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Notiziario Marketpress di Giovedì 28 Marzo 2013
 
   
  MILANO (TEATRO GRASSI): TONI SERVILLO - EDUARDO PROFONDO E POPOLARE - DEBUTTA A MILANO “LE VOCI DI DENTRO”, UNA COPRODUZIONE PICCOLO TEATRO, TEATRO DI ROMA, TEATRI UNITI, DOPO L’ANTEPRIMA AL THÉÂTRE DU GYMNASE DI MARSIGLIA - DAL 27 MARZO

 
   
 

Grande ritorno di Toni Servillo al Piccolo Teatro di Milano nel segno di Eduardo De Filippo. Ha debuttato ieri, mercoledì 27 marzo, in prima nazionale al Teatro Grassi di via Rovello Le voci di dentro, che vede insieme nell’impegno produttivo il Piccolo, il Teatro di Roma e Teatri Uniti, in collaborazione con Théâtre du Gymnase di Marsiglia, dove nei giorni scorsi lo spettacolo è stato presentato in anteprima in occasione di Marseille Provence 2013 Capitale Européenne de la Culture.

Le voci di dentro va in scena a undici anni dall’inizio del sodalizio tra Piccolo Teatro e Teatri Uniti, segnato da spettacoli ospitati come Tartufo di Molière, Le false confidenze di Marivaux, un altro spettacolo eduardiano, Sabato domenica e lunedì, e coronato dallo straordinario successo e dalla lunga, fortunata tournée internazionale della coproduzione della Trilogia della villeggiatura di Carlo Goldoni: tutti spettacoli con i quali Toni Servillo ha conquistato il pubblico milanese all’insegna del tutto esaurito, creando una grandissima attesa per questa nuova coproduzione.

Il debutto del 27 è stato preceduto, martedì 26 marzo, da una recita speciale dedicata ai giovani. Repliche fino al 28 aprile.

Toni Servillo-Alberto Saporito sarà affiancato sulla scena da Peppe Servillo-Carlo Saporito, fratelli anche nella finzione teatrale. Con i Servillo una folta compagnia di bravissimi attori di diverse generazioni: Chiara Baffi, Betti Pedrazzi, Marcello Romolo, Lucia Mandarini, Gigio Morra, Antonello Cossia, Vincenzo Nemolato, Marianna Robustelli, Daghi Rondanini, Rocco Giordano, Maria Angela Robustelli, Francesco Paglino.

“Eduardo De Filippo è il più straordinario e forse l´ultimo rappresentante di una drammaturgia contemporanea popolare”, spiega Toni Servillo. “Dopo di lui il prevalere dell’aspetto formale ha allontanato sempre più il teatro da una dimensione autenticamente popolare. E’ l’autore italiano che con maggior efficacia, all’interno del suo meccanismo drammaturgico, favorisce l´incontro e non la separazione tra testo e messa in scena. Affrontare le sue opere significa insinuarsi in quell´equilibrio instabile tra scrittura e oralità che rende ambiguo e sempre sorprendente il suo teatro. Il profondo spazio silenzioso che c´è fra il testo, gli interpreti ed il pubblico va riempito di senso sera per sera sul palcoscenico, replica dopo replica”.

"Le voci di dentro”, continua Toni Servillo, “è la commedia dove Eduardo, pur mantenendo un´atmosfera sospesa fra realtà e illusione, rimesta con più decisione e approfondimento nella cattiva coscienza dei suoi personaggi, e quindi dello stesso  pubblico”.

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L´assassinio di un amico, sognato dal protagonista Alberto Saporito, che poi lo crede realmente commesso dalla famiglia dei suoi vicini di casa, mette in moto oscuri meccanismi di sospetti e delazioni. Si arriva ad una vera e propria "atomizzazione della coscienza sporca", di cui Alberto Saporito si sente testimone al tempo stesso tragicamente complice, nell´impossibilità di far nulla per redimersi. Eduardo scrive questa commedia sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale, ritraendo con acutezza una caduta di valori che avrebbe contraddistinto la società, non solo italiana, per i decenni a venire.

