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Notiziario Marketpress di Lunedì 30 Settembre 2013
 
   
  GIUSTIZIA EUROPEA: I CITTADINI TURCHI NON HANNO IL DIRITTO DI ENTRARE SENZA VISTO NEL TERRITORIO DI UNO STATO MEMBRO DELL’UE PER FRUIRVI DI SERVIZI

 
   
 

Il Protocollo addizionale dell’Accordo di associazione CEE-Turchia non osta all’introduzione, dopo la sua entrata in vigore, di un obbligo di visto per quanto riguarda la fruizione di servizi.

Nel 1963, la Turchia e la Comunità economica europea nonché i suoi Stati membri hanno concluso un Accordo di associazione, il cui fine era di promuovere il rafforzamento continuo ed equilibrato delle relazioni commerciali ed economiche tra le parti contraenti, allo scopo di migliorare il tenore di vita del popolo turco e di facilitare successivamente l’adesione della Turchia alla Comunità. Esso prevede, in particolare, che le parti contraenti si ispireranno alle disposizioni del Trattato CEE relative alla libera prestazione dei servizi tra gli Stati membri al fine di eliminare tra loro qualsiasi restrizione a tale principio. 

Il Protocollo addizionale di tale Accordo, firmato nel 1970, contiene una clausola di «standstill», che vieta alle parti contraenti di introdurre nuove restrizioni alla libera prestazione dei servizi, a partire dalla sua entrata in vigore. 

La sig.ra Demirkan, una cittadina turca cui le autorità tedesche hanno negato un visto per far visita al patrigno residente in Germania, invoca la clausola di «standstill» dinanzi ai giudici tedeschi. A suo avviso, tale clausola vieta l’introduzione di nuove restrizioni, come un obbligo di visto, non soltanto nei confronti di coloro che cercano di effettuare una prestazione di servizi (libera prestazione dei servizi cosiddetta «attiva»), bensì anche nei confronti di coloro che cercano di fruire di una prestazione di servizi (libera prestazione dei servizi cosiddetta «passiva»). La sig.ra Demirkan sostiene che, poiché una visita ad un familiare in Germania implica la possibilità di ottenere ivi dei servizi, essa deve essere considerata una potenziale fruitrice di servizi. Per giunta, alla data di entrata in vigore del Protocollo addizionale nei confronti della Germania, nel 1973, il diritto tedesco non richiedeva alcun visto per i cittadini turchi che intendevano effettuare una visita a carattere familiare in Germania. La clausola di «standstill» produrrebbe dunque l’effetto che l’obbligo generale di visto, introdotto successivamente dalla Germania per i cittadini turchi nel 1980, non potrebbe trovare applicazione nei suoi confronti.

L’Oberverwaltungsgericht Berlin-Brandenburg (Corte amministrativa d’appello di Berlino‑Brandeburgo, Germania), investito di tale controversia in secondo grado, chiede alla Corte di giustizia di precisare la portata della clausola di «standstill».

Con la sua sentenza odierna, la Corte constata che la nozione di «libera prestazione dei servizi» contenuta nella clausola di «standstill» del Protocollo addizionale non include la libera prestazione dei servizi passiva, ossia la libertà per i cittadini turchi, destinatari di servizi, di recarsi in uno Stato membro per fruire ivi di una prestazione di servizi.

La Corte ricorda che la libera prestazione dei servizi garantita dai Trattati dell’Unione ai cittadini degli Stati membri – e dunque ai cittadini dell’Unione – include non soltanto la libera prestazione dei servizi attiva, ma anche, come da essa riconosciuto nella sentenza Luisi e Carbone del 1984, quale complemento necessario, la libera prestazione dei servizi passiva. Così, i cittadini dell’Unione che si rechino in un altro Stato membro al fine di ricevervi servizi o avendo la facoltà di riceverne, quali i turisti o i pazienti, godono della tutela della libera prestazione dei servizi passiva. Tale tutela si basa sull’obiettivo consistente nella realizzazione di un mercato interno, concepito come spazio senza frontiere interne, eliminando tutti gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione di un siffatto mercato.

Orbene, a causa delle differenze fondamentali esistenti tra i Trattati dell’Unione, da un lato, e l’Accordo di associazione nonché il suo Protocollo addizionale, dall’altro, per quanto riguarda tanto la loro finalità quanto il loro contesto, l’interpretazione della nozione di libera prestazione dei servizi riconosciuta dalla Corte nel 1984 per i Trattati dell’Unione come includente la libera prestazione dei servizi passiva non può essere estesa alla clausola di «standstill» del Protocollo addizionale.

Infatti, a differenza dei Trattati dell’Unione, l’associazione CEE-Turchia persegue una finalità esclusivamente economica, poiché l’Accordo di associazione e il suo Protocollo addizionale mirano essenzialmente a favorire lo sviluppo economico della Turchia. Lo sviluppo delle libertà economiche per consentire una libera circolazione delle persone di ordine generale, che sia paragonabile a quella applicabile, secondo i Trattati dell’Unione, ai cittadini dell’Unione, non forma oggetto dell’Accordo di associazione. Oltre a ciò, la Corte rileva che il Consiglio di associazione, il quale, secondo il Protocollo addizionale, è chiamato a stabilire il ritmo e le modalità per la progressiva soppressione delle restrizioni alla libera prestazione dei servizi, sinora non ha adottato alcuna misura che consenta di constatare un sostanziale avanzamento per la realizzazione di tale libertà. Per giunta, nessun elemento indica che le parti contraenti dell’Accordo di associazione e del Protocollo addizionale abbiano, al momento della firma di tali atti, ossia rispettivamente 21 e 14 anni prima della sentenza Luisi e Carbone, concepito la libera prestazione dei servizi come comprendente la libera prestazione dei servizi passiva.

(Corte di giustizia dell’Unione europea, 

Lussemburgo, 24 settembre 2013, Sentenza nella causa C-221/11,

Leyla Ecem Demirkan / Bundesrepublik Deutschland)

 
   
 

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