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Notiziario Marketpress di Venerdì 03 Ottobre 2014
 
   
  IL PERUGINO VOLANTE E LA SUA GENIALE FAMIGLIA

 
   
   Perugia – Giovan Battista Danti era un ragazzo prodigio. Matematico e fisico, quando aveva meno di 20 anni era già una gloria dell’università di Perugia, la città dove nacque nel 1478. I Baglioni, temuti signori della città, lo tenevano d’occhio soprattutto per i suoi progetti di ingegneria militare. Ma la mente del giovanissimo scienziato era pervasa da una ambizione segreta: quella di realizzare la profezia del filosofo medievale Ruggero Bacone, che nel Xiii secolo scriveva: “Arriveremo a costruire macchine alate, capaci di sollevarsi nell’aria come gli uccelli”. Però, a differenza del “doctor mirabilis”, Giovan Battista vagheggiava un volo senza aiuti meccanici. I suoi concittadini, per sfotterlo un po’, lo chiamavano Dedalo, come lo sfortunato e geniale personaggio della mitologia greca, che vide suo figlio Icaro inabissarsi in mare per essersi avvicinato troppo al sole mentre volavano insieme, lontano dal labirinto del feroce Minotauro che lui stesso aveva costruito. Anche Giovan Battista pensò a due grandi ali per realizzare il suo sogno. Ma non le fece di cera. Le volle enormi, realizzate con pelli e legni leggerissimi. Soprattutto stette bene attento che fossero proporzionate al suo peso. Per questo studiò varie soluzioni, esaminando a lungo la curvatura delle ali degli uccelli e l’impatto dei venti sulla innovativa struttura. Gli Uomini Alati Di sicuro, nonostante la sua profonda cultura sull’argomento, Giovan Battista non poteva conoscere le antichissime tradizioni cinesi dell’aquilone e della lanterna volante, che già da secoli si sollevavano in cielo, come le moderne mongolfiere, per mezzo dell’aria scaldata da piccole candele. Ma forse aveva letto la leggendaria storia dell’astronomo greco Archita, che quasi 400 anni prima di Cristo aveva costruito una colomba meccanica in legno che si alzava in aria grazie al vapore. E aveva comunque sentito parlare di un certo Armen Firman che nell’852 nella penisola iberica, costruì un grande mantello, simile a un ombrello con dei panni irrigiditi. Così abbigliato, si lanciò dal minareto della moschea di Cordova, senza farsi nemmeno troppo male, felice di aver realizzato un meccano simile al moderno paracadute. Un altro coraggiosissimo sperimentatore, poco dopo l’anno Mille, fu un monaco benedettino, Elmer di Malmesbury, studioso di astrologia, che in gioventù si fracassò le gambe dopo aver spiccato il volo con una specie di aliante dalla torre dell’abbazia. Rimase zoppo per tutta la vita, ma anche convinto che se si fosse attaccato al corpo una coda meccanica, avrebbe potuto effettuare un atterraggio morbido. Il suo superiore, l’abate di Malmesbury, pensò bene di vietargli qualunque altro esperimento. Così, con molti rimpianti, Elmer passò il resto dei suoi giorni pregando e lavorando ai suoi trattati astrologici. Le imprese temerarie di quegli uomini alati furono studiate dal matematico perugino. Ma Giovan Battista voleva andare oltre le improvvisazioni. Non era solo una questione di coraggio. La sfida del volo andava affrontata in modo scientifico. Come faceva negli stessi anni Leonardo da Vinci, che aveva 26 primavere più di lui e che da tempo raccoglieva minuziose osservazioni tecniche sulla resistenza aerodinamica. Studi straordinari che sarebbero poi confluiti nel famoso “Codice sul volo degli uccelli”, una delle sue tante opere incompiute e meravigliose. Leonardo vagheggiava splendide macchine che “battevano le ali” come quella stupefacente del “Grande nibbio”, che costruì osservando a lungo il volteggiare del rapace. L’incontro Con Leonardodanti cercava altre strade. Sosteneva che l’uomo poteva sì volare ma con le ali ferme, sfruttando il favore del vento e le correnti ascensionali, come accade oggi con gli alianti o i deltaplani. Le scarne cronache del tempo raccontano che i due scienziati una volta si incontrarono grazie a