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Notiziario Marketpress di Mercoledì 02 Luglio 2003
 
   
  FEDERMECCANICA: RELAZIONE DEL PRESIDENTE ALBERTO BOMBASSEI

 
   
  Milano, 2 luglio 2003 - Di seguito la relazione del presidente di Federmeccanica Alberto Bombassei, ha tenuto nel corso dell´incontro di ieri in Assolombarda: "Autorità, Signore e Signori, cari Colleghe e Colleghi, l´industria metalmeccanica risulta ancora caratterizzata da una situazione congiunturale negativa che si protrae ormai da circa due anni e mezzo e non si intravede nelle previsioni a breve termine una significativa inversione delle tendenze in atto. La ripresa, più volte annunziata nel corso del precedente biennio, non ha ancora trovato conferma ed al parziale miglioramento osservato soprattutto nella seconda metà del 2002 ha fatto seguito una nuova forte contrazione dell´attività produttiva che è risultata diffusa a tutti i comparti metalmeccanici ma ha interessato in misura più marcata la produzione di macchine elettriche e quella di mezzi di trasporto già fortemente penalizzate nel corso dell´intera fase recessiva. Nell´anno trascorso l´attività produttiva del nostro settore ha registrato una flessione media del 2,6% che, sommandosi al risultato negativo del 2001, ha riportato i volumi complessivamente prodotti su livelli inferiori a quelli realizzati nel lontano 1995. Ancora nel primo trimestre di quest´anno la produzione media metalmeccanica è diminuita dell´1,8% rispetto ai mesi finali del 2002 ed ha registrato una caduta dei volumi del 2,3% nel confronto con l´analogo periodo dell´anno precedente. Su questi risultati ha inciso, oltre alla sostanziale stagnazione della domanda per beni di consumo, la forte contrazione della domanda per beni di investimento in macchine ed attrezzature ed il peggioramento del nostro interscambio commerciale. I risultati negativi conseguiti nel nostro settore, come storicamente accade nei periodi di bassa congiuntura, risultano amplificati rispetto agli andamenti relativi all´intera economia nazionale che, ancora nella prima parte dell´anno in corso, è caratterizzata da una sostanziale stagnazione. Nel 2002 il prodotto interno lordo ha evidenziato una crescita dello 0,4%, ancora più bassa rispetto al già modesto +0,8% della media dei paesi dell´area dell´euro e molto lontana dal +2,4% dell´economia statunitense. Nel primo trimestre del 2003 la ricchezza prodotta è diminuita dello 0,1% rispetto al precedente trimestre e le previsioni più recenti fornite dal Centro studi di Confindustria indicano per l´intero anno un incremento dello 0,8% a condizione che si realizzi l´auspicata ripresa a livello internazionale; la crescita dell´Italia nell´anno in corso sarebbe così più o meno in linea con la media delle economie dell´area dell´Euro (più bassa se dalla media si escludono Italia e Germania) ma ancora molto al di sotto del 2,2% degli Stati Uniti. Sia dai dati di consuntivo che da quelli relativi alle previsioni risulta evidente la diversa velocità di crescita tra l´economia dei paesi del vecchio continente e quella americana. La spiegazione risiede solo in parte in motivi di ordine congiunturale e nella diversa intonazione delle politiche economiche e monetarie che, oltre oceano, sono più attente alle questioni della crescita mentre sono più orientate alla stabilizzazione nell´area dell´Euro. Giocano negativamente in Europa, ma in modo particolare nel nostro paese, fattori strutturali che frenano lo sviluppo e la cui soluzione non può ulteriormente essere rinviata. Il prossimo anno sarà caratterizzato da un evento che segnerà la nostra storia; infatti, dal 1° maggio 2004, i paesi che compongono l´Unione Europea passeranno da 15 a 25. Tale circostanza è di grande rilievo per le istituzioni europee che cercano di capirne ed anticiparne gli effetti; senza dubbio l´ingresso di Paesi più indietro nel processo di sviluppo economico ma industrialmente aggressivi, anche grazie alla folta presenza di imprenditoria estera, cambierà gli attuali equilibri competitivi. Anche se ulteriori, significativi