifano, ancora una volta, lo porta a mettersi un gioco. Entra in crisi. La “trasformazione morale e politica” che solo nel 1970 Tommaso Trini gli attribuisce (sostenendo contestualmente che “sarebbe ozioso discutere dei suoi quadri dopo il sessantotto in termini puramente estetici; quella che può apparirci una fase artistica, questi quadri sono lì per dichiararlo, è in effetti una fase economica”) appare un anno dopo a Goffredo Fofi “un impegno politico idealizzato nato dai sensi di colpa”, per avere ottenuto con quella “brutale facilità” che lo contraddistingue, i privilegi di un ricco borghese piuttosto che la vita angusta di un artista engagé. Con un certo sussiego Fofi bolla il cinema di Schifano come “espressione magmatica della propria autobiografia”, ma alla fine lo stesso autore giudica così: “i quadri e i film sono la stessa cosa in seno alla cultura borghese”. Reset. Poi Mario ha un pensiero salvifico: “un uomo deve prima di tutto identificarsi con se stesso”. Schifano torna alla pittura attraverso un terremoto tecnologico. Usa tele emulsionate, fotografa con incessanti polaroid le sue innumerevoli televisioni sempre accese, che nello studio sono un paesaggio innaturale, anemico, privo di quei globuli rossi fluenti nella natura naturans della Libia rivissuta attraverso le ricche serie di Palme. Tratta meccanicamente la sua pittura e dorme con la televisione accesa. “Era un paesaggio anche quello – dichiarerà un decennio più tardi - che entra dentro casa, che ti vizia di più, che ti trovi dentro senza saperlo”. Il lavoro fluisce a ritmi serrati. Lui esce meno, quasi nulla. “Sembrava che vivesse come un dandy, in realtà lavorava ventiquattro ore al giorno”, racconta l’amico Gianni Michelagnoli. Ma la sua storia con la droga gli vale quattro incarcerazioni e una “gita” in manicomio. Deve subire la violenza di sentirsi trattare per ciò che non è: un criminale. “Sono prigioniero – dice - della parte più reale di me, del Mario Schifano conosciuto e giudicato per il suo comportamento”. La critica d’arte, impietosa perché lo venera, gli procura “amicizie alienate”. “Con Tano Festa – racconta - siamo stati messi in competizione dalla critica ed è stato tremendo”. Da qui in poi Mario sfodera una “natura retrattile, infastidita”: lo ritrae così Enzo Siciliano nel 1972 per Il Mondo. L’amico Alberto Moravia invece sostiene che Mario riesce a creare un personaggio e che “noi proviamo, per questo genere di creazione basata su un continuo e spontaneo happening, quasi lo stesso tipo d’interesse che c’ispira l’opera d’arte”. Schifano è un’opera d’arte vivente. “A livello vocale – prosegue Moravia - è una persona esclamativa”. Diffida della mediazione e comunicazione razionale, e così riduce il discorso ad esclamazione. La sua vera passione sono i mezzi di comunicazione “altri” dalla parola: la pittura, la fotografia, la televisione senza volume. Grazie a questi strumenti Schifano tende a Rifarsi un’ottica, come dice il titolo di una sua opera che Carlo Arturo Quintavalle analizza nel 1974, epoca delle opere con titoli quali Ossigeno ossigeno, Oasi, Con anima. Opere in cui si avverte una lucida presa di coscienza della realtà, una certa volontà di dissacrazione ed il coraggio di credere soltanto nelle proprie forze. Schifano è l’incarnazione della “sprezzatura” in epoca moderna. Questa fondamentale categoria estetica, che prevede la facilità d’esecuzione come un dono divino concesso a pochi, si rispecchia nell’immane produzione che Schifano realizza e che, alla fine della sua vita, sarà stimata in circa 100mila opere. Se per Theodor Adorno “il compito dell’arte è introdurre caos nell’ordine”, per Schifano il compito dell’arte sembra essere introdurre il mondo nel caos del suo studio e vedere cosa succede. “Il suo tratto poetico è l’instabilità – sostiene Maurizio Calvesi - che è tutt’uno con la continua capacità di rinnovamento e d’invenzione”. “Tutto nel mio lavoro è approssimativo”, rilancia Schifano con eleganza e orgoglio. Lui, che allo stile non ha mai saputo rinunciare. Il suo studio è invaso dai televisori perennemente accesi, dagli impianti musicali e dalle macchine fotografiche scattanti, pronte a cogliere immagini catodiche per farne quadri. Schifano rivolge gli uni “contro” gli altri i mezzi della tecnica, quella che uccide l’aura dell’opera secondo Walter Benjamin. E lui, in mezzo, a stendere colori in velocità, senza riflessioni e ripensamenti. “Lui dipingeva solo – ricorda Achille Bonito Oliva - non sceglieva i suoi quadri come un artista schizzinoso con un senso del museo a venire”. Schifano è un fiume in piena. E’ veloce, molto veloce. La velocità è l’imperativo moderno, celebrato già dai “suoi” futuristi. Con l’avvento del computer, suo ultimo invaghimento, Schifano inventa procedimenti complessi che accolgono l’immagine nella nuova macchina prima di essere stampate su tela. Internet lo esalta perché lo fa sentire ubiquo e asseconda la sua fame d’immagini. La rete cattura in sé tutte le cose del mondo, è un televisore portato all’ennesima potenza che può anche produrre oltre che trasmettere. Schifano né è stregato, ma non avrà il tempo di approfondirne appieno la conoscenza. La “felice indisciplina” che alimenta la sua sensibilità vorace produce una pittura ancora più gestuale, riassunta nella circolarità di un movimento che crea Ninfee e onde, cieli e prati in cui l’elemento figurale ed astratto, colorista e formalista si fondono in una sintesi visiva suggestiva: come nella mente di un bimbo, prima che il “sapere” gli faccia ri-conoscere ciò che vede; prima che la ragione e la parola sostituiscano, come mezzi mediatici, le impressioni confuse e brillanti del mondo. Con un istinto intellettuale unico, il Puma decostruisce i messaggi massmediali, di fronte ai quali siamo consumatori (dell’immagine come merce), e li libera restituendo loro quella primitiva forma di comunicazione che è la pittura-graffito, segno personale ed emotivo che registra impressioni profonde e tormenti: l’immagine torna a parlare dentro le sue tele lo slang farfugliante e onomatopeico dell’infante che è. “Era un inviato speciale nella pittura come uomo e un inviato speciale nella vita come pittore”, sostiene Abo. Lui, che diceva “mi piacciono le persone, quando mi accorgo che sono d’accordo con la propria natura”. Una saggezza che la vita gli ha infuso alla fine. Come in una parabola.  
   
 

<<BACK