Giampaolo Baglioni, potente signore di Perugia, che aveva parlato a Leonardo di colui “qui ingenii acumine hominem quoque volare posse docuisset”. Immaginiamo la curiosità del grande genio di Vinci di fronte allo scienziato perugino che avrebbe potuto spiegare anche a lui come l’uomo potesse volare. I due furono presentati con ogni probabilità nel corso del 1502 a Castiglion del Lago, nella torre fortezza dei Baglioni, poi trasformata in Palazzo Ducale. Nello stesso luogo fu ospitato anche Niccolo Machiavelli. Leonardo allora progettava una definitiva bonifica idrografica delle vaste terre comprese tra il Trasimeno, la Valdichiana, la Valtiberina e il Valdarno. Venti anni prima, alla corte milanese di Ludovico il Moro, aveva perfezionato gli studi giovanili sulla resistenza dell’aria. Intuì di “poterla soggiogare e levarsi sopra di lei” soltanto “facendo forza contro”. Così, già nel 1485 progettò un paracadute. E disegnò anche una vite aerea, prototipo dell’elicottero. Giovan Battista e Leonardo da Vinci, sulle rive del Trasimeno, parlarono a lungo. Anche se ognuno rimase della propria opinione. Danti del resto, almeno da cinque anni, era già passato dalla teoria alla pratica. Il Volo Sui Tetti Di Perugianelle notti d’estate, all’imbrunire, accompagnato da un fedele servitore, caricava le ali su un carretto e correva verso il Lago Trasimeno. La prima volta si lanciò da una altura dell’Isola Maggiore, verso la punta di un mulino “per prendere il vento che spirava a tramontana”. Usò l’acqua come pista di atterraggio per evitare di sfracellarsi al suolo. E fece bene. Planò sul letto del Trasimeno e fu ripescato dal suo assistente. Insieme, dovevano sembrare ai perugini dell’epoca due strambi personaggi rapiti da un sogno tutto loro. Così, Lione Pascoli descrisse la strana coppia nel libro “Vite dei pittori, scultori e architetti perugini”, edito a Roma nel 1732: “Cominciò da sè a lavorare notte e giorno segretamente ferri, molle, e altri ordigni e tirateli tutti felicemente a fine altro non gli restava a fare che l’esperienza. E perché questa pure fosse occulta, acciò improvviso del tutto giungesse in Perugia lo spettacolo aspettò il plenilunio, e nell’ore in cui altri più saporitamente riposano ed in un luogo il più remoto d’una di quelle isole per non esser veduto, aggiustò bene al suo dosso gli ordigni, che formavano due ali, e sopra quell’acque tentò di volare, e volò per qualche non piccolo spazio facilmente; ma quando stanco volle fermarli, come voluto avrebbe a poco a poco, e gli convenne alla riva della medesima, ove quel suo amico l’aspettava, sovra dell’acque lasciarsi cadere”. La grande occasione per presentare la mirabile invenzione arrivò nel febbraio del 1498. Perugia si apprestava a celebrare le sfarzose nozze della giovane Pantasilea Baglioni, discendente del potente casato dei signori della città, con il celebre capitano di ventura Bartolomeo d’Alviano che l’anno precedente aveva perduto la prima moglie. Al culmine della festa, nella Piazza Grande, intorno alla Fontana Maggiore, tra i balli, i canti e i musici, l’attenzione degli illustri invitati e del popolo fu attratta dall’uomo alato salito su uno dei tetti adiacenti alla cattedrale. I suoni e le grida lasciarono spazio al silenzio: Giovan Battista Danti si lanciò nel vuoto, ad ali spiegate, fidando sull’eterno vento cittadino. E volò per qualche tempo sulla folla plaudente e stupefatta. Ma poi la giuntura di un’ala si ruppe e Dedalo sterzò, perse quota e cadde su un tetto vicino la Sapienza Nuova. Si fratturò una gamba ma acquistò gloria imperitura. Giovan Battista non ripeté più l’esperimento. Qualche tempo dopo, lasciò anche Perugia, alla volta di Venezia, dove insegnò matematica e lavorò come ingegnere militare al servizio della Serenissima fino alla fine dei suoi giorni. Morì a soli 39 anni nel 1517. L’eco delle sue gesta inchiostrò le attente pagine di storia perugina di Crispolti, Pascoli, Pellini e Bonazzi. Ma si spense presto, come il suo sogno. Rimase il nomignolo: Dedalo, sussurrato ancora dai tenaci cultori delle storie dimenticate. E una bella piazza perugina che oggi evoca il suo cognome ma che non è dedicata a lui. Una Piazza, Cento Storie Perché Piazza Danti, il salotto di pietra nascosto dietro il Duomo, si chiama così in onore di un pronipote di Giovan Battista: Vincenzo Danti, l’unico grande scultore perugino, autore della bella statua in bronzo di Giulio Iii che dalla fiancata della cattedrale ogni giorno, con la mano destra sollevata in alto, sembra benedire il passeggio dei perugini su Corso Vannucci. Al giorno d’oggi, in pochi si soffermano sull’altra mano del pontefice, quella poggiata sulla sedia: il palmo indolente imprigiona con una stretta vellutata e feroce il becco e la testa di un grifo. Così l’artista raccontò il destino della sua città, soffocata dal potere temporale dei papi. Il grande bronzo una volta troneggiava dietro San Lorenzo. E l’attuale Piazza Danti, proprio per l’imponente scultura, allora era conosciuta dai perugini come la “Piazza del Papa”. La statua fu spostata nel 1899 per fare spazio alle rotaie del tram elettrico che ora non c’è più. Così, quasi come risarcimento per il trasloco, lo spazio urbano fu dedicato a Vincenzo Danti. Per secoli, quell’approdo della città verticale, dove il gomitolo di strade che dalle antiche porte, i vicoli e le scale, dopo tante salite si ricompone in modo naturale, poco prima di esplorare nuove discese, fu chiamato anche Piazza delle Erbe e della Paglia. Della vecchia denominazione è rimasta una traccia curiosa nei bassorilievi disegnati sui palazzi, proprio all’inizio di Via del Sole e di Via Bartolo: segni di pietra quasi nascosti dai rifacimenti recenti delle vecchie costruzioni. Raffigurano delle mani che stringono spighe di grano. Perché il pane e le biade per i cavalli venivano vendute proprio lì, dove adesso, ogni settimana, viene ospitato il mercatino delle terrecotte. Pochi metri per cercare di capire una città: sulla piazza si apre la porta barocca della cattedrale dedicata a San Lorenzo, uno dei tre patroni di Perugia, insieme a San Costanzo e Sant’ercolano. Tutti e tre vescovi. Tutti e tre martiri e santi. Devozioni comuni ma diverse e personalizzate. Per lasciarsi, comunque, un’altra possibilità di scelta, anche nella preghiera. E quasi di fronte al tempio, il Pozzo Etrusco, scavato tre secoli prima della nascita di Cristo: una oscura vena che scende per 37 metri e dalla quale riemergono le profonde radici di Perugia. Piazza Danti, appena un passo dietro la Fontana Maggiore e il Corso dedicato al Perugino, protetta dalla cattedrale eppure comunque aperta verso altre direzioni, racconta forse meglio di ogni altro luogo l’anima di una città che più di esibire cela, nasconde e spesso dimentica, con l’eterna scusa della distrazione, marchio di un carattere orgoglioso e insieme sfuggente. George Steiner, che in un suo libro ha cercato di spiegare l’identità del Vecchio Continente, forse qui, seduto nell’ora del tramonto davanti al bar Turreno, troverebbe la miscela ideale di una certa idea di Europa, il bandolo della matassa di una identità da ricomporre. C’è il caffé, luogo degli appuntamenti, delle cospirazioni, dei dibattiti e dei pettegolezzi, dove i “flaneur” possono anche sognare oppure starsene accucciati al caldo appena torna la tramontana. Qui, di fronte a strade diverse che si biforcano, si può ancora camminare piano insieme ai propri pensieri. Il passeggio e il paesaggio rischiano di confondersi, come la memoria sugli uomini e sulle cose. L’anima Della Toponomastica La scritta “Piazza Danti” accoglie in modo sobrio il viaggiatore. E’ solo una parola. Ma esprime un calore nascosto rispetto ai freddi numeri delle anonime street e delle avenues sterminate di mondi nuovi e lontani. In Europa anche la toponomastica ha un’anima. E il nome Danti, come la città di Perugia, nasconde molto di più di quello che mostra a prima vista. Svela ancora, per chi le vuol cercare, le straordinarie vicende della geniale famiglia di Giovan Battista: una dinastia che segnò un’epoca di ingegno e bellezza nella Perugia a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento. Il fratello maggiore del “perugino volante” si chiamava Pier Vincenzo. Era un vero uomo del Rinascimento, dall’ingegno multiforme: matematico e orafo, progettò e costruì raffinati strumenti astronomici. Era il figlio di un notaio, Bartolomeo Ranaldi. Ma volle inventare anche una nuova identità: amava a tal punto la letteratura e la poesia dell’Alighieri da chiedere ed ottenere di cambiare il suo cognome in Danti. La sua singolare richiesta fu accolta. E da allora lui e i suoi eredi a Perugia furono noti come i Danti, cioè figli di Dante, il sommo poeta che cantò l’acropoli nella Commedia: “onde Perugia sente freddo e caldo da Porta Sole…”. Geni Di Famiglia Pier Vincenzo ebbe due figli. Giulio, architetto e orafo per tradizione familiare, collaborò con Antonio da Sangallo alla costruzione della imponente Rocca Paolina che fu edificata in soli tre anni di lavoro. Sua sorella, Teodora Danti, era poetessa, pittrice e appassionata cultrice delle scienze matematiche: scrisse un commentario sugli Elementi di Euclide e fu anche, di fatto, la prima storica dell’arte italiana, capace di studiare e divulgare la dolce pittura del Perugino. Come suo zio Giovan Battista, anche Teodora non ebbe eredi. Così riversò il suo affetto e il suo sapere sui tre geniali figli di suo fratello: Vincenzo, Ignazio e Girolamo. Il primogenito, Vincenzo Danti, l’autore della statua di papa Giulio Iii, fu un “enfant prodige”: crebbe nel mito di Michelangelo, tanto da essere definito il suo discepolo, anche se non lavorò mai con il genio di Caprese. Cosimo I de’ Medici, colpito dalla sua bravura, lo volle a Firenze. Lì il grande scultore perugino scrisse “Il primo libro del trattato delle perfette proporzioni” e realizzò autentici capolavori come la “Decollazione”, conservata nel Museo dell’Opera del Duomo e “L’onore che vince l’inganno” che si può ancora ammirare al Bargello. Ma anche “La Madonna con il Bambino” esposta a S.croce e le due splendide statue dell’Equità e del Rigore che dimorano agli Uffizi. Altre meravigliose opere di Danti sono una “Flagellazione” emigrata nel museo Jacquemart André di Parigi e un “Cupido”, a lungo ritenuto di Michelangelo, che ha trovato casa nel Victoria and Albert Museum di Londra. Vincenzo lavorò lontano dalla sua città per 16 anni. Ma quando tornò a Perugia ebbe anche il tempo di fondare la celebre Accademia del Disegno, ora Accademia delle Belle Arti, alla quale donò le splendide copie in gesso dei quattro “Tempi del giorno” di Michelangelo. L’enciclopedico Ignazio Un nuovo cognome da indossare come un vestito immacolato. Il secondo figlio di Giulio fece onore al poeta che suo nonno voleva come antenato. Seguì il destino dei Danti, scolpito nei versi profetici: “Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”. Decise di farsi frate. Anche lui cambiò identità: fu battezzato con il nome di Carlo Pellegrino nell’anno 1536. Ma dal giorno in cui varcò la porta del convento di San Domenico, quando aveva poco più di 19 anni, si chiamò Ignazio. Si tuffò nella preghiera e nello studio della matematica, della geografia e dell’astronomia. Poi si trasferì a Firenze, nel monastero di San Marco, dove insegnò matematica e scienze alle figlie dell’aristocrazia fiorentina. Cosimo I de’ Medici, protettore di artisti e scienziati e che già aveva a suo servizio lo scultore Vincenzo Danti, colpito dalle sue capacità, lo chiamò per dipingere nel Guardaroba di Palazzo Vecchio le preziose carte geografiche del mondo allora conosciuto. L’opera, descritta mirabilmente dal Vasari, stupì i contemporanei ed entusiasmò il granduca. Ignazio, insieme ad altri strumenti scientifici, realizzò anche un globo terrestre e uno splendido astrolabio. Qualche anno dopo, costruì un quadrante marmoreo con otto orologi solari sulla facciata di Santa Maria Novella. E trasformò la chiesa in un grande osservatorio astronomico, in cui previde anche uno gnomone