sforzi dovranno essere sostenuti da questi paesi al fine di adeguare i diversi sistemi che regolano il mercato del lavoro e le politiche occupazionali, il sistema delle nostre imprese dovrà dimostrarsi pronto ad affrontare le nuove sfide ma anche a cogliere le opportunità che ne deriveranno. La presenza italiana in molti di questi Paesi è già ampia e articolata; occorrerebbe, come emerge anche da una recentissima indagine, un maggior coordinamento ed una maggiore assistenza da parte delle istituzioni pubbliche preposte per rendere più agevole ed efficace lo sforzo prodotto da centinaia e centinaia di piccole e medie imprese su questi mercati, per l´insediamento di nuove iniziative produttive. Il processo di integrazione economica dell´unione, a completamento dell´integrazione monetaria, richiede interventi strutturali in favore dell´occupazione che devono attuarsi attraverso una maggiore flessibilità, un miglioramento della qualità dell´istruzione e della formazione, la promozione della mobilità dei lavoratori e, più in generale, predisponendo le condizioni più favorevoli agli investimenti ed alla crescita delle imprese. A partire dal vertice di Lisbona è chiara e dichiarata la direzione di marcia; si tratta di dare seguito ai programmi e speditezza ai progetti. In Europa, ma in particolare in Italia, l´invecchiamento della popolazione richiede che sia profondamente ripensato il sistema di protezione sociale, in particolare va affrontata con decisione e senza rinvii la riforma del sistema pensionistico. E´ necessaria una maggiore e più efficace liberalizzazione nel settore delle utilities con particolare riferimento all´energia ed ai trasporti. Deve essere ridotto il peso del fisco ed in particolar modo della parte che grava sul sistema produttivo. Serve un sistema bancario più vicino alle imprese e all´industria; sempre meno soggetto di intermediazione parassitaria e sempre più agente di sviluppo. Senza queste riforme, e ne ho menzionate solo alcune, non si libereranno mai quelle risorse che servono per l´ammodernamento e lo sviluppo dell´economia comunitaria e, al suo interno, italiana. Il nuovo semestre di presidenza dell´Unione, che proprio quest´oggi viene assunta dal nostro Governo, dovrà gestire la delicata fase che precede l´allargamento e portare a termine i lavori della convenzione, riuscendo a mediare tra gli interessi degli stati membri e quelli candidati che non vogliono essere esclusi dai processi di riforma che determineranno il nuovo assetto istituzionale dell´Unione. Il progetto di Costituzione europea che sta prendendo corpo rappresenterà una tappa fondamentale nel processo di edificazione dell´Europa politica; è aperto il confronto tra i fautori delle decisioni all´unanimità e quelli delle deliberazioni a maggioranza. La materia è squisitamente politica ma a noi imprenditori, che al destino dell´Europa siamo legati, sia consentito dire che una grande realtà politica che ha l´ambizione di riunire 25 paesi e oltre 400 milioni di cittadini con storie, culture ed economie assai diverse, non può autocondannarsi all´immobilismo che è insito nel principio dell´unanimità, soprattutto quando questa è richiesta ad una platea così vasta e composita. Tra le priorità nell´agenda della presidenza italiana assumono particolare rilevanza la lotta all´economia sommersa e la responsabilità sociale delle imprese; temi, entrambi, di grande spessore anche per le implicazioni e le ricadute che potrebbero derivarne. Per quanto concerne il sommerso, infatti, verrebbe previsto un legame esplicito con le politiche fiscali e contributive e dunque si porrebbero le basi per una differenziazione, magari territoriale, in funzione del perseguimento dell´obiettivo. Per quanto attiene, invece, alla responsabilità sociale dell´impresa, che si intende incoraggiare, basti considerare, per valutarne le possibili implicazioni, che il Libro verde presentato dalla Commissione nel luglio 2001 la definisce come "l´integrazione su base volontaria dei problemi sociali ed ambientali delle imprese nelle loro attività