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Notiziario Marketpress di Mercoledì 21 Novembre 2007
 
   
  MERCATI DEL LAVORO E FLESSISICUREZZA. È LA DIMENSIONE SOCIALE DELL’EUROPA?

 
   
  Milano, 21 novembre 2007 - È possibile coniugare la flessibilità del mercato del lavoro con la sicurezza sociale e i diritti del lavoratore? Questa sembra la sfida che il mondo del lavoro, in Europa, ha di fronte a sé. La Commissione europea, ha ricordato il direttore della Rappresentanza a Milano della Commissione Roberto Santaniello, da tempo sta elaborando a questo proposito una serie di principi guida rivolti ai Paesi Ue: il Libro verde del 2006 “Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del Xxi secolo” e la Comunicazione del giugno scorso “Verso principi comuni di flessicurezza”. Su queste basi le organizzazioni sindacali stanno discutendo e suggerendo le possibili vie per il nuovo mercato del lavoro europeo. Il convegno organizzato dalla Rappresentanza a Milano della Commissione europea, tenutosi lunedì 19 novembre al Palazzo delle Stelline di Milano, ha fatto il punto sul dibattito in corso in vista del Consiglio europeo di dicembre, indicando i possibili modelli da seguire, le condizioni poste dai sindacati e i nodi che restano da sciogliere. Il primo tra questi, hanno concordato tutti i rappresentanti sindacali presenti (Ces, Cgil, Cisl e Uil), è superare la genericità con cui vengono indicate le strade verso la “Flessicurezza”. I mercati globalizzati spingono l’Ue alla ricerca di strategie di crescita compatibili con la salvaguardia dell’occupazione, ma il termine ‘flessibilità’ nasconde alcune ambiguità: “libertà di licenziare (f. Esterna) o riforma dell’organizzazione (f. Interna)?” e inoltre, “chi paga la ‘sicurezza’, cioè ammortizzatori sociali, formazione ecc. ?” Queste domande nascono dall’esperienza del mercato italiano e dei rapporti tra politica e consenso basato sulla promessa di riduzioni fiscali. Al pubblico intervenuto numeroso e agli esponenti dei sindacati è infatti sembrato molto distante il ‘modello danese’ presentato dal prof. Henning Jørgensen dell’Università di Aalborg. Questo modello, incentrato su generose politiche di sostegno alla sicurezza sociale, finanziate da imposte sul reddito (il prelievo fiscale in Dk è pari a circa la metà del Pil), è apparso lontano non solo dalle pratiche, ma anche dalla situazione politica italiana. L’“etica protestante”, alla base del funzionamento del modello danese, non può essere immediatamente esportata negli altri paesi. Il suo successo in un paese in cui “il 78% dei cittadini dichiara che lavorerebbe anche se non avesse bisogno di soldi”, è stato da tutti riconosciuto, anche se lo stesso Jørgensen si è detto preoccupato per la continuità dell’azione virtuosa degli anni ’90, messa a rischio dalle riforme dell’attuale governo. Se il modello danese dimostra che il trade off tra occupazione e crescita senza inflazione è superabile, purché si seguano strade di negoziazione tra parti sociali, anche senza l’intervento statale (“governance senza governo”), è vero però, ha detto Walter Cerfeda della Confederazione europea dei sindacati, che le linee guida della Commissione paiono troppo sbilanciate privilegiando il lato esterno della flessibilità, che nei fatti si traduce nella precarizzazione: “In Europa sono cresciuti soprattutto i settori labour intensive, quelli in cui la competitività è data dalla pressione sul costo del lavoro, mentre i settori tecnologici stanno perdendo la sfida”. È così che crescono i contratti ‘atipici’: “140 mln di lavoratori europei non hanno contratti a tempo indeterminato”. Non bastano i principi, occorre fissare regole minime comuni a tutti i 27 membri Ue, ha ribadito Giorgio Santini (Cisl). La mancanza di unità politica rende fragile l’economia europea. Ai principi devono seguire le regole, altrimenti la flessicurezza diventa uno strumento al servizio solo delle imprese: “Occorre impedire la marginalizzazione del lavoro, ridargli centralità – negli anni ’70 parlavamo del lavoro come variabile indipendente…”. La flessicurezza, ha concluso Santini, può funzionare solo se viene garantita la sicurezza anche del rapporto di lavoro, dei diritti, e non solo del mercato; e la sicurezza sociale dev’essere garantita dalla corresponsabilità di imprese e sindacati, senza scaricarne l’onere sullo Stato. In altre parole, la flessibilità non può essere merce di scambio con i diritti del lavoro: “L’abolizione del lavoro nero, la formazione, i contratti tipici e atipici, le politiche attive e passive devono essere al centro dell’elaborazione del diritto del lavoro europeo” ha ricordato Claudio Treves della Cgil, che ha rivendicato l’azione vincente del sindacato e del governo italiano sui contenuti del Libro verde della Commissione. “Non esiste contrapposizione – ha aggiunto – tra i tutelati e gli atipici, gli insider e gli outsider, come conferma la quasi piena occupazione dell’Italia a Nord del Garigliano”. In conclusione, non è il concetto di flessicurezza in sé a preoccupare i sindacati, che anzi sono d’accordo sulla sua ineluttabilità, ma l’interpretazione a senso unico della ‘flessibilità in uscita’, con il rischio che il mercato del lavoro diventi il luogo dove alcuni soggetti, le imprese, hanno mano libera mentre altri, i lavoratori, debbono piegarsi alle variabili esogene della globalizzazione. Di tutto ciò dovrà tener conto, il 15 dicembre prossimo, il Consiglio europeo. .  
   
 

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