per misurare l’esatta posizione del sole nel cielo. Cosimo I premiò Ignazio con l’istituzione di una cattedra di Matematica. Danti lo ripagò con un’altra straordinaria scoperta, quaranta anni prima di Galileo: un rudimentale cannocchiale che utilizzò per seguire gli spostamenti della stella polare. Come suo zio, il “perugino volante” Giovan Battista Danti, anche Ignazio non si poneva limiti: in lunghi colloqui con Cosimo de’ Medici, concepì il grandioso progetto di un collegamento d’acqua, tra il Tirreno e l’Adriatico, lungo le valli dell’Appennino sfruttando il corso dell’Arno, un avveniristico canale e la forzosa nascita di alcuni laghi artificiali. La morte del granduca interruppe quel sogno visionario che scandalizzò la corte medicea e suscitò invidie tra i favoriti della nobile casata. Danti allora lasciò Firenze e si trasferì a Bologna, dove diventò presto professore di matematica nella prestigiosa università cittadina. Tra una lezione e l’altra ebbe anche il tempo di costruire la bella meridiana che ancora oggi adorna San Petronio e calcolare l’esatta circonferenza del globo terracqueo. La sua vita cambiò percorso quando fu eletto papa, con il nome di Gregorio Xiii, il giurista Ugo Boncompagni che, come Ignazio, aveva insegnato a Bologna. Danti non poteva dire di no al suo collega, che lo chiamò a Roma per dipingere le tavole d’Italia nella Galleria delle Carte Geografiche, ora visitabili nei Musei Vaticani. Il grande cosmografo perugino unì il Bel Paese nel nome della bellezza, della cultura, dell’arte e della religione. Le pareti della spettacolare galleria, lunga centoventi metri e larga sei, sono coperte da venti carte geografiche in scale diverse, colorate e popolate di stemmi, emblemi e simboli nelle quali ogni paese, ogni valle, ogni fiume e ogni montagna è riconoscibile. E sui mari, azzurrissimi e appena increspati che circondano la penisola, galleggiano navi di ogni foggia e colore. Nell’umbria, terra natale di Ignazio, intorno al Trasimeno, brulicano cavalli, accampamenti e soldati: una scritta in latino ricorda la grande sconfitta dei Romani ad opera di Annibale nei pressi di Tuoro. Così, nella via aerea che costeggia i Giardini Vaticani, l’aspro e colto Gregorio Xiii, il campione della Controriforma, nel 1580 poteva andare a passeggio per l’Italia, che considerava il suo giardino privato, senza nemmeno uscire dal suo palazzo. Il Calendario E L’obelisco Lo stupore che ancora oggi coglie i visitatori alla vista della Galleria delle Carte Geografiche fu lo stesso che attraversò i contemporanei. Ma Ignazio Danti doveva ancora compiere la sua opera più grande, quella per cui è passato alla storia: fu il principale autore del calendario che tutti noi ancora utilizziamo. La riforma gregoriana non nacque da motivazioni scientifiche, ma religiose: il calendario solare doveva coincidere con quello ecclesiastico. Dal tempo del Concilio di Nicea del 325 avanti Cristo, il calendario era rimasto indietro di 10 giorni rispetto al Sole. E la Pasqua si spostava sempre più verso l’estate. Veniva infatti calcolata in base alla data dell’equinozio di primavera, che era stata decisa in quella storica assise religiosa. Nella Torre dei Venti del Vaticano, sul pavimento del solaio, è ancora tracciata la linea meridiana grazie alla quale Ignazio spiegò l’errore al papa: nella seconda metà del Cinquecento lo sfasamento era ormai evidente. Gregorio Xiii, convinto da Danti, corse ai ripari e per risolvere il problema nominò una apposita commissione di cui faceva parte anche il vescovo perugino. E la sera del 4 ottobre 1582, gli italiani, i francesi, gli spagnoli, i portoghesi e tutti gli altri cattolici del mondo, accorciarono la propria vita: quando si svegliarono era il 15 ottobre 1582. Non avevano dormito dieci giorni: da quella ferale mattina era entrato in vigore il calendario gregoriano che sostituì quello giuliano. I paesi protestanti dovettero attendere il Xviii secolo per uniformarsi alla novità. E la Svezia, che lo fece gradualmente, si impantanò