commerciali e nelle loro relazioni con le altre parti". L´europa ed il suo allargamento rappresentano quindi una delle principali sfide che le nostre imprese si troveranno ad affrontare, per questo Federmeccanica attraverso la Wem l´organizzazione imprenditoriale europea, prosegue nell´intento di contribuire attivamente, per quanto di sua competenza, ai processi di trasformazione in atto delineando strategie e perseguendo obiettivi nell´interesse dell´industria metalmeccanica. La Commissione, come le altre istituzioni europee, ha più volte indicato il dialogo sociale come un insostituibile strumento per migliorare la "governance europea" e sviluppare la qualità delle relazioni industriali. Certamente è apprezzabile il coinvolgimento delle parti sociali nella preparazione di direttive e la consultazione delle stesse per il raggiungimento di accordi tripartiti ma non deve assolutamente essere inficiata l´autonomia delle stesse. Condividiamo l´importanza del ruolo che la commissione attribuisce al dialogo sociale, tuttavia non riteniamo che questo debba essere realizzato, almeno per la fase attuale, a livello intersettoriale in quanto sede più idonea ad affrontare tematiche di natura trasversale. E´ in coerenza con tale convincimento che la Wem non ha mai accolto i reiterati tentativi della Emf, la federazione dei sindacati metalmeccanici europei, di avviare iniziative che presentino caratteristiche tipiche del dialogo sociale a livello settoriale. Tuttavia non si può disconoscere che i rapporti e le occasioni di incontro tra le due organizzazioni metalmeccaniche europee si siano progressivamente intensificate; nostro obiettivo è quello di utilizzare il confronto come utile veicolo per conoscere le problematiche che affliggono il nostro settore ed individuare comuni strategie che portino al loro superamento. In questa chiave si è svolta nell´anno trascorso l´attività di un gruppo di lavoro comune Wem-emf sui temi dell´immagine dell´industria metalmeccanica, con l´ambizioso obiettivo di attrarre i giovani verso il nostro settore, e delle carenze dei profili professionali nella nostra industria. Dopo un´ampia fase di analisi e confronto il gruppo di lavoro ha elaborato un documento che, successivamente, è stato presentato ai rappresentanti delle Commissione Europea; tenuto conto dell´interesse manifestato da questi ultimi e dell´enfasi da loro posta sulla necessità di ricevere concreti contributi dalle organizzazioni datoriali e sindacali di settore, le due federazioni europee hanno deciso di organizzare un convegno internazionale su tali temi, che si terrà a Bruxelles nel prossimo autunno. Ho prima richiamato la necessità di una politica di riforme orientata allo sviluppo; passi nella giusta direzione della modernizzazione e della crescita ne sono stati fatti e se ne stanno facendo sia in Europa che in Italia ma occorre maggiore decisione e speditezza perché nei prossimi anni si giocherà una partita fondamentale per i futuri assetti della divisione internazionale del lavoro. Una partita, del resto, già cominciata e della quale, dopo gli accordi di Doha, fa ora parte a pieno titolo un giocatore aggressivo ed ingombrante come la Cina. Tutte le analisi e le previsioni correnti ci dicono che, come avvenuto costantemente nel passato, la ripresa economica mondiale dipenderà pressoché esclusivamente dall´andamento dell´economia statunitense che dopo il rallentamento osservato in questa prima parte del 2003, anche grazie all´approvazione di un consistente pacchetto di sgravi fiscali e ad una aggressiva politica di cambio, dovrebbe tornare a ritmi di crescita più sostenuti già a partire dalla seconda parte dell´anno e realizzare dal 2004 tassi di incremento del prodotto interno lordo superiori al 3%. In questo contesto, nell´attesa che l´Europa si doti di istituzioni e strumenti che la mettano nelle condizioni di poter perseguire autonome politiche di sviluppo, dobbiamo chiederci: sarà l´Italia nelle condizioni di poter cogliere le opportunità che la ripresa - auspicata ma non certa - offrirà ai mercati mondiali? Il