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Notiziario Marketpress di Mercoledì 22 Febbraio 2012
 
   
  FLEXI TIME, UN SOGNO NEL CASSETTO: UNO STUDIO DELL´OSSERVATORIO SUL DIVERSITY MANAGEMENT DELLA SDA BOCCONI RILEVA UN FORTE GAP SULL´IMPLEMENTAZIONE DELLA FLESSIBILITÀ IN AZIENDA. UN FRENO PER LA CARRIERA DELLE DONNE

 
   
   Milano, 22 febbraio 2012 - Le e-mail, il Blackberry che pigola anche la notte, il restare connessi nei weekend e nelle festività: internet e palmari consentono di lavorare anche da casa la sera dopo aver messo a letto i bambini o quando si è malati. È la realtà del lavoro liquido, che plasma il quotidiano rendendo sempre più sottile la cesura tra tempo di lavoro e tempo privato. Se questa è la realtà professionale che si osserva e sperimenta, le imprese sembrano muoversi con copioni organizzativi non coerenti. Dai risultati di una ricerca sullo stato dell’arte delle prassi di diversity management all’interno delle aziende italiane (Osservatorio diversity management Sda Bocconi, novembre 2011) emerge, in riferimento al tema delle pratiche di flessibilità, un implementation gap tra le forme di flessibilità presenti in azienda (part-time e flessibilità in entrata e in uscita) e quella effettivamente adottata dai lavoratori: non tutti i dipendenti che vorrebbero ricorrere a pratiche di lavoro flessibile, in particolare le donne in posizioni manageriali e gli uomini a tutti i livelli, nella realtà ne fanno uso. Inoltre, si evince una progettazione organizzativa semplificata che dà poco spazio a pratiche di flexi time più su misura delle specifiche esigenze dei lavoratori (come la possibilità di accumulare ore di lavoro da utilizzare come giornate di riposo, l’home working o il job sharing per posizioni compatibili). L’orario di lavoro continua a essere misurato su base settimanale e a rimanere rigidamente ancorato al luogo fisico dell’impresa così come regolamentato dai contratti di lavoro. Così come continuano a esistere i tornelli e le timbrature in ingresso e uscita. Il modello di lavoro riconosciuto e premiato dal sistema culturale è ancora quello del lavoro full time e del long hour, di chi non ha impegni di cura o sociali al di fuori dell’orario di lavoro. Nella maggior parte delle aziende in Italia, la presenza equivale a risultato. Il presenzialismo è un valore molto radicato e solo chi rimane fino a tardi in ufficio viene valutato come performante e come dedito al lavoro. Per contro, chi adotta forme di flessibilità è considerato meno produttivo, meno motivato e diventa immediatamente un cittadino di serie b nel riconoscimento organizzativo sia informale sia formale del sistema premiante. Alle volte è sufficiente uscire alle 17,30 (così come previsto da molti contratti di lavoro) per sentirsi fare la battuta “Ti sei preso una mezza giornata di ferie?”. E la diffusione di uno stile manageriale poco incline alla delega, molto orientato al controllo e alla possibilità di avere a portata di mano i propri collaboratori per qualsiasi evenienza ed emergenza non fa che acuire questa distorsione. Ma siamo proprio sicuri che questo modello ancorato alla presenza sia ancora il più efficace, in grado di ascoltare i bisogni diversificati presenti nella popolazione organizzativa? E che stare con il fiato sul collo dei propri collaboratori sia l’unico modo per ottenere risultati? O che escludere a priori dallo sviluppo di carriera un lavoratore part time sia una buona scelta? Il progetto di ricerca Le diverse facce della flessibilità che l’Osservatorio sta realizzando grazie alla sponsorship di Nestlè Italia e Intesasanpaolo, si colloca in questo percorso di riflessioni. Pensiamo infatti che sia necessario un serio ripensamento dell’organizzazione del lavoro per incidere sulla possibilità di offrire ai lavoratori forme di flessibilità più ampie e diversificate. L’obiettivo è di analizzare la relazione tra adozione di forme di flessibilità e performance individuale, per verificare in quale misura chi è flessibile è escluso dai percorsi di sviluppo e di riconoscimento organizzativo, e di individuare best practise organizzative nelle imprese per cercare di diffondere una cultura del tempo determinata dal raggiungimento dell’obiettivo e non dalla necessità di rendersi visibili agli occhi del capo.  
   
 

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