“E ancora oggi”, conclude Servillo, “sembra che Alberto Saporito, personaggio-uomo, scenda dal palcoscenico per avvicinarsi allo spettatore dicendogli che la vicenda che si sta narrando lo riguarda, perché siamo tutti vittime, travolte dall´indifferenza, di un altro dopoguerra morale”.

Uno spettacolo impedibile, un affresco corrosivo della nostra società, in cui l’odio e l’invidia sono i convitati di una cena che si consuma ogni giorno tra ipocrisia e corruzione morale. Una commedia scritta nel 1948 ma dal forte sapore profetico, capace di evocare drammaticamente il presente.

 

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Ridare senso alle parole per ricostruire rapporti umani distrutti

 

In cinque commedie si può trovare la storia dell’umanità, scriveva Eduardo parlando della riflessione sulla condizione umana nell’Italia post bellica avviata con Napoli milionaria!, proseguita con Filumena Marturano, Le bugie con le gambe lunghe, Questi fantasmi! e compiuta con Le voci di dentro. Non a caso, quest’ultimo testo si conclude con l’afasia: al punto in cui siamo arrivati, dice Eduardo attraverso il geniale personaggio di Zi’ Nicola, parlare non è più possibile. E di Zi’ Nicola si sente la voce solo quando invoca un po’ di silenzio.

Già alla lettura, Le voci di dentro non lascia via di scampo. Eduardo scrisse la commedia di getto, nel 1948. Un anno prima, nel 1947, nasceva a Milano il Piccolo Teatro; nel 1946 Arturo Toscanini tornava in Italia, dopo i lunghi anni dell’esilio americano, per riaprire la Scala, ma anche per votare a favore della Repubblica. Eduardo aveva visto oltre, aveva guardato a quella natura umana che da sempre vivisezionava con amarezza, intuendo che, dietro l’euforia della ricostruzione e poi del boom economico, covava una nuova forma di distruzione delle relazioni umane, una nuova cattiveria.

Perché, con Toni Servillo, con Teatri Uniti e il Teatro di Roma, abbiamo condiviso la “necessità” di portare in scena oggi Le voci di dentro? Nuove sono le macerie che ci circondano, forse meno tangibili, ma più profonde. Nessuno è incolpevole, secondo Eduardo: siete tutti assassini, dice, e anch’io non sfuggo a questa disumanità. Alberto Saporito, il protagonista, senza esito, invoca chiarezza, parole che facciano uscire dall’oscurità divenuta mostruosamente normale: un assassinio lo avete messo nelle cose normali di tutti i giorni, dice al termine della commedia. Non è lontano dal Giovanni Ernani/Toni Servillo del film Viva la libertà: io sono qui per far sì che domani non si dica i tempi erano oscuri perché loro hanno taciuto. Occorrono parole chiare.

Dobbiamo ridare senso alle parole, per ricostruire rapporti umani distrutti da ipocrisie ed egoismi.

È inutile parlare quando nessuno ascolta, diceva l’Eduardo più amaro scrivendo Le voci di dentro. Ma sentiva il bisogno insopprimibile di raccontare questo sconcerto con le chiare, dure parole del teatro. Non c’è contraddizione: anzi, capiamo quanto profondo sia il senso di “teatro popolare” per Eduardo, quel teatro magico ed esterrefatto – ci ricorda Servillo con parole di Cesare Garboli -, dove il nonsenso e gli spettri sono di casa né più né meno del maccherone riscaldato o del ferro da stiro. Un teatro popolare che irrompe con amarezza e nobiltà nel sonno finale di Carlo Saporito, nel sonno delle coscienze.

Con Toni Servillo abbiamo voluto far ascoltare queste Voci di dentro, ora, in Italia e nel mondo.

 

Sergio Escobar

 

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Unire le forze, la “voce di dentro” che è giusto ascoltare

 

Eduardo: la grande Tradizione e la grande Innovazione. Le voci di dentro: quelle che è bene ascoltare in un mondo gridato, confusionario, dove tutto è festa, frastuono, fuochi d´artificio.

Il Piccolo di Milano, il "luogo" dove è nata la grande regia in Europa, Toni Servillo e il suo Teatri Uniti. Milano e Napoli. Non doveva mancare Roma. "Unire le forze" è l´insegnamento, la catechesi di questi "tempi grami", confusi e rumorosi. Unire le forze è la "voce di dentro" che mi pare giusto ascoltare.

