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Notiziario Marketpress di
Mercoledì 18 Febbraio 2009 |
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CORDATE ITALIANE CENTOCINQUANTA ANNI FA, LA PARTITA SI GIOCAVA NELLE FERROVIE
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Milano, 18 febbraio 2009 - All’indomani dell’unificazione l’Italia si presentava come un paese periferico e marginale, ma ricco di potenzialità. La classe dirigente avvertiva la necessità di rafforzare il giovane stato ed era evidente che tali propositi potevano trovare attuazione solo sulla base di una modernizzazione industriale. Il primo settore su cui concentrare gli sforzi era quello delle ferrovie, che presentava una situazione drammatica. I chilometri di strade ferrate in esercizio erano poco più di 1. 800, di cui più di due terzi concentrati in Piemonte, Lombardia e Veneto: un’inezia se paragonati agli altri paesi europei. Il collegamento col cuore dell’Europa attraverso la costruzione di trafori e ferrovie era stato una delle priorità delle politiche cavouriane prima del 1860, e la medesima strategia era necessaria per una migliore integrazione delle regioni centro-meridionali. Facendo leva sul meccanismo delle concessioni, il governo contava di raggiungere in tempi brevi l’obbiettivo di ampliare la rete infrastrutturale. A dominare il settore sino al 1862 non erano certo capitali italiani. I Rothschild avevano praticamente acquisito una posizione di monopolio nella penisola, controllando sia la rete dell’ex Lombardo-veneto, sia quelle, ben più ridotte, dello Stato della Chiesa e del Regno delle Due Sicilie. E furono ancora i Rothschild, nel momento in cui si volle procedere all’ampliamento della rete con la costruzione della linea tra Ancona e Brindisi e il collegamento Foggia-napoli, a candidarsi. La posizione del governo non era semplice. Da un lato mancavano altri candidati all’impresa, dall’altro accettare l’offerta dei Rothschild significava mettere nelle mani del capitale estero uno dei settori strategici del paese, un’eventualità che non doveva apparire troppo rosea a una classe politica che ancora stava assaporando la realizzazione del sogno risorgimentale. Fu in questo clima che un imprenditore livornese prestato alla politica, Pietro Bastogi, che vantava un curriculum parlamentare di tutto rispetto prima nel Granducato di Toscana poi nel giovanissimo parlamento italiano, avanzò un’offerta che difficilmente un governo “nazionalista” avrebbe potuto rifiutare. Al ministro dei lavori pubblici giunse una lettera in cui Bastogi sosteneva che un gruppo di capitalisti italiani, insomma una vera e propria cordata, era pronto a mettere a disposizione un capitale di cento milioni per una società che assumesse l’onere di costruire e gestire le ferrovie nelle regioni centro-meridionali. Il parlamento nominò una commissione che mise da parte la proposta dei Rothschild e approvò la concessione alla Società per le strade ferrate meridionali la quale onorò con estrema efficienza i propri impegni, completando in tre anni sia la Ancona-brindisi che la Foggia-napoli. Si trattò di un grande successo imprenditoriale e politico, che tuttavia nascondeva qualche pecca che una commissione appositamente costituita presto evidenziò. Veniale era il fatto che alcuni azionisti agissero non con capitale proprio, ma facessero da prestanome per un gruppo bancario francese, quello dei fratelli Pereire, in feroce concorrenza con i Rothschild. Molto più rilevante era il fatto che uno dei membri della commissione parlamentare che aveva cassato la proposta dei banchieri austro-tedeschi, Susani, aveva ricevuto da Bastogi oltre un milione di lire per il servizio reso. Quest’ultimo si era inoltre impegnato con gli altri soci a realizzare i lavori per un importo di 210 mila lire al chilometro, per poi subappaltarli, lucrando sulla differenza quasi 10 milioni. Fu uno scandalo enorme, che costò al parlamentare l’abbandono per qualche anno della vita politica. . |
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