rischio evidente è che una accelerazione nel processo di scambio di merci e servizi produca strappi tali da allontanare i paesi più attrezzati alla competizione mondiale da quelli meno attrezzati. Nelle sue recenti Considerazioni Finali il Governatore della Banca d´Italia ha usato toni molto preoccupati circa la tenuta competitiva del sistema industriale italiano: la preoccupazione espressa dal Governatore è anche la nostra preoccupazione. Le cifre, nella loro arida oggettività, non potrebbero portare a conclusioni diverse: "Tra il 1997 ed il 2002 lo sviluppo degli scambi internazionali di beni e servizi è stato del 28 per cento. Le esportazioni italiane sono cresciute del 16 per cento, quelle della Francia e della Germania rispettivamente del 31 e del 38 per cento". Tali dinamiche hanno, ovviamente, determinato una perdita secca in termini di partecipazione italiana agli scambi internazionali: la nostra quota di mercato, infatti, è diminuita dal 4,5 per cento del 1995 al 3,6 per cento nel 2002. L´industria metalmeccanica, che ancora nel 2002 ha comunque garantito la tenuta della bilancia commerciale del nostro Paese con circa 12 miliardi di Euro di saldo attivo, non è rimasta estranea a questa tendenza. Per usare ancora le parole del Governatore: "Nel settore delle macchine e degli apparecchi la quota italiana, in progressiva riduzione, è pari al 9,6 per cento delle esportazioni mondiali. Per gli autoveicoli e le loro componenti la quota delle nostre esportazioni è diminuita in cinque anni dal 3,6 a circa il 3 per cento; per gli apparecchi elettrici e di precisione è scesa dal 2,1 all´1,8 per cento. Molto limitata è la presenza nel commercio dei prodotti dell´elettronica e dell´informatica". Questa è la fotografia, cruda e fedele, di un sistema industriale che, nel suo complesso, non riesce a sfruttare le opportunità che, pur in un contesto competitivo oltremodo difficile, la crescita del commercio mondiale offre e che, quindi, perde posizioni a vantaggio di altri sistemi e di altre economie: di quelle meno sviluppate nei settori più tradizionali e ad elevata price competition e di quelle più sviluppate nei settori maggiormente innovativi e dinamici dai quali, per le caratteristiche strutturali assunte dal sistema industriale del nostro Paese, rischiamo di essere tagliati fuori a tempo indefinito. C´è, dunque, un problema che attiene al modello di specializzazione produttiva e c´è un problema che attiene al governo delle dinamiche dei fattori della produzione in termini sia di costo che di produttività. La competitività di un Paese si gioca agendo su entrambi i fronti ed è illusorio pensare che uno escluda l´altro; per questo motivo ritengo che vedere o sottolineare solo uno di questi due aspetti sarebbe assai sbagliato e pericoloso per il presente ed il futuro della nostra industria. Abbiamo bisogno di migliorare sensibilmente la posizione nella divisione internazionale del lavoro e, contemporaneamente, dobbiamo difendere la competitività dei nostri prodotti nei segmenti di mercato nei quali siamo attualmente presenti. Se tutto ciò è vero, ed è vero, rischiano di essere inconcludenti e fuorvianti le polemiche sulla "via alta" o la "via bassa" allo sviluppo; formule, queste, forse utili per il dibattito giornalistico ma prive di contenuti operativi. La "via alta", quella fatta di produzioni hi tech, non basta evocarla - od invocarla - ma la si deve realizzare predisponendo le condizioni, attuando le politiche e producendo le risorse finanziarie atte ad alimentarla. Il recente "accordo per lo sviluppo" sottoscritto da Confindustria e Cgil, Cisl, Uil - oltre a rappresentare un primo ma significativo segnale di disgelo nei rapporti con la Cgil e premiare lo sforzo fatto in questi anni da Confindustria per porre al centro del dibattito il tema della competitività come cruciale per lo sviluppo del Paese - costituisce un fatto importante e nuovo proprio sul piano dell´analisi e delle proposte che esso contiene circa, appunto, il tema della competitività del sistema industriale italiano. Le politiche per la