 

Gabriele Lavia

 

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Oggi più che mai ci sarebbe bisogno di parole chiare...

 

Le voci di dentro da Lione a Milano, attraverso Napoli e Marsiglia.

Il percorso della nuova messinscena eduardiana di Toni Servillo, a oltre dieci anni da Sabato, domenica e lunedì, comincia, nel gennaio 2010, all’insegna della feconda continuità di rapporti con il Piccolo Teatro di Milano, durante le repliche di Trilogia della villeggiatura a Lione, con l’opportunità di realizzare una nuova creazione in occasione di Marsiglia 2013 Capitale Europea della Cultura.

La scelta del testo, l´architettura della coproduzione con il Teatro di Roma, la formazione della compagnia e l´eccezionale opportunità di Toni e Peppe Servillo nei ruoli di Alberto e Carlo Saporito sono stati i principali passi successivi, nel corso di tre anni che hanno visto il parallelo sviluppo di altri due fondamentali eventi scenici, entrambi propedeutici a Le voci di dentro. Dapprima Sconcerto, di Giorgio Battistelli e Franco Marcoaldi, esperimento di Teatro di Musica con i fratelli Servillo per la prima volta insieme, e successivamente Toni Servillo legge Napoli, attraversamento della lingua poetica napoletana che ribadiva l´assoluta contemporaneità della voce di Eduardo. Autore da ascrivere a pieno titolo alla grande drammaturgia europea del secondo Novecento, non tanto erede di Pirandello e dei suoi antecedenti quanto piuttosto precursore di una nitida linea teatrale che da Beckett, attraverso Pinter, porta a Kantor.

E già dalle prime prove, a  Santa Maria Capua Vetere al Teatro Garibaldi e a Napoli al San Ferdinando, la flagrante epifania scenica di Toni e Peppe Servillo rimandava inevitabilmente a Leslaw e Waclaw Janicki, i gemelli de "La classe morta" e degli altri capolavori kantoriani.

Mi piace poi ricordare che agli albori di Teatri Uniti, quando con grande lungimiranza Luca De Filippo concesse a Toni Servillo la disponibilità del repertorio paterno, fu proprio Le voci di dentro il titolo che, nell´estate del 1987 a Santarcangelo, proponemmo a  Leo De Berardinis per inverare il suo tanto agognato incontro con Eduardo. La creatività polifonica di Leo lo portò invece verso una  splendida riscrittura scenica eduardiana, Ha da passa´ a nuttata,  primo grande esito di Teatri Uniti al Festival di Spoleto 1989, con in scena Toni Servillo e Antonio Neiwiller al fianco di Leo, che interpretava anche l´ultimo monologo di Alberto Saporito. Come allora, come nel 1948, ci sarebbe più che mai  bisogno di parole chiare, oggi che nella notte di Napoli non lampeggiano più i dignitosi e innocui fuochi d´artificio di Zi’ Nicola ma ben altri fuochi distruggitori e osceni.

 

Angelo Curti

 

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La Napoli delle “Voci di dentro”

di Cesare Garboli

 

Vicinissima al surrealismo, la Napoli delle Voci di dentro (che non sono le voci della coscienza, ma quelle del «profondo») sorpassa, doppiandola, la Napoli di una drammaturgia in superficie, attraversata dal colore locale e dalle epiche della borsa nera. Questa Napoli è una città finalmente «diversa», dove la luce del mattino, col sole che penetra di sghimbescio nelle povere cucine, si ritira, impallidisce, si spegne fino a dar posto a luci «di dentro», a luci artificiali. Partito dagli spiccioli della realtà, Eduardo dava corpo a un teatro dell’immaginazione, luogo fantastico dove le visioni, gli incubi, le osservazioni, le fobie producono le cose e non viceversa. Dal cuore del realismo, Eduardo strappava l’altra radice della realtà. Ne evocava il fantasma.

