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Notiziario Marketpress di Lunedì 18 Giugno 2007
 
   
  TERAPIE FARMACOLOGICHE CHE AGISCONO INTERFERENDO SUI RECETTORI. UN’INCOGNITA A LUNGO TERMINE

 
   
  Milano, 18 giugno 2007 - La Fondazione Iret, specializzata in studi e ricerche sul cervello, ha realizzato un’indagine su questo tipo di terapie che solleva parecchi dubbi, soprattutto per quel che riguarda gli effetti a lungo termine. La medicina negli ultimi decenni si è sempre più spostata verso un approccio riduzionistico che mira a identificare i meccanismi di malattia attraverso i suoi determinanti molecolari. A questa impostazione ha fortemente contribuito il programma genoma umano con lo straordinario scenario culturale aperto dalla sua decodificazione. In questa nuova ottica si cercano di comprendere anche funzioni complesse dell’organismo e il comportamento umano. Le neuroscienze non sono estranee a questa rivoluzione. Negli ultimi decenni, la struttura stessa del cervello è stata reinterpretata in funzione delle molecole in esso rappresentate, ed in particolare in relazione alla distribuzione nelle diverse aree cerebrali dei neurotrasmettitori, le molecole responsabili della trasmissione del segnale nervoso da una cellula alla successiva. Il neurotrasmettitore viene infatti rilasciato da una cellula nervosa quando attivata, si libera nello spazio sinaptico (spazio che separa due cellule nervose), per raggiungere la cellula successiva dove si lega ad altre molecole specifiche, i recettori, secondo un meccanismo di complementarietà strutturale ben rappresentato dall’esempio della chiave (neurotrasmettitore) nella rispettiva serratura (recettore). Il quadro è naturalmente molto più complesso, a partire dal fatto che per ciascun neurotrasmettitore esistono molti, talora moltissimi recettori, capaci di “aprire porte cellulari” diverse, mediando cioè funzioni cellulari diverse. E’ così nata la neuroanatomia chimica, che ha descritto il percorso di alcune informazioni all’interno del cervello attraverso la mappatura dei neurotrasmettitori e dei rispettivi recettori. L’approccio riduzionistico a cui si accennava precedentemente, ha portato ad una grande suggestione: quella cioè di poter associare funzioni e disfunzioni del cervello ad una molecola della catena della neurotrasmissione. Così è stato ad esempio per la malattia di Parkinson, in origine interpretata come semplice difetto di dopamina; così per la demenza di Alzheimer originariamente associata solo al difetto di acetilcolina; così è stato per l’illusione di avere strumenti molecolari potenti e definitivi per il controllo del dolore, come è stato per gli oppioidi. Questa suggestione ha coinvolto anche il controllo di comportamenti estremamente complessi, quali l’assunzione di cibo, il tono dell’umore, il piacere, fino al capitolo della dipendenza (da farmaci, droghe, nicotina etc. ). Questa impostazione culturale ha prodotto uno straordinario sforzo mirato a correggere difetti attraverso molecole capaci di intervenire opportunamente nel sopraccitato meccanismo chiave/serratura. Esempi di interventi sulla “chiave” sono la terapia con levo-dopa per la malattia di Parkinson, finalizzata a ripristinare i livelli cerebrali di dopamina; gli inibitori delle esterasi dell’acetilcolina, per aumentare la disponibilità di acetilcolina e correggere i difetti di memoria nella malattia di Alzheimer. Se invece è la “serratura” il bersaglio, la possibilità di disegnare a tavolino o, meglio, a computer nuove molecole attive sui recettori fornisce possibilità straordinarie. Anni di studio, ma anche di trattamenti terapeutici basati su questi assunti, hanno però indicato che la biologia del cervello è molto più complicata, e l’approccio riduzionistico da solo non è in grado di descrivere comportamenti complessi. Uno degli aspetti di tale complessità è rappresentato dall’adattamento a cui il sistema neurotrasmettitore-recettore, e tutta la cascata di funzioni cellulari che questa interazione controlla, subisce nel corso della patologia o come adattamento fisiologico ad un’abitudine protratta nel tempo, quale l’assunzione di sostanze da abuso (farmaci, nicotina, etc. ). In particolare, i recettori modificano la loro “resa funzionale” quando il sistema è sovrastimolato, cioè vengono regolate in sequenza tutte le funzioni cellulari a valle del recettore (enzimi citoplasmatici, proteine strutturali, altri recettori, fino al controllo dell’espressione genica). Attraverso questo meccanismo si ritiene possano svilupparsi anche gli effetti collaterali da improvvisa cessazione dell’assunzione di tali sostanze, quando cioè il recettore è liberato improvvisamente del suo legante, rendendo incontrollati i percorsi molecolari prima controllati. Il “vizio del fumo” è dagli esperti considerato una delle dipendenze più tenaci, cioè più difficili da vincere. Infatti la nicotina inalata attraverso il fumo agisce sui recettori specifici e uno degli effetti conseguenti è l’attivazione del sistema dopaminergico che presiede alla sensazione di piacere e gratificazione. La zona mediale del mesencefalo (area tegmentale ventrale) contiene i neuroni che utilizzano la dopamina come neurotrasmettitore e che proiettano ad una regione specifica dei gangli della base chiamata nucleo accumbens. Il grado di soddisfazione che il fumatore prova è direttamente proporzionale ai livelli ematici e cerebrali di nicotina ottenuta dal fumo. La nicotina così assunta, arriva lentamente alla sinapsi delle zone del piacere, a concentrazioni molto basse, e questo provoca una riduzione non fisiologica della sensibilità del recettore, che il cervello cerca di compensare aumentando il numero di recettori. Un fumatore cronico si ritrova con un numero maggiore di recettori, ma meno funzionanti. Quest’area del cervello è cruciale nella percezione del piacere, e le sostanze di abuso, compresa la nicotina, ne aumentano l’attività. Questa alterazione dei recettori colinergici è stato il razionale per l’approvazione da parte della Food and Drug Administration dei prodotti che forniscono nicotina con modalità alternativa a quella ottenibile dal fumo di sigaretta (Tns: terapia nicotinico sostitutiva). L’obiettivo di questo approccio è quello di abbassare progressivamente nel tempo la sensibilità di questi recettori per ottenere la stessa piacevole sensazione riducendo i livelli di nicotina ed evitare i sintomi dell’astinenza. Questo metodo offre anche un’opportunità in più alla forza di volontà dei fumatori, che riuscendo a gestire meglio il craving situazionale, sono più stimolati a combattare l’abitudine al fumo. Tutto questo richiede tempo (circa un anno) e la contemporanea disattivazione di una serie di comportamenti collaterali che definiscono la “ritualità” del fumatore (gestualità, sensibilità delle mucose orofaringee, etc. ), anch’esse partecipi del fenomeno della dipendenza. Al contrario di quanto si potrebbe comunemente pensare, l’uso di Tns non deve sembrare una sorta di capitolazione. In effetti, la potenza dell’assuefazione alla nicotina, soprattutto nei forti fumatori, fa sì che agire con la sola “forza della volontà” sia quasi sempre un insuccesso. Infatti secondo gli studi solo il 3% dei fumatori, che si affidano solo alla forza della propria decisione, riescono a smettere. Con la Tns le possibilità di successo possono raddoppiare e dalla metanalisi dei diversi studi, emerge che l’effetto è dose dipendente, vale a dire che garantendo livelli più elevati di nicotina, e soprattutto una copertura completa nell’arco della giornata, crescono le probabilità di mantenere l’astinenza. Un altro più recente approccio alla dipendenza da nicotina è l’azione diretta su uno dei recettori nicotinici con una molecola definita “agonista parziale”. Questa molecola mira ad una regolazione più lenta e progressiva del neurone dopaminergico, per ridurre il forte desiderio e i sintomi di astinenza . I primi studi clinici sono incoraggianti, anche se va notato che mancano ancora i dati a lungo termine (ndr: trial in conclusione alla fine del 2006, dati non ancora disponibili) e quelli che deriveranno dalla pratica clinica. Solo questi daranno informazioni circa il rischio di ricaduta nella dipendenza, e di eventuali effetti collaterali, quest’ultimi sempre imprevedibili per nuove molecole che possono dimostrarsi attive anche su altri recettori, come recentemente dimostrato in pazienti che facevano uso di due diverse molecole della classe dei dopamino-agonisti: un farmaco aumentava il rischio di danno valvolare cardiaco, l’altro no. L’azione farmacologica sul recettore è certamente una via diretta per la regolazione della funzione sinaptica, ma i recettori sono molecole di straordinaria potenza biologica. Attivarli o disattivarli direttamente con un farmaco, in particolare quando il loro assetto funzionale e gli eventi intracellulari che essi mediano, è stato modificato nel tempo, può causare effetti collaterali non prevedibili, come ci insegnano ad esempio le terapie antidolorofiche con agonisti dei recettori per gli oppioidi, che giustificano gli effetti collaterali anche importanti (stipsi, depressione respiratoria, rilassamento muscolare, rallentamento ideazione, ecc) per l’elevatissima valenza etica della terapia medesima. La lunga storia della terapia del morbo di Parkinson, che ha prima individuato la chiave (dopamina), quindi la serratura (agonisti parziali dopaminergici) come bersagli dell’azione farmacologica, insegna che molto difficilmente una singola molecola è risolutiva di quadri sintomatologici complessi in tutti i pazienti. E la dipendenza da nicotina, “rinforzata” da stimoli comportamentali che definiscono la gestualità del fumatore e richiamano a situazioni ad esempio associate alla “prima volta”, deve essere considerata a tutti gli effetti un quadro sintomatologico complesso. Anche per altre situazioni complesse (ad esempio la depressione) nelle quali l’approccio molecolare ha trainato vent’anni di progresso terapeutico, la Food and Drug Administration raccomanda che la somministrazione di farmaci non sia disgiunta da un più ampio approccio al paziente ad esempio attraverso tecniche comportamentali e psicoterapiche. .  
   
 

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