Ricerca e l´Innovazione, la Formazione, le Infrastrutture e il Mezzogiorno sono le leve fondamentali per migliorare la posizione competitiva del Paese che, in tutte le graduatorie prodotte da istituzioni diverse, evidenzia un ritardo non solo verso i Paesi maggiormente sviluppati ma anche nei confronti di diversi new comers. Per quanto riguarda specificamente il settore metalmeccanico, su questi temi ampio spazio avevo dedicato nella mia relazione all´Assemblea dello scorso anno nella quale, appunto, supportato da consistenti evidenze statistiche mi ero soffermato sulle questioni che in questi ultimi mesi hanno occupato il dibattito in materia: la struttura dimensionale delle nostre imprese, troppo sbilanciata verso le piccole; il modello di specializzazione, troppo vocato verso produzioni mature. Il tema del modello di specializzazione produttiva perseguito dal Paese, quindi, è da Federmeccanica particolarmente sentito e condiviso. Tuttavia, occorre evitare il rischio di generose ma velleitarie fughe in avanti e dobbiamo essere consapevoli che la correzione di queste caratteristiche strutturali, che affondano le proprie radici in decenni e decenni di storia economica e industriale del Paese, richiede, pur mettendo in campo da subito le politiche giuste e le risorse necessarie, tempi lunghi o medio-lunghi. Nel frattempo dobbiamo continuare a sostenere la sfida competitiva difendendo e migliorando la capacità concorrenziale delle nostre imprese nei prodotti e sui mercati nei quali operiamo. Allora, se e quando apriremo il confronto con il Governo in vista del prossimo Dpef, dovremo sottolineare che la nostra perdita di competitività non è solo ascrivibile ad una insufficiente presenza nei settori a più alta intensità di Ricerca e Sviluppo ma anche ad un insufficiente rigore nei comportamenti che la concorrenza internazionale impone. Anche in questo caso ci soccorrono le cifre citate dal Governatore della Banca d´Italia: "In Germania, nell´ultimo biennio, le retribuzioni nel settore manifatturiero sono cresciute ad un tasso pari a poco più della metà di quelle italiane; la produttività è aumentata ad un ritmo doppio. Il costo del lavoro per unità di prodotto nel biennio è salito nell´industria italiana del 4,3 per cento, in Germania ed in Francia l´aumento è stato dell´1,3 per cento. Lo scarto rispetto ai due paesi è di 3 punti percentuali". In regime di moneta unica, aggiungo io, sono 3 punti secchi di competitività persa in due soli anni e nei confronti di due nazioni che, per il nostro settore, da sole rappresentano circa un terzo dell´interscambio di prodotti. Se a ciò si aggiunge la rivalutazione dell´Euro sul dollaro - imprevedibile ed imprevista per le dimensioni assunte - si comprende facilmente in quali difficoltà operative agiscono oggi le imprese. Ciò che voglio sottolineare è che la perdita di competitività sui prodotti che attualmente costituiscono la nostra offerta commerciale non favorisce lo spostamento verso il modello di specializzazione desiderato, ma, al contrario, ne ostacola la realizzazione riducendo i margini di autofinanziamento delle imprese e, più in generale, determinando un impoverimento del sistema Paese. E´ tenendo bene a mente questa realtà che nel mese di maggio abbiamo firmato il rinnovo del contratto nazionale di categoria; un contratto che si è fatto carico di conciliare i principi del rigore dettati dal Protocollo del 1993 con i timori espressi dalle organizzazioni sindacali di un andamento inflazionistico che non segue il cammino delineato dai tassi di inflazione programmata che abbiamo il dovere di assumere a riferimento. Un contratto che è sostanzialmente in linea con gli accordi già rinnovati ma che è certamente più attento alle coerenze economiche di quanto non siano quelli ancora recentemente conclusi, con l´assenso del Governo, per il pubblico impiego. Tuttavia, per le cose appena dette sulla situazione economica del settore, un contratto certamente oneroso per le nostre imprese. Un contratto che, nonostante tutto, la Fiom non ha però ritenuto di sottoscrivere e