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Notiziario Marketpress di Lunedì 24 Novembre 2008
 
   
  YOLANDE MUKAGASANA L’AUTRICE DEL LIBRO “LE FERITE DEL SILENZIO”, INSIGNITA DEL PREMIO ALEXANDER LANGER HA UN SOGNO: RIDARE SPERANZA AI BAMBINI RUANDESI VITTIME DEL GENOCIDIO E DELL’INDIFFERENZA

 
   
   Trento, 24 novembre 2008 - – “Il popolo trentino è felice di averla ospite – ha detto il presidente Lorenzo Dellai, accogliendo il 21 novembre in sala stampa la ruandese di etnia tutsi Yolande Mukagasana, autrice del volume “Le ferite del silenzio”, – perché grazie alla sua testimonianza potremo avere maggiore consapevolezza di ciò che è avvenuto nella sua terra e di quel che sta avvenendo oggi in Africa. Il Trentino è una terra che vive la solidarietà come valore fondante e centrale: le saremo quindi vicini nei progetti che la vedranno impegnata a riportare istruzione e formazione, speranza e progresso nella sua terra martoriata”. Yolande Mukagasana, che è giunta a Trento accompagnata da Lanfranco Digenio, curatore del libro, e dall’assessore altoatesino Francesco Comina, che è anche fondatore del Centro per la Pace di Bolzano, è stata insignita nel 2004 del Premio Alexander Langer e ha di recente vinto un significativo premio conferitole dall’Unesco. “L’africa è come un grande prato nel quale si battono numerosi elefanti: alla fine, però, chi soffre per tutti questi duelli è soltanto l’erba!” ha detto Yolande Mukagasana, rispondendo all’indirizzo di benvenuto rivoltole dal presidente del Trentino. “Devo però dire che, se i guai africani sono per la gran parte conseguenza delle lotte politiche ed economiche dei grandi e dei potenti della Terra, le posso assicurare che i popoli occidentali sono dalla nostra parte”. Un milione di morti in pochi, pochissimi mesi: questa la tragica realtà del genocidio perpetrato nel 1994 dall’etnia ruandese Hutu contro l’etnia Tutsi. “Un genocidio passato sotto silenzio – ha detto la “tutsi” Mukagasana, – se non addirittura sfalsato nelle sue verità più profonde. Pensate che per giustificare o per diminuire le colpe delle bande assassine degli Hutu, in occidente è perfino girata la voce di un secondo genocidio, in effetti mai perpetrato, con cui i Tutsi si sarebbero vendicati dei torti subiti! In realtà un tempo Hutu e Tutsi andavano d’accordo e, con la terza etnia Twa, erano come tre fratelli che vivevano nella pace e nella condivisione. Sono stati i coloni occidentali, quelli belgi nello specifico, ad alimentare l’odio etnico e a nutrire poi di armi il genocidio vero e proprio. Ma se vi hanno raccontato che tutti gli Hutu erano cattivi, be’, hanno sbagliato anche in questo: io sono stata salvata proprio da una donna Hutu, che mi ha nascosto per alcuni mesi impedendo che qualcuno mi potesse far del male. Ma ho anche negli occhi la terribile immagine di un fotografo occidentale che, per scattare la ‘sua’ bella foto di guerra, era seduto sul cadavere di un bambino!”. Politici occidentali, mass media e mercanti di armi nell’occhio del ciclone, quindi. Riparata in Europa, a Bruxelles, Yolande, che di professione è infermiera, è voluta rientrare in patria per andare a conoscere e a rivedere i volti delle vittime, ma anche quelli dei carnefici. “È nato così il libro ‘Le ferite del silenzio” – ci ha detto Mukagasana: – ne è nata una galleria di voci, di testimonianze, di occhi tristi e di ricordi. Ho parlato con i carnefici di un tempo, che all’epoca del genocidio erano magari solo bambini e che, per il solo fatto di avere un padre hutu, sono stati costretti ad uccidere i familiari tutsi! Mi porto nel cuore la testimonianza di Evaristo, figlio di padre hutu e di madre tutsi, assassino chissà quante volte e che ora, in prigione, non piange più, non ne ha più la forza. Ho fissi negli occhi i volti dei bambini nati dagli stupri, che non avranno futuro e alternative se qualcuno non penserà anche a loro; ho parlato con una madre hutu che ha ucciso i suoi figli perché avevano un padre tutsi, mentre molti tutsi si sono fatti passare per hutu per aver salva la vita e hanno imboccato quindi la strada che li ha portati ad assassinare gente della loro etnia. ” E il dramma continua ancora oggi. “Il genocidio ruandese – ha detto Yolande con gli occhi lucidi di commozione, – ha passato la frontiera e s’è allargato al Congo. L’africa è un continente troppo ricco, per non far gola alle grandi potenze. Ai neocolonialisti cinesi, ma anche ai governanti belgi, francesi o statunitensi. Io però conto sui popoli, sulla gente semplice che mi ascolta e mi capisce, sulle province italiane come quella di Pistoia, di Bolzano e forse fra un po’ anche quella di Trento, che mi sostengono e mi aiutano a realizzare il mio sogno”. Quale sogno? “Una scuola per 350 allievi, che offra loro la possibilità di apprendere una professione, di riappropriarsi della loro cultura ruandese, ma anche che trasferisca su di loro quei valori profondi della condivisione, della solidarietà, dell’accettazione. Sarà una scuola che ospiterà i miei ventuno figli, tutti orfani che ho adottato per dar loro una madre e per molti altri ragazzi che troveranno un tetto sotto cui