Pubblicità | ARCHIVIO | FRASI IMPORTANTI | PICCOLO VOCABOLARIO
 













MARKETPRESS
  Notiziario
  Archivio
  Archivio Storico
  Visite a Marketpress
  Frasi importanti
  Piccolo vocabolario
  Programmi sul web








  LOGIN


Username
 
Password
 
     
   


 
Notiziario Marketpress di Lunedì 24 Novembre 2008
 
   
  SEBASTIANO LO MONACO IN OTELLO SUL PALCOSCENICO DEL TEATRO NUOVO DI MILANO

 
   
  Milano, 24 novembre 2008 - La tragedia di Otello, il Moro di Venezia La trama è celebre, ma ogni nuova lettura, ogni ipotesi di realizzazione scenica, ne mette in rilievo la complessità. La storia di amore e gelosia, per spostamenti progressivi, raggiunge ineluttabilmente l’acme orrendo dell’omicidio e della strage. Ma la tessitura della tragedia non è lineare. Contempla percorsi accidentali, snodi impensati: basta un salto di stile nel linguaggio, la reazione imprevedibile di un personaggio, una osservazione innocua, un gesto immotivato, per aprirci le porte all’insondabile, in una spirale di emozioni che provocano turbamento e smarrimento. Il dubbio e l’ incertezza che attanagliano Otello sono sottotraccia la tensione costante del suo agire. La sua leggenda eroica si stempera e si degrada lentamente nella materialità di un linguaggio frantumato, che appare perturbante visto in una proiezione distruttiva delle illusioni individuali. Il sentimento incontrollato si proietta in un destino di distruzione. Proprio il Moro che conosceva la magia della parola nell’ampio spettro dell’epico e dell’immaginario cede al dubbio che frantuma ogni certezza ed è indotto a assumere su di sé la condanna della diversità, e a scandire nel proprio subconscio il crescendo stesso della propria angoscia. E il degrado si propaga su quanti entrano nel suo cerchio di azione. Desdemona con la sua marmorea bellezza, “più bianca della neve e liscia come alabastro sepolcrale”, non troverà alcun appiglio in un mondo che appare scardinato dal proprio asse. L’amore non è estasi e incanto ma passione distruttiva, ossessione, follia. L’ intreccio degli inganni ordito da Jago con un crescendo implacabile, pur nel ritmo della improvvisazione, è condotto con la perfidia di un giuoco intellettuale, ma emana nel suo esplicarsi la forza dirompente dell’odio che condurrà alla definitiva afasia. I turbamenti sentimentali, la tortura dell’amore tradito, non sono disgiunti da una marcata morbosità, così come latenti pulsioni aberranti creano un clima erotico che si espande su tutti come una rete profumata, ma esiziale. Il mondo elisabettiano, come il mondo di oggi, è un mondo disgregato, dall’equilibrio precario. La storia come la natura è crudele: muoiono gli eroi come i folli, gli innocenti come i colpevoli. L’immaginazione con la sua forza corrosiva quando segue sentieri tortuosi, si ritorce su sé stessa. La realtà immaginata si riflette come in uno specchio deformante e si deforma definitivamente. Rimane il silenzio che assorbe e spegne ogni grido sotto cieli corruschi, ma indifferenti. Roberto Guicciardini San Gimignano, giugno 2007. Ragionevoli dubbi e vuoti dell’anima Quando comincia la tragedia di Otello? Quando viene compiuto quel gesto da cui non è più possibile tornare indietro per precipitare nel vortice di una inarrestabile fine? Nella tragedie “classiche” c’è sempre un punto di non ritorno oltre il quale ogni cosa si illumina, trova la sua ragione e il suo certo, inevitabile destino. Questa immagine, o verso poetico, o azione drammatica – nell’Edipo Re, in Medea, nel Filottete, in Prometeo, nell’Antigone -, la incontriamo all’inizio della storia e ci starà sempre vicino, come resterà al fianco del protagonista: sarà sempre presente ai nostri occhi, come a quelli dell’eroe che la vive sulla scena. La “teatralità” nella tragedia greca è tutta in questa capacità divorante di fare luce sul mistero, avviare processi di responsabilità e conoscenza sviluppati da ciascun personaggio (Coro compreso) che, una volta terminati, portano, per tragico paradosso, alla disfatta dell’eroe, al suo completo annientamento. Nell’otello di Shakespeare, questo punto (o atto di decisione) lo troviamo solo alla fine, nella seconda scena del quinto atto, quando Otello decide di uccidere Desdemona e comincia il suo famoso monologo “Questa è la causa; questa è, anima mia, la