che ancora oggi si ostina a chiamare "accordo separato". In realtà, guardando anche agli sviluppi più recenti della vicenda, se di separatezza si vuol parlare è molto più appropriato riferirla alla Fiom medesima che, per sua scelta, si è separata da un rapporto di confronto e dialogo con le imprese; si è separata da tutti gli altri sindacati e - visto l´esito del recente referendum che la Fiom ha promosso sull´art. 18 - si è separata anche dal comune sentire della stragrande maggioranza dei cittadini. Insomma, è la Fiom che si è separata dalla realtà e dal buon senso in nome di un radicalismo antagonista e di un massimalismo rivendicativo che già nel passato, in alcuni momenti - e quasi sempre con esiti negativi -, ne hanno segnato il comportamento pur non appartenendo, credo di poter dire, alla cultura profonda di una storia centenaria che è fatta, come si conviene ad un sindacato, di contrattazione e di accordi. Questa considerazione mi fa sperare, e Federmeccanica lavorerà in tale direzione, che si possa tornare presto ad un clima di confronto sereno e costruttivo con tutte le organizzazioni sindacali, nell´interesse delle imprese e dei lavoratori. La strada che abbiamo scelto e che non intendiamo abbandonare è quella del rafforzamento del sistema partecipativo da realizzare a tutti i livelli: nazionale, territoriale, aziendale. E´ evidente, però, che la partecipazione presuppone, quale conditio sine qua non, la condivisione di un sistema di principi e di regole pur nella naturale distinzione dei ruoli e nel rispetto delle reciproche autonomie. Il recente rinnovo contrattuale si muove in questa direzione valorizzando il ruolo delle parti sociali e mettendo a disposizione del sistema risorse e strumenti utili allo scopo. Il terreno privilegiato è quello della Formazione sul quale più evidente che su altri è la convergenza di interessi tra imprese e lavoratori ma, lo dico con piacere, su una materia eminentemente partecipativa come quella della previdenza complementare anche la Fiom ha firmato l´accordo sindacale che offre un significativo contributo allo sviluppo del Fondo di categoria Cometa. Con il medesimo spirito - cioè la ricerca di soluzioni capaci di contemperare i diversi interessi in campo - Federmeccanica affronterà la discussione relativa agli argomenti che il contratto ha rimandato all´attività di apposite Commissioni o gruppi di lavoro, così come il confronto negoziale che, in autunno, riguarderà l´implementazione contrattuale delle leggi sul lavoro di recente emanazione. Ci auguriamo che la Fiom non voglia sottrarsi alla discussione ed al confronto su materie così rilevanti per la vita dei lavoratori e delle imprese; comunque per quanto ci riguarda, non mancheremo di sollecitarne la partecipazione. A tale proposito, io ritengo che la legislazione che si è in questi anni prodotta - a partire dal "pacchetto Treu" fino alla legge Biagi e relativi decreti attuativi - abbia introdotto nel nostro sistema quella dose di flessibilità che il mercato del lavoro richiedeva. E´ un dato positivo, al di là del merito specifico dei singoli istituti, perché dimostra che è possibile considerare la materia dell´occupazione e del mercato del lavoro in modo non ideologico ma guardando alla concretezza dei problemi per dare risposte pragmatiche e concrete. Da questo punto di vista il Paese è maturato e la risposta data al referendum per l´estensione dell´art. 18 ne è una riprova eclatante; sia i partiti della maggioranza che, in larga misura, quelli dell´opposizione hanno contribuito a questo risultato. Ciò è motivo di soddisfazione. Naturalmente, proprio perché siamo fautori della concretezza e del pragmatismo, crediamo che i nuovi strumenti di flessibilità introdotti debbano essere usati in modo appropriato da parte delle imprese, che il sindacato abbia un ruolo da svolgere nella disciplina contrattuale di questa materia, che l´applicazione debba essere monitorata e valutata nei risultati prodotti. Trasformare la flessibilità in precarietà non è nell´interesse delle imprese - e le imprese non perseguono