Alberto Saporito, noleggiatore di sedie e decoratore di feste popolari, nipote di un pirotecnico sopravvissuto alla propria decadenza e miseria, è vittima di un incubo, e subito lo traduce in realtà: vede un delitto e ne denuncia gli esecutori immaginari, i Cimmaruta, ignara e assonnata famiglia di coinquilini. Questo zelo aggressore, questo gratuito piacere punitivo, questa fobia per la famiglia è il fuoco comico del copione, la sua fiammella incendiaria. Tutta la storia nasce dalla cattiveria, dall’ipocondria, dall’umor nero e visionario. Il sogno funge da detonatore in una situazione già carica di elettricità, pronta ad esplodere. Dal cesto della famiglia, uno per uno, escono i vermi, ciascuno con la sua bava. La commedia finisce col fervorino, con una coda morale. Ma il suo messaggio è un altro. È il risucchio di tutta la vita nella visione, nell’incubo, nel dispettoso vapore della misantropia. Così la vecchia Napoli proverbiale, dialettale e farsesca, passa guizzando nella metafora, e una piramide di sedie e anticaglie andrà ad ammucchiarsi come nei nostri sogni, nello spettrale magazzino dei Saporito: squallido fondaco stipato di vecchia mobilia da capannone in disuso, già prossima alla rigatteria delle nostre regie di pseudo-avanguardia.

E qui può succedere di tutto. Anche d’imbattersi, girato l’angolo, in qualche minorato vecchiaccio beckettiano emigrato a Mergellina, magari un vegliardo che abbia smesso di parlare, vetusto e stizzoso mercante di petardi, scaduto a profeta impagliato, a Saturno di quartiere, arrampicato sul soppalco e prepararsi le granate, i mortaretti, i «fuie-fuie», il bengala da accendere per far festa, al momento del trapasso. È Zi’ Nicola, l’immagine di fumismo popolare dove il mutismo espressivo di Eduardo, che è il segreto di ogni grande attore, va a sposarsi con la scelta della misantropia, e a incarnarsi in un personaggio che è simbolo di una fatale legge dì incomprensione fra i simili.

Di solito, si cataloga il repertorio del «secondo» Eduardo in un’area pirandelliana, mentre basterebbe un copione come Le voci di dentro a chiarire che il linguaggio di Eduardo è di tutt’altra pasta. Se usa Pirandello, Eduardo lo contamina coi vecchi equivoci farseschi, coi vecchi imbrogli comici del teatro o di tradizione, o meglio del teatro di sempre. Pirandello tende a fare di ogni personaggio un manichino, così come sono manichini, esseri di legno e di stoffa, capziose armature mentali, i personaggi dei quadri di De Chirico. Eduardo è più semplice e più funambolo. L’origine dei suoi personaggi è nello sbadiglio delle prime ore della giornata, quando si esce dal letto, si guarda fuori, ci si veste, si beve il caffè, prima di cominciare una vita senza traumi e senza pensieri, mentre poi qualcosa s’inceppa, si guasta, e senza volerlo ci troviamo a vivere un sogno balordo, a recitare una parte pazza. I personaggi di Eduardo non sono mai eccezioni. Sono regole sfigurate, ferite da un non-senso, offese da una cicatrice rimasta sulla faccia di traverso. Si sente quest’offesa come un fantasma, nelle Voci di dentro, e ci si accorge che la recitazione di Eduardo, coadiuvato da una grande Puppella Maggio, è tutta lì, in quell’offesa. Così ci si dimentica di tutto il resto, anche dello strano modo che tiene Eduardo, ormai, nel buttar via il suo repertorio. Lo fa recitare come viene viene, al limite della decenza, fra il genio e la filodrammatica.

(in Cesare Garboli, Un po´ prima del piombo. Il teatro negli anni Settanta,

Sansoni ed. 1998 - sezione 1977. Corriere della Sera)

 

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Il teatro e il mio lavoro

di Eduardo De Filippo

 

Non vi parlerò delle mie commedie - non tocca a me giudicarle – ma dei vari elementi che concorrono alla loro nascita, da quelli più essenziali di sostanza a quelli, non meno importanti, di forma. Premetto che, tranne che per pochi lavori composti da giovane per esercitare la mano o scritti più tardi per necessità di mestiere, alla base del mio teatro c’è sempre il conflitto tra individuo e società. Voglio dire che tutto ha inizio, sempre, da uno stimolo emotivo: reazione a un’ingiustizia, sdegno per l’ipocrisia mia e altrui, solidarietà e simpatia umana per una persona o un gruppo di persone, ribellione contro leggi superate e anacronistiche con il mondo di oggi, sgomento di fronte a fatti che, come le guerre, sconvolgono la vita dei popoli, eccetera.

