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Notiziario Marketpress di Venerdì 13 Maggio 2011
 
   
  MILANO (TEATRO ELFO PUCCINI, SALA FASSBINDER): FINALE DI PARTITA DI SAMUEL BECKETT

 
   
  Massimo Castri ha scelto Finale di Partita per affrontare il suo primo Beckett, conquistando, assieme agli splendidi interpreti, un successo unanime. È l’opera preferita dallo stesso autore, una “tragedia comica” che consente un’intera gamma di “svianti letture”, siglata dalla fulminante battuta di Nell: Non c’è nulla di più comico dell’infelicità. Ormai leggendari i due protagonisti della pièce: Hamm (Vittorio Franceschi), cieco e condannato a trascorrere i suoi giorni su una sedia a rotelle e Clov (Milutin Dapcevic), il suo servo, vivono un rapporto eternamente conflittuale, in cui si consumano litigi ma anche una reciproca dipendenza. L’incalzante scambio di battute tra i due sembra un infinito alternarsi di mossa e contromossa del gioco degli scacchi, riecheggiato anche nel titolo. In scena incombe la presenza dei due “maledetti progenitori” di Hamm, Nagg e Nell, entrambi privi di arti inferiori costretti a trascorrere la loro esistenza nei bidoni della spazzatura. Samuel Beckett, nel corso di alcune prove dello spettacolo allo Schiller Theatre di Berlino, disse: “Hamm è il re in questa partita a scacchi persa fin dall’inizio. Nel finale fa delle mosse senza senso che soltanto un cattivo giocatore farebbe. Un bravo giocatore avrebbe già rinunciato da tempo. Sta cercando soltanto di rinviare l’inevitabile fine.” «Scartata l’idea di fare del luogo metafisico una grigia tana, la scena bellissima di Maurizio Balò diventa questa volta un nudo salone di segno vittoriano e il pavimento viene trasformato in una grande simbolica scacchiera dove gli accaniti giocatori Hamm e Clov si sfidano nella loro ultima partita. E in questa scena Castri realizza uno dei suoi spettacoli più rigorosi e tra i suoi ultimi forse il più riuscito. Muovendosi tra lettura simbolica e psicanalitica, alleggerendo la tragica materia con un soffice umorismo (pur sempre nero), Castri si avvicina a Finale di partita come se fosse una grande partitura musicale e ne fa vibrare ogni frase, ogni battuta. Gli attori a eseguirla in maniera perfetta. Immobile nella sua sedia a rotelle come da copione, occhialoni neri da cieco, quell’eccellente attore che è Vittorio Franceschi disegna il suo Hamm con una ricchezza infinita di sfumature, beffardo e querulo e surreali guizzi sogghignanti, ma alla fine terribilmente umano. Ben gli tiene testa Milutin Dapcevic nei panni del remissivo Clov, dal passo lento e claudicante e dai movimenti a tratti burattineschi». Domenico Rigotti, Avvenire. «Giocando sulle sfumature, la regia sembra mettere in secondo piano le componenti di “teatro nel teatro” tipiche della pièce, per farne invece risaltare alcuni tratti febbrilmente patologici: Hamm, a un certo punto, non a caso parla dell’esistenza di pazzi convinti che la fine del mondo sia già avvenuta. E Clov ammette di chiedersi, a volte, se il suo cervello funzioni bene: “Poi mi passa e ridivento lucido”. Sono battute scritte da Beckett, ma che in genere passano inosservate. Tutti i comportamenti dei due personaggi vanno verso una fissità visionaria, malata: Hamm è un vecchiaccio sospettoso, ossessivo, dispotico, Clov – pantaloni troppo corti, camminata disarticolata – pare peso in una dolcezza infantile pronta a passare da risatine ebeti a improvvisi attacchi di rabbia. Il primo, incapace di “esserci”, si rifugia nelle fantasie di un ipotetico romanzo mai neppure iniziato, il secondo, nel finale, non riesce a uscire, non perché non vi sia un altrove dove andare, ma perché questo altrove non è in grado di accettarlo.
Al suo primo confronto con l’autore irlandese, Massimo Castri rimane sostanzialmente fedele al copione, e al tempo stesso strappa Beckett a Beckett, lo sposta verso una maniacalità quasi bernhardiana, come a sancire il superamento di certi traumi novecenteschi individuando invece nella paura della realtà, nella chiusura verso l’esterno una più adeguata chiave di lettura della nostra epoca. Bella e indicativa la scena di Maurizio Balò, ottima l’interpretazione di Vittorio Franceschi e Milutin Dapcevic, che mescolano un cupo delirio a una torva comicità, mentre Diana Hobel e Antonio Giuseppe Peligra danno ai genitori un livido risalto burattinesco». Renato Palazzi, Il Sole 24 Ore. «Ora Massimo Castri non può fare a meno di rilevare il carattere seminarrativo che differenzia quest’opera dal Godot e di notare nel contempo nella scrittura un tipo di concatenazione strutturale che non appare molto distante da quella delle Tre sorelle cechoviane. Non a caso il regista le aveva messe in scena un paio di anni fa situando la vicenda in una sorta d’immobilità col suo ghirigoro di sfasate conversazioni, in un presente dilatato tra un ricordo reso indefinito dalla rarefazione dei riferimenti e una vaga speranza, in cui il grido “A Mosca, a Mosca” delle tre dolenti fanciulle poteva tradursi esattamente nel vano ritornello “Aspettiamo Godot” o più propriamente di “Basta, è ora di farla finita”. Anche qui, come in Cechov, c’è infatti un ghirigoro di conversazioni sfasate, personaggi che non sanno cosa dirsi, in un presente dilatato tra ricordi resi indefiniti dal rarefarsi dei riferimenti, e speranze sempre più spesso negate. Eccoci quindi davanti a una sorta di colorita scatola immaginaria in cui si sviluppa un dialogo tra individui sottoposti a divergenti handicap e ridotti appena possibile a monologare: e tiene banco nella sua carrozzina lo Hamm di Vittorio Franceschi, che con la sua esperienza nell’uso delle maschere riesce a condurre magistralmente la danza. Indirizza con tutti i mezzi, i movimenti del loquace Clov di Milutin Dapcevic tra le rare comparse delle mummie umane di Diana Hobel e Antonio Giuseppe Peligra nei bidoni tra i suoni vivificanti di Franco Visioli in uno spettacolo da vedere». Franco Quadri, la Repubblica  
   
 

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