mangiare, dormire e diventare adulti. Una scuola che sarà anche dispensario medico: una goccia in un mare africano di desolazione e di abbandono. ” Servono due milioni di euro, per concretizzare questo sogno, e pertanto Yolande deve posticipare il tanto agognato rientro in patria: deve girare per l’Europa e anche fuori dell’Europa per parlare di un genocidio “fantasma”, ma anche per trasmettere l’incrollabile speranza che la fa ancor oggi sorridere e guardare al futuro con occhi sereni. Scheda / Yolande Mukagasana, La Biografia - Yolande Mukagasana è nata a Butare da una famiglia tutsi. All´età di 5 anni viene ferita nel corso della rivoluzione hutu. Diplomatasi nel 1972, solo nel 1988 le è riconosciuto ufficialmente il titolo di infermiera anestesista, e scopre che anche in questo campo esistono quote hutu e quote tutsi. Nel 1992 apre a Kigali un piccolo ambulatorio privato, che la espone a invidie e critiche che esploderanno durante il genocidio del 1994. Ora vive a Bruxelles. La Sua Storia - Christian aveva 15 anni. Sandrine, 14. Nadine, 13. Il machete non ha avuto pietà delle loro vite. Joseph, il loro papà, anche lui non ce l’ha fatta. Così i loro nonni, i loro zii. Una casa devastata e rasa al suolo. Ogni ricordo di vita felice distrutto. Questo è stato per Yolande Mukagasana, madre, moglie, figlia e sorella, il genocidio del Rwanda, il 1994. Una vita annientata, ma non distrutta. «La morte non mi ha voluta», ripete spesso, citando il titolo del suo libro, un bel sorriso ormai sereno sul volto, quando parla di quei giorni, in occasione della visita alla città di Pistoia, dal 21 al 24 aprile scorsi. «Anche in quel caso, puoi scegliere se morire o vivere. Io ho scelto la seconda strada». Di quel genocidio, che ha lasciato a terra più di un milione di morti in tre mesi, dall’aprile al luglio 1994, se ne è saputo poco. «I media – racconta Yolande – non ne parlavano, e anche quando lo facevano davano informazioni sbagliate o parziali, a protezione di chi il genocidio lo comandava. Il resto del mondo, la chiesa stessa non ha mosso un passo per aiutarci». Il Rwanda, piccolo paese del centro Africa, incastonato tra i più tragicamente noti Congo, Burundi, Uganda ha conosciuto la divisione etnica solo attraverso il colonialismo europeo. Le tre etnie, Hutu, Tutsi e Twa non erano altro, nella leggenda ruandese, che tre fratelli che convivevano pacificamente insieme. Il colonialismo ha volutamente creato delle divisioni, difendendo gli Hutu e palesando, attraverso un vero e proprio manifesto della razza, la malignità dell’etnia Tutsi. «A scuola eravamo due bambine tutsi – racconta Yolande - e ci usavano per mostrare le differenze fisiche con il resto dei nostri compagni. Era naturale odiarci. Il genocidio è iniziato prima di tutto con la nostra educazione». E così nel 1994, in 100 giorni, una furia omicida devasta il paese. Un milione di persone, o come dice Yolande: «Una vita per un milione di volte», senza distinzione, vengono uccisi da amici e conoscenti trasformatisi in carnefici senza pietà, a colpi di machete, colpevoli solo di essere tutsi. Così Christian, Sandrine, Nadine, Joseph. Yolande si salva, per un assurdo scherzo del destino, nascosta per tre mesi in casa di una donna Hutu, indossando gli abiti tolti a un cadavere. Tra le mani, la sua vita felice era scivolata via come sabbia. «Ho capito il valore della vita solo conoscendo la morte. Da allora, una spinta forte dentro di me mi diceva di rendermi testimone di ciò che è accaduto, messaggera di vita soprattutto tra i giovani». Yolande è oggi madre di 21 orfani, adottati in seguito a quel genocidio, è autrice di alcuni testi che raccontano della sua vicenda ma anche di quella di chi è scampato, di chi ha ucciso, in un toccante faccia a faccia, e, a questo proposito, Yolande sottolinea: «Intervistando i carnefici per il mio libro, mi stupisco di come essi siano anzitutto vittime del loro stesso odio»; quando le chiedo dove abita lei mi risponde: «Dico che abito a Bruxelles, ma giro talmente tanto che mi sento cittadina del mondo. Adesso però voglio tornare a casa, in Rwanda, per i miei bambini e perché ancora oggi è necessario lavorare con i ragazzi per costruire un futuro senza odio, non ancora debellato». Le chiedo se non ha paura di tornare là dove gli assassini della sua famiglia girano liberi per strada. «Perché dovrei? Anche in Europa gli autori del genocidio girano tranquilli. E se posso morire per dare un segno di pace, ben venga. Mi accorgo che non può esserci perdono senza giustizia, né giustizia senza umanità». «Non provo più odio per chi ha ucciso la mia famiglia, voglio portare la vita a chi mi ascolta e chiedo di fare altrettanto ogni giorno perché solo così si rende davvero giustizia a chi è morto senza alcuna colpa». A chi le chiede una dedica sul suo libro, Le ferite del silenzio, dice: «In Rwanda non esiste una giornata senza sole, forse è per questo che ci insegnano a mostrare il sorriso anche quando vorremo gridare di dolore». E poi scrive con una bella grafia: «Lasciate che l’uccello del buonumore canti sempre nelle vostre vite». .  
   
 

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