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Notiziario Marketpress di Mercoledì 16 Maggio 2012
 
   
  CANCRO: “LE VISITE DI CONTROLLO NON POSSONO DURARE TUTTA LA VITA” “IL 90% DEGLI ONCOLOGI CHIEDE IL SUPPORTO DEI MEDICI DI FAMIGLIA”

 
   
  Roma, 16 maggio 2012 - Il 73% dei pazienti con una precedente diagnosi di tumore teme la recidiva della malattia, ma vive la visita di follow up (cioè l’insieme dei controlli clinici e strumentali successivi alla fine del trattamento) come un momento rassicurante, un modo per prendersi cura della propria salute. In meno del 20% dei casi questi controlli provocano ansia e preoccupazione. Il peso di questa attività non può però ricadere solo sull’oncologo, ma deve essere assorbito da più figure professionali, a partire dal medico di famiglia. È quanto emerge dalla prima indagine sull’organizzazione del follow up, che ha coinvolto sia gli oncologi che i pazienti, presentata ieri al Senato nella Vii Giornata nazionale del malato oncologico organizzata dalla Favo (Federazione Italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia). L’aiom (Associazione Italiana di Oncologia Medica) ha promosso un gruppo di studio permanente in collaborazione con Cipomo (Collegio Italiano dei Primari Oncologi Medici Ospedalieri), Simg (Società Italiana di Medicina Generale) e Favo su questo tema. “Il follow up – sottolinea il prof. Stefano Cascinu, presidente Aiom – ha un impatto fondamentale sulla qualità di vita e sulla riduzione della mortalità dei pazienti. È necessario creare strumenti operativi per realizzare una proficua collaborazione con altre figure professionali. Più del 90% degli oncologi afferma che il ruolo del medico di famiglia andrebbe valorizzato meglio”. Il modello organizzativo prevalente nel nostro Paese è quello “sequenziale”: dopo una prima fase di follow up esclusivamente specialistico, è prevista una completa delega del paziente al medico di medicina generale. “Ma il tempo che intercorre tra i due momenti – continua il prof. Cascinu - è variabile tra le diverse strutture (2-3, 5 o 10 anni) e non è trascurabile la percentuale di oncologi che dichiarano di mantenere in cura i pazienti per tutta la vita (55% nel caso delle neoplasie del seno e 30% di quelle del colon-retto). Il 35% dei pazienti riferisce di essere in follow up da più di 5 anni, a conferma che è diffusa, nelle oncologie italiane, la tendenza a proseguire indefinitamente questa pratica”. In Italia vi sono circa 2.250.000 persone (pari ad oltre il 4% della popolazione residente) che vivono con una precedente diagnosi di tumore. Il 57% di questi casi (pari a 1.285.680 persone) ha ricevuto la diagnosi di neoplasia da oltre 5 anni e rappresenta una quota rilevante di persone con bisogni peculiari. “Chiediamo – afferma il prof. Francesco De Lorenzo, presidente Favo - che venga adottato un modello di ‘cure integrate’ che si caratterizza per una costante interazione tra i professionisti coinvolti nel follow up, in tutte la fasi della storia clinica della persona. Tale modello, pur non facendo mancare al paziente un riferimento sicuro, definisce un percorso di cura condiviso, garantisce un adeguato trasferimento delle competenze e distribuisce in modo più uniforme il peso dell’assistenza. Dal punto di vista delle risorse l’applicazione di un simile modello potrebbe contribuire a distribuire il carico assistenziale tra ospedale e territorio, evitando di privare il paziente e il medico di medicina generale del supporto dello specialista. Il mantenimento di un contatto con il centro di cura rappresenterebbe una garanzia di rapido rientro nel ‘circuito’ specialistico nel caso di sospetta ripresa di malattia.” Le competenze necessarie sono articolate e non possono essere concentrate da un unico attore. Ripetuti studi clinici hanno documentato come non sia cruciale “chi” esegue il follow up: nel sistema sanitario anglosassone, ad esempio, sono stati testati con successo il follow up del medico di famiglia e quello infermieristico in alternativa al controllo specialistico, senza alcuna ricaduta negativa sull’anticipazione diagnostica e sulla soddisfazione dei pazienti. “La sopravvivenza media a 5 anni dalla diagnosi di tumore è del 52% fra gli uomini e del 61% fra le donne – continua il prof. De Lorenzo -. È necessario prendere in considerazione tutti gli aspetti che incidono sulla qualità della vita dopo il tumore. L’oncologia moderna deve saper rispondere ai nuovi bisogni di salute delle persone guarite dal cancro. A questo si aggiunge il problema delle risorse: infatti, l’esplosione della domanda, non accompagnata da una seria riflessione organizzativa né da una adeguata programmazione sanitaria, sta mettendo in crisi le strutture oncologiche obbligandole a ridurre la qualità dell’offerta per poter mantenere i servizi”. Esiste inoltre un problema di appropriatezza delle procedure. “A fronte di numerose raccomandazioni istituzionali autorevoli contro l’uso eccessivo di accertamenti – conclude il prof. Cascinu -, nel follow up esiste una diffusa tendenza alla richiesta di esami, probabilmente non sempre appropriata. Il 53% delle persone riferisce di eseguire in media tre o più esami per ogni visita. Un dato coerente con quanto riportato dagli oncologi. L’elemento fondamentale della visita di follow up è rappresentato dall’esame clinico, che consiste nel riscontro anamnestico e nell’esame obiettivo. A ciò si aggiungono pochi accertamenti di laboratorio e strumentali che, almeno per le patologie oncologiche più frequenti, sono definiti a priori e sono limitati. Solo in caso di sospetto su base clinica si eseguiranno approfondimenti diagnostici più complessi. La ricerca clinica ha dimostrato in diversi settori oncologici che metodiche di follow up strumentale più intensive non producono reali vantaggi in termini di sopravvivenza complessiva. Il problema del corretto impiego delle risorse assume un’importanza rilevante: i tempi e gli strumenti diagnostici utilizzati dovrebbero essere rigorosamente definiti”. Al questionario, contenuto nel Iv Rapporto sulla condizione assistenziale dei malati oncologici, hanno risposto 395 pazienti (nel 62% dei casi i sondaggi sono stati compilati da donne con cancro del seno) e hanno partecipato circa cento strutture.  
   
 

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