In generale, se un’idea non ha significato e utilità sociali non m’interessa lavorarci sopra. Naturalmente, mi rendo conto che quello che è vero per me può non esserlo per altri, ma io sono qui per parlarvi di me e dato che la pietà, lo sdegno, l’amore, le emozioni, insomma, si avvertono nel cuore, in questo senso io posso affermare che le idee mi nascono nel cuore prima che nel cervello: poi ci lavoro su con la mente, e allora ho bisogno dei sensi per rendere le idee concrete, comunicabili, affidandole a personaggi e dando ai personaggi parole per esprimersi. Occhi e orecchie mie sono stati asserviti da sempre – e non esagero – a uno spirito di osservazione instancabile, ossessivo, che mi ha tenuto e mi tiene inchiodato al mio prossimo e che mi porta a lasciarmi affascinare dal modo d’essere e di esprimersi dell’umanità.

Un’idea, in fondo, non è tanto difficile averla; difficilissimo è invece comunicarla, darle forma. Solo perché ho assorbito avidamente, e con pietà, la vita di tanta gente, ho potuto creare un linguaggio che, sebbene elaborato teatralmente, diventa mezzo di espressione dei vari personaggi e non del solo autore.

Quando parenti e amici si meravigliano che io possa restare così a lungo solo, appartato e apparentemente inoperoso, non sanno che è con quella gente che io continuo a parlare e a ragionare, ascoltando i loro casi, le loro aspirazioni, seguite troppo spesso da delusioni e immancabili proteste.

Ma, tornando all’argomento, dopo avere avuto l’idea e averla sommariamente rivestita di forma, comincia un altro periodo, lungo e laborioso, durante il quale per mesi, più spesso per anni, mi tengo dentro l’idea, e non mi sono mai pentito d’aver aspettato a mettere penna su carta. Se un’idea non è valida, poco alla volta sbiadisce, scompare, non ti ossessiona più; ma se è valida, con il tempo matura, migliora e allora la commedia si sviluppa come testo e anche come teatro, come spettacolo completo messo in scena e recitato nei minimi particolari, esattamente come io l’ho voluto, visto e sentito e come, purtroppo, non lo sentirò mai più quando sarà diventato realtà teatrale.

Mentre appena ho scritto la parola fine mi prende una profonda antipatia per quel mucchio di carta che aspetta impaziente di arrivare al pubblico, finché tengo la commedia dentro di me, invece, e ne sono il primo, solo e beato spettatore, cerco di far sì che le mie tre attività teatrali si aiutino a vicenda, senza prevalere l’una sull’altra e allora autore, attore, e regista collaborano strettamente, animati dalla medesima volontà di dare allo spettacolo il meglio di se stessi.

Solamente quando mi sono chiari l’inizio e la fine dell’azione e quando conosco perfettamente vita e miracoli d’ogni personaggio, anche secondario, mi metto a scrivere. Questo momento lo rimando finché è possibile, perché mi rendo conto della responsabilità che mi assumo e so quante difficoltà dovrò superare per rimanere fedele al pensiero, senza farmi sedurre dagli improvvisi capricci della fantasia. Però, una volta che mi sono seduto al tavolino e ho riempito il primo foglio, lavoro speditamente e con entusiasmo, come se dettassi a me stesso. La storia del mio lavoro termina con la parola fine, scritta in fondo all’ultima pagina del copione; poi ha inizio la storia del nostro lavoro, quello che facciamo insieme noi attori e voi pubblico, perché non voglio trascurare di dirvi che non solo quando recito ma già da quando scrivo, il pubblico io lo prevedo. Se in una commedia vi sono due, cinque, otto personaggi, il nono per me è il pubblico: il coro. È quello cui do maggiore importanza perché è lui, in definitiva, a darmi le vere risposte ai miei interrogativi.

(in I capolavori di Eduardo, Einaudi, Torino, 1973)

 

 
   
 

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