causa…. ”), che, non a caso, Carmelo Bene mette all’inizio del suo spettacolo. Cioè, la tragedia, nella sua forma classica è contenuta in quest’ultima, violentissima e straziante scena finale, con cui si conclude, allo stesso tempo, una delle più lunghe tragedie shakespeariane. Cosa è accaduto in quei primi interminabili quattro atti e la prima scena del quinto? Questo è il vero problema che qualsiasi allestimento dell’Otello deve porsi per dirsi “contemporaneo”. Qualcuno ha voluto evidenziare come, dal punto di vista della struttura, il testo si compone di un primo atto situato a Venezia che sembra fungere da Prologo (fra l’altro, più vicino al genere comico che a quello drammatico), e degli altri quattro (ambientati interamente a Cipro) nei quali si sviluppa la tragedia, che, come abbiamo visto, è sempre ritardata, rinviata ad un momento successivo (“ a tra poco”, per dirla con le stesse parole di Otello). Cioè a dire, ciò che non tiene non è l’unicità o la linearità dell’azione – che ricordiamo, rispetto alla classica drammaturgia shakespeariana, non ha intrecci secondari, né sub-plot da incrociare alla storia principale) – ma proprio quella forma della tragedia antica che non riesce più a racchiudere nuovi, ribollenti contenuti legati al rapporto fra realtà scenica e immaginario dei personaggi, alla molteplicità dei punti di vista fra i personaggi che agiscono in scena, e fra questi e il pubblico, fra il “sapere” del pubblico e quello che gli uni sanno degli altri in scena: una modalità di scrittura teatrale che appartiene al teatro comico, e che qui, per la prima volta viene applicata al dramma. Poi certamente, l’alterno statuto di tutti i personaggi che dicono una cosa e ne pensano un’altra (e viceversa), che come afferma Iago (ma in misura più o meno maggiore riguarda anche Otello, Desdemona, Cassio, perfino Brabanzio) ”non sono quello che sono”: battuta folgorante e “capitale” che ci fa piombare d’un colpo nelle vaste temperie teatrali del primo Novecento, e alla dissociazione e frantumazione dell’Io operata da Pirandello. E questa credo sia una delle ragioni che ha portato Sebastiano Lo Monaco ad affrontare, per la prima volta nella sua lunga carriera d’attore, un testo di Shakespeare: cercare, così, di verificare in scena, in una prospettiva storica dichiaratamente rovesciata, quanto di saggezza e follia, sentimento e ragione, inganno e pregiudizio, illusione e realtà, finzione e verità (gli irrinunciabili dualismi di cui è fatta la materia teatrale) il palcoscenico della vita ha rubato a quello teatrale,e quanto questo si nutre, per esistere, di quella e degli individui che in maniera degna o indegna, dolorosamente, saggiamente la rappresentano. Ciò che appare, e ciò che non si vede inestricabilmente uniti in una sola perturbante immagine (della realtà, o del desiderio poco importa) come quella iniziale descritta da Jago (“Proprio in questo momento un nero vecchio caprone vi sta montando la pecora bianca”. ), destinata a inchiodarsi nella mente di ciascuno, dentro e fuori la scena, per tutta la durata della rappresentazione. I racconti di Otello (“Io raccontavo, dal tempo dell’infanzia, fino al giorno stesso in cui stavo narrando”. ) non hanno nulla di “immemoriale”, non sono ricordo: al contrario, hanno la materialità e concretezza della realtà fisica, come di un perenne presente che viene a sovrapporsi, quasi a coincidere, con lo stesso movimento tragico del personaggio, che, non a caso, prima di uccidersi, chiude la sua battuta, alla fine del quinto atto, con l’ennesimo racconto: (“E dite inoltre come, in Aleppo, un giorno…”). Ora, la storia di Otello potrà continuare ad essere narrata: da altri personaggi, con altre vesti, da nuovi attori, perché è immortale riesce ad essere tutt’uno con la natura degli uomini e del mondo. Prima, nelle due notti di Cipro, quando l’azione prendeva il posto della narrazione era un continuo dibattere e interrogarsi sul fare, su come agire - con quel mirabile esempio di “monologo interiore” (J. Kott) scandito per la prima volta in scena (“A letto con lei! Schifo! Fazzoletto, confessione, fazzoletto (…)Tremo. ”) - : con quei ragionevoli dubbi che facevano, come da specchio, ai vuoti dell’anima. Giuseppe Liotta www. Teatronuovo. It – e-mail: info@teatronuovo. It .  
   
 

<<BACK