questo obiettivo - ma voler combattere la precarietà a colpi di vincoli e divieti produce solo lavoro nero e bassi tassi di occupazione. Con lo stesso metro di misura va valutata la regolamentazione proposta dai decreti attuativi della Legge 30 del così detto "Lavoro a Progetto" che - con particolare riferimento alla definizione dell´impegno temporale ed alla disciplina di conversione in rapporto a tempo indeterminato - rischia di rendere la nuova tipologia contrattuale di complessa ed incerta applicazione per le imprese e, in tal modo, di non centrare l´obiettivo condiviso di evitare usi impropri ed abusi del contratto di collaborazione coordinata e continuativa. In questi ultimi anni le Relazioni Sindacali sono state terreno di aspri scontri, di conflitti, di incomprensioni. Eppure, nonostante tutto, un fiume sotterraneo ha continuato a scorrere e talvolta è emerso dando luogo ad atti ed iniziative dal grande rilievo concreto per imprese e lavoratori. Oltre al già citato "Accordo per lo sviluppo", in questo periodo abbiamo avuto la creazione di Fondimpresa che, con la partecipazione di tutte le maggiori Confederazioni, gestirà le risorse dello 0,30 % destinato alla formazione continua. Inoltre, spero in tempi rapidi, vedrà la luce - ancora per iniziativa delle Confederazioni - l´Associazione per la tutela degli interessi dei Fondi pensione di origine negoziale; questo, soprattutto in un momento di confuso dibattito sulla delega previdenziale, sarà un punto fermo di non poco conto. Tutte le iniziative ora richiamate hanno avuto il contributo attivo oltreché l´adesione della Cgil; ciò significa che mentre l´attenzione dell´opinione pubblica era concentrata sul conflitto, il filo del dialogo e della collaborazione su iniziative utili e costruttive non si è mai spezzato. Adesso le Confederazioni hanno di fronte un´altra scadenza che non può più essere ulteriormente elusa: la verifica sul Protocollo del 23 luglio 1993. Quell´accordo triangolare ha dato un grande contributo al risanamento del Paese ma oggi mostra l´usura del tempo, non tanto negli obiettivi che restano ancora sostanzialmente validi, quanto negli strumenti atti a perseguirli. In particolare, abbiamo assoluto bisogno di riesaminare ed attualizzare gli assetti contrattuali che il Protocollo ci ha consegnato, così come, alla luce delle recenti vicende, le parti sociali dovrebbero avere il coraggio e la determinazione di affrontare insieme il tema, delicato e vitale, del sistema e delle regole della rappresentanza. Per quanto attiene al secondo punto dobbiamo essere consapevoli che o si torna rapidamente a pratiche sindacali fondate sull´unità di azione oppure il sistema attuale e non solo per la parte disciplinata dal Protocollo di luglio va ripensato perché le regole vigenti sono tutte fondate su un presupposto politico che, allo stato attuale delle cose, non è operante; queste considerazioni, ovviamente, valgono in particolar modo per il nostro settore. Per quanto concerne invece gli assetti contrattuali dobbiamo affrontare la questione con spirito costruttivo e libero da preconcetti e luoghi comuni; quel che serve è un sistema in grado di assicurare coerenza economica e razionalità distributiva, ovvero compatibilità macro e microeconomica. Obiettivi, questi, che andranno perseguiti congiuntamente perché se l´uno dovesse far premio sull´altro mancheremmo il risultato desiderato. Comunque, anche guardando a ciò che avviene nel resto d´Europa, la linea di marcia è chiara; si tratta di trovare un nuovo ed efficace equilibrio tra i livelli di contrattazione con un ampliamento di peso e ruolo per il livello aziendale con un rafforzamento di quello nazionale nelle sue funzioni di garanzia e di indirizzo in modo tale da minimizzare il rischio di rincorse salariali o di andamenti contrattuali erratici, frutto di situazioni localistiche e momentanee, che un decentramento non regolato potrebbe produrre. Su questi temi Federmeccanica non farà mancare il suo contributo di stimolo e proposta."  
   
 

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