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Notiziario Marketpress di Giovedì 08 Febbraio 2007
 
   
  NON SOLO PROFIT DAGLI ASILI AI TEATRI, DAI PARCHEGGI ALLE ASSOCIAZIONI SPORTIVE SONO OLTRE 300MILA LE IMPRESE NO PROFIT ITALIANE. UN SETTORE ECONOMICO FINITO SOTTO LA LENTE DI GIORGIO FIORENTINI, DOCENTE ALLA BOCCONI

 
   
  Milano, 8 febbraio 2007 - Sono trascorsi più di vent’anni da quando proprio il professor Giorgio Fiorentini, per primo in Italia, parlò delle imprese no profit in un’aula universitaria di economia. E molti, allora, pensarono che si trattasse di una forma di volontariato. Oggi lo scenario è completamente cambiato: le aziende no profit sono quasi 300mila e contano oltre 800mila dipendenti, il professor Fiorentini ha moltiplicato i suoi corsi sull’argomento e adesso in Bocconi insegna Economia e gestione delle aziende no profit nel triennio, Management delle imprese sociali e della sussidiarietà nel biennio e dirige un master in Management delle imprese sociali, delle no profit e delle cooperative che, in dieci edizioni, ha trovato lavoro a 400 laureati. Eppure, ogni anno, impiega metà del primo corso per convincere gli studenti a non sentirsi i fratelli minori e sfortunati dei colleghi che si concentrano sulle aziende for profit. “Questo perché resiste ancora l’idea che quello delle imprese sociali e no profit sia l’ambito dell’impegno volontaristico, dei buoni sentimenti e delle buone azioni”, ribadisce Fiorentini. E invece? Invece è un attore protagonista dell’universo economico, un vero modello imprenditoriale, che, in alcuni settori è addirittura predominante. Chi abita nelle città si imbatte tutto il giorno con i prodotti e i servizi delle no profit: asili nido, parcheggi gestiti dalle cooperative, supermercati, società sportive, associazioni culturali. Nessuno sa, per esempio, che a Milano, su 50 teatri solo 5 o 6 sono spa; gli altri sono tutte cooperative o aziende riconducibili a questo mondo. E sono tutte aziende vere e proprie, che devono organizzarsi, fare marketing, gestire il personale, reperire i finanziamenti. Che cosa le distingue dalle altre? Il fatto che sono società private senza scopo di lucro, cioè che non dividono gli utili, ma li reinvestono. E poi, di solito, hanno un forte processo di democratizzazione nei processi decisionali e un senso di solidarietà molto forte nella mission aziendale. Sono associazioni, cooperative sociali, fondazioni, anche bancarie, organizzazioni non governative, pro loco, patronati, ex istituti di pubblica beneficenza e buona parte del mondo della cooperazione. Nel 2005, inoltre, una legge ha riconosciuto anche le imprese sociali, cioè quelle società private che erogano prodotti e servizi per il bene pubblico e per l’interesse generale nei settori della cultura, dell’assistenza, della sanità, della tutela dei consumatori… Come si vede, è un settore per nulla residuale, che svolge tutte le attività del welfare laico, e che non ha niente da invidiare, né come numeri né come soggetti, a quello delle imprese tradizionali. Nemmeno come prospettive di carriera e di retribuzione? Ormai tutti gli studenti, indipendentemente dalla laurea, cominciano con uno stage. Fino ai 35 anni l’andamento delle carriere nelle aziende no profit e in quelle tradizionali è simile. Da un certo punto in poi in quest’ultime le retribuzioni diventano migliori. Occorre ancora lavorare per un’equiparazione degli stipendi, ma sono convinto che, in questo, la competizione giocherà un ruolo decisivo. Se le no profit vorranno avere gli insegnanti, i medici, i contabili o gli ingegneri migliori, dovranno pagarli secondo il mercato. C’è, tra gli studenti che si vogliono occupare del settore no profit, una motivazione ideale oltre all’interesse per un modello imprenditoriale? Certamente. Il primo motore di chi frequenta i miei corsi è proprio una forte motivazione ideale, un senso di solidarietà molto sviluppato. Anzi, il mio sforzo consiste nell’incanalare questo entusiasmo all’interno di un contenitore assolutamente economico. Voglio fargli capire che è giusto essere motivati ma che loro saranno quelli che permetteranno ai valori ai quali tengono di arrivare a destinazione e di farsi largo nel sistema. Emergency potrebbe avere i migliori medici del mondo, ma se non fosse un’azienda organizzata non sarebbe efficace. Quali sono, dunque, le competenze manageriali che si approfondiscono? Si lavora, in particolare, su tre aspetti. Innanzitutto il controllo di gestione, perché queste aziende, proprio per la loro forte carica emozionale, rischiano di trascurare la verifica della sostenibilità delle proprie imprese. Poi c’è la gestione delle risorse umane, un capitolo delicato per ogni no profit ma soprattutto per le imprese di servizi che hanno un rapporto diretto con il pubblico e per le aziende che hanno un’alta percentuale di dipendenti appartenenti a categorie disagiate. Il terzo focus riguarda la raccolta dei finanziamenti, le tecniche di marketing e di found raising, che sono gli strumenti per la sopravvivenza dell’azienda. La differenza sostanziale è che nel mondo no profit queste sono attività continue, che richiedono relazioni costanti, processi standardizzati. Sono, insomma, un fatto tecnico, non iniziative sporadiche. Controllo, personale, finanziamenti, sono competenze utili anche in una for profit. Sì. Tra i laureati in economia aziendale, infatti, quelli con una tesi sulle no profit suscitano sempre un po’ più di interesse e di curiosità nei selezionatori. Sia perché, magari, si sono affrontati argomenti meno consueti, sia perché si tratta di persone con un background di valori più forte, superiore alla media. A parità di preparazione, infatti, un’azienda che deve tutelare particolarmente, per esempio, gli aspetti della trasparenza o che tratta servizi delicati, perché non dovrebbe preferire un profilo di questo genere? .  
   
 

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