in un pasticcio di date: il 1712 a Stoccolma e dintorni fu un anno doppiamente bisestile con un febbraio di 30 giorni. Ignazio visse quei giorni di gloria senza parlarne troppo in giro, com’era suo costume. Il papa, riconoscente, lo premiò con la carica di vescovo di Alatri. Da allora l’enciclopedico domenicano si applicò con impegno alla cura delle anime. Ma non trascurò gli studi. Nel 1583, forse pensando agli anni della sua infanzia e agli insegnamenti di sua zia Teodora, scrisse una piccola storia della prospettiva. Costruì anche altri apparecchi che servivano ad effettuare complessi calcoli matematici insieme a degli anemoscopi capaci di indicare in modo esatto la direzione del vento. Nel museo archeologico di Perugia sono ancora visibili delle parti di questi preziosi strumenti. Gregorio Xiii morì. Al suo posto fu eletto Sisto V. Anche il nuovo papa ricorse a Ignazio Danti per la difficile operazione dello spostamento dell’obelisco in Piazza San Pietro. Il monumento egiziano, un enorme monolite in granito rosso, vecchio di tremila anni e alto 25 metri, fu portato a Roma su ordine dell’imperatore Caligola nel 40 D.c. Per evitare che si spezzasse, i Romani lo caricarono su una nave riempita di lenticchie. Sistemare il gigante di pietra al centro del luogo più importante della cristianità era una operazione altrettanto complicata. Ignazio guidò con maestria i lavori. Ancora oggi l’obelisco funge da meridiana della piazza e alla sua base si possono vedere i disegni degli equinozi e dei solstizi tracciati dal grande astronomo. Il “Giallo” Dell’arringatore Quel disegno dei cieli fu l’ultima opera di Ignazio, che morì a 50 anni. Era sopravvissuto a tutti i suoi familiari. Anche a Girolamo, che aveva undici anni meno di lui e che seguendo la tradizione della casa fu orafo e pittore. L’ultimogenito dei Danti rimase quasi sempre a Perugia, nella bottega rinascimentale dell’anziano padre Giulio. Dipinse la sagrestia della basilica di San Pietro e affrescò una parete del chiostro di San Domenico. Collaborò con il celebre Ignazio alla realizzazione delle meravigliose carte geografiche in Vaticano. Molte delle sue opere andarono perdute. Quelle rimaste si possono ancora ammirare nel museo della cattedrale di Perugia, nella bella chiesa di S.domenico a Gubbio, all’interno della Abbazia dei Sette Frati vicino Pietrafitta e nella collegiata di Umbertide. Tutti i figli di Giulio, insieme al capostipite Pier Vincenzo, ora riposano nella basilica perugina di San Domenico, la più grande chiesa dell’Umbria. Lì Ignazio era nato, lì fu ordinato frate e lì volle essere sepolto. Insieme a Girolamo disegnò la sua tomba e quella dei suoi congiunti: il sepolcro spicca su una colonna del tempio, a sinistra del presbisterio, sovrastato da un piccolo busto che raffigura Vincenzo, lo scultore Vincenzo. Una epigrafe latina incisa nella pietra ricorda la grandezza della inimitabile famiglia. Quasi sotto silenzio è invece passata un’altra vicenda: un “giallo” archeologico nel quale rimasero coinvolti quasi tutti i componenti della dinastia: il trasporto illegale da Perugia a Firenze, nel 1566, della preziosa statua dell’Arringatore, un bronzo etrusco ad altezza naturale trovato da un mezzadro in una vigna vicino Pila. Il contadino la vendette a Giulio Danti. Ma sparì subito dalla bottega orafa del centro di Perugia e andò ad arricchire la straordinaria collezione di capolavori di Cosimo de’ Medici. Il braccio levato della statua fu spezzato per facilitare il trasporto. L’arringatore, sistemato in una cassa, passò nottetempo la dogana di Sanguineto, vicino Tuoro sul Trasimeno, dove era segnato il confine tra lo Stato pontificio e il Granducato di Toscana. Il proprietario del terreno dove fu dissotterrato il bellissimo bronzo denunciò i Danti e il mezzadro. Il contadino fu imprigionato insieme a Giulio. L’orafo poi fu scarcerato, con gran scandalo della città, dietro 100 scudi di cauzione. Ma questa è un’altra storia.  
   
 

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