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Notiziario Marketpress di Giovedì 21 Maggio 2009
 
   
  L´EUROPA SARÀ ALL´ALTEZZA DELLE PROPRIE RESPONSABILITÀ IN UN MONDO GLOBALIZZATO? CONFERENZA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA GIORGIO NAPOLITANO ALL´ISTITUTO INTERNAZIONALE PER GLI STUDI STRATEGICI

 
   
   Londra, 21 maggio 2009 - Caro Prof. Howard, innanzitutto mi consenta di ringraziarla per la gentile presentazione e mi consenta di ringraziare l’Iiss per l’invito rivoltomi, in qualità di Presidente della Repubblica Italiana, ad unirmi all’ormai lunga lista di statisti, a cominciare dal mio amico Henry Kissinger, cui è stato chiesto di tenere una conferenza Alastair Buchan. Ebbene, nel pensare ad un titolo possibile per il mio intervento, Sir Michael, mi sono reso conto che la notevole conferenza da Lei tenuta lo scorso anno -- “Siamo “in guerra”?” -- si chiudeva con un punto interrogativo e, a quel punto, mi sono ricordato che il titolo della mia ultima conferenza in Gran Bretagna, tenuta presso la London School of Economics nell’ottobre 2006, terminava anch’esso con un punto interrogativo. Il titolo era: “Esiste un futuro per l’integrazione europea?”. Ciò mi ha spinto nuovamente a ricorrere a un titolo che si chiude con un punto interrogativo. Dopo tutto, quando si riflette sull’attuale condizione del mondo, la nostra mente è piena di domande rimaste senza risposta. Per cui ho elaborato un titolo ed una domanda che sono oggi al primo posto nella mia mente e che probabilmente lo sono anche nella vostra: “L’europa sarà all’altezza delle proprie responsabilità in un mondo globalizzato?” A quel punto mi sono ricordato delle parole pronunciate molto tempo fa da un uomo che si può affermare essere stato il più importante statista europeo del secolo scorso: Winston Churchill. Vorrei richiamarle alla memoria di coloro che sono troppo giovani per ricordarle. Parlando all’Albert Hall il 14 maggio del 1947, in uno dei discorsi memorabili che hanno contribuito a gettare le basi di un’Europa unita dopo gli orrori della Ii Guerra Mondiale, disse: “Speriamo di giungere nuovamente ad un’Europa in cui gli uomini siano orgogliosi di affermare: ‘Sono europeo’, così come una volta erano soliti dire : ‘Civis Romanus sum’”. E mi chiedo: riusciremo ad essere orgogliosi di essere europei così come lui sognava? E’ vero, siamo riusciti a creare in maniera pacifica un’Unione Europea democratica che in pratica copre il nostro intero continente ma, al contempo, la scena politica ed economica sulla quale ci muoviamo si è ampliata al punto da comprendere tutto il mondo. Il nostro è un mondo in cui il centro di gravità delle relazioni politiche ed economiche si è venuto spostando dall’Europa. Il peso demografico ed economico relativo del nostro continente si sta indubbiamente riducendo. Dovremmo forse trarne la conclusione che il ruolo dell’Europa nel mondo è destinato a divenire marginale? No, se pensiamo a quel che rappresenta il suo bagaglio di esperienze storiche, di prove creative sul piano politico e culturale, in termini di ricerca scientifica, di capitale umano e di solidarietà sociale. E’ un bagaglio in forza del quale l’Europa può dare un decisivo contributo a quel processo di ripensamento e di ridefinizione dello sviluppo e dell’ordine mondiale, che la crisi attuale, nella sua profondità e problematicità, indubbiamente sollecita. No. Il ruolo dell’Europa non è fatalmente destinata ad divenire marginale se sapremo “essere all’altezza delle nostre responsabilità in un mondo globalizzato”. Questo non è il mondo che si era immaginato in chiavi opposte all’indomani delle rivoluzioni del 1989 nell’Europa centrale ed orientale che – a partire dalla caduta del Muro di Berlino e, ancor prima, dal crollo del regime comunista in Polonia – segnarono un fondamentale spartiacque storico. Ci fu chi immaginò un mondo nel quale allo scontro tra ideologie in conflitto stesse per succedere uno “scontro tra civiltà”. Ci fu chi immaginò un mondo nel quale stesse per compiersi l’avvento, ormai senza alternative, del modello di democrazia liberale e con esso “la Fine della Storia”. Ci fu chi immaginò più semplicemente un “mondo fuori controllo” per effetto della caduta, insieme con l’impero sovietico, dell’ordine bipolare presidiato dalle due superpotenze. Il mondo globale quale si è venuto delineando specie nel corso dell’ultimo decennio, non coincide con nessuna di quelle previsioni : ma ne rispecchia in parte le tendenze, i rischi, le incognite. Assicurare un movimento reale e costante verso una comunità mondiale di democrazie pacifiche, in amicizia tra loro, non è compito facile. Né è facile per l’Europa svolgere un ruolo guida in un movimento di questo tipo. Le nostre non sono scelte semplici: basta considerare alcuni dei dilemmi dinanzi a cui ci siamo trovati in questi anni e ancora ci troveremo. Nel ripensare all’anno trascorso mi sono reso conto che, nel corso della storia del mondo, raramente ci sono stati 12 mesi così pieni di eventi fatali e di così tante e difficili sfide ma anche, forse, pieni di così tante opportunità per tutti i paesi. Innanzitutto, stiamo vivendo quella che è probabilmente la peggiore crisi economica e finanziaria dal 1929, una crisi che colpisce tutti i continenti e pone una sfida a tutti i governi e le istituzioni internazionali (per non parlare dei pericoli di un fuorviante protezionismo, di instabilità politica e forse anche di conflitti). In secondo luogo, si è verificata in Georgia una guerra che avrebbe potuto avere conseguenze disastrose per la pace nel nostro continente. Al di là delle responsabilità per lo scoppio di quella crisi, la successiva invasione e occupazione dei territori georgiani da parte delle forze armate russe è stata ampiamente condannata. Le iniziative assunte da parte dell’Unione Europea, all’epoca sotto la vigorosa guida del Presidente francese Sarkozy, sono state immediate e efficaci, portando al ritiro delle forze russe dalla Georgia, se non da quelle regioni che avevano richiesto l’indipendenza. Tuttavia, ne è seguita una grave crisi nelle relazioni politiche tra il governo russo e le istituzioni europee ed atlantiche. Si è perfino parlato di una “nuova Guerra Fredda”. Peraltro, si è gradualmente evitato questo pericolo e le relazioni con Mosca sono lentamente divenute più amichevoli. Tuttavia, la decisione dell’Amministrazione Bush, con l’appoggio dei governi polacco e ceco, di creare delle basi per la difesa missilistica in questi due paesi al fine di contrastare il crescente potenziale nucleare dell’Iran e le avventate minacce da parte della Russia di rispondere a queste iniziative con pericolose contromisure militari, