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Notiziario Marketpress di Lunedì 07 Gennaio 2008
 
   
  GIUSTIZIA EUROPEA: SENTENZE VARIE IN TEMA DI RIFIUTI

 
   
  Segnaliamo di seguito tre sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee pronunciate lo scorso 18 dicembre in materia di rifiuti, C-253/05 Commissione/italia, C-195/05 Commissione/italia, C-194/05 Commissione/italia, C-253/05 Commissione/italia (riutilizzazione di sostanze). Nella C 253/05 la Corte di Giustizia delle Comunità Europee prende in esame la nozione di rifiuto così come recepita dal Decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22. Il decreto italiano esclude dalla nozione di rifiuto le sostanze e gli oggetti di cui il detentore abbia l´intenzione oppure l´obbligo di disfarsi, anche se riutilizzabili e riutilizzati in un ciclo produttivo o di consumo. Secondo la Commissione, non sarebbe lecito escludere tassativamente dall’ambito di applicazione della direttiva tali sostanze. Infatti, la normativa italiana avrebbe un impatto restrittivo per quanto riguarda la nozione di rifiuto e la sua applicabilità, escludendo in particolare gran parte dei rifiuti recuperabili dall’ambito di applicazione delle disposizioni nazionali di recepimento della direttiva. La Repubblica italiana, invece, considera che un materiale riutilizzato non costituisca un rifiuto anche quando il suo detentore intende destinarlo ad altri processi produttivi. Infatti, la giurisprudenza della Corte avrebbe esteso l’esclusione della nozione di rifiuti, nel rispetto di alcune condizioni, ai materiali che vengano effettivamente riutilizzati anche da parte di terzi. La Corte stabilisce che la nozione di rifiuto non esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica (sentenza 25 giugno 1997, cause riunite C‑304/94, C‑330/94, C‑342/94 e C‑224/95). Pertanto, oltre al criterio relativo alla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce un criterio utile ai fini di valutare se tale sostanza sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva. Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la sostanza deve essere considerata un autentico prodotto. Tuttavia, se per tale riutilizzo occorrono operazioni di deposito che possono avere una certa durata e quindi rappresentare un onere per il detentore nonché essere potenzialmente fonte di quei danni per l’ambiente (che la direttiva mira specificamente a limitare), il bene esso non può essere considerato, in linea di principio, come rifiuto. Pertanto la Corte stabilisce che l´Italia è venuta meno agli obblighi imposti dalla direttiva sui rifiuti e la condanna alle spese. Per quanto riguarda la causa C-195/05 Commissione/italia (scarti alimentari) la Commissione ha proposto ricorso davanti alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, ritenendo che anche gli scarti alimentari provenienti dall´industria agroalimentare e destinati alla produzione dei rifiuti debbano rientrare nella nozione di rifiuti. Secondo la Commissione sarebbe necessario valutare il grado di probabilità di riutilizzo di un materiale e, soprattutto, verificare che quest’ultimo sia riutilizzato nello stesso processo di produzione dal quale deriva. Contrariamente alla tesi propugnata dalla Repubblica italiana, non si può parlare di unico processo di produzione quando gli scarti alimentari sono effettivamente destinati all’utilizzo come mangimi. Il semplice fatto che tali scarti alimentari siano trasferiti dagli operatori che li producono a chi li utilizzerà comporta infatti una serie di operazioni (magazzinaggio, trasformazione e trasporto) che la direttiva mira proprio a controllare. Secondo la Repubblica italiana, invece, tali sostanze non rientrerebbero nell´ambito di applicazione della normativa sui rifiuti, in quanto sarebbero destinate a tornare nel ciclo produttivo. La Corte di Giustizia stabilisce che se per il riutilizzo delle sostanze oggetto della causa sono necessarie operazioni di deposito che possono avere una certa durata, e quindi rappresentare un onere per il detentore ed essere potenzialmente fonte di quel danno per l’ambiente che la direttiva mira specificamente a limitare, esse devono essere considerate, in via di principio, come rifiuto. La Corte pertanto accoglie il ricorso della Commissione e condanna la Repubblica Italiana alle spese. Nella causa C-194/05 Commissione/italia (terre e rocce da scavo) la Commissione col ricorso alla Corte di Giustizia ha chiesto che le disposizioni italiane in materia ambientale (articolo 10 della legge 23 marzo 2001 n. 93, recante disposizioni in campo ambientale) e di infrastrutture ed insediamenti produttivi (art. 1 Legge 21 dicembre 2001 n. 443, Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive) fossero dichiarate incompatibili con la direttiva comunitaria sui rifiuti. In particolare, nella parte in cui la normativa italiana esclude dall’ambito di applicazione della disciplina nazionale sui rifiuti le terre e le rocce da scavo destinate all’effettivo riutilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di materiali provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti. La normativa comunitaria dispone che debba essere considerato rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi ed esclude da tale campo di applicazione i rifiuti risultanti dalla prospezione, dall’estrazione, dal trattamento, dall’ammasso di risorse minerali o dallo sfruttamento delle cave. La Commissione sostiene che la normativa italiana sui rifiuti esclude, a priori ed in via generale, le terre e rocce da scavo destinate a determinate operazioni di riutilizzo dall’ambito di applicazione della normativa nazionale sui rifiuti, con il conseguente effetto dell’inapplicabilità a tali materiali delle disposizioni della direttiva relative alla gestione dei rifiuti. Secondo la Repubblica italiana, la nozione comunitaria di rifiuto è connotata da ragionevoli eccezioni nel caso di sottoprodotti di cui l’impresa non intenda «disfarsi» in quanto rifiuti. La Corte di Giustizia, stabilisce che oltre al criterio relativo alla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce un criterio utile ai fini di valutare se tale sostanza sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva. Tuttavia, se per tale riutilizzo occorrono operazioni di deposito che possono avere una certa durata, e quindi rappresentare un onere per il detentore nonché essere potenzialmente fonte di quei danni per l’ambiente che la direttiva mira specificamente a limitare, esso non può essere definito certo ed è prevedibile solo a più o meno lungo termine, cosicché la sostanza di cui trattasi deve essere considerata, in linea di principio, come rifiuto. Pertanto la Corte di Giustizia stabilisce che la Repubblica italiana, nella misura in cui le disposizioni controverse hanno escluso dall’ambito di applicazione della disciplina nazionale sui rifiuti le terre e le rocce da scavo destinate all’effettivo riutilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di quelli provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti, è venuta meno, in relazione ai summenzionati materiali, agli obblighi che le incombono in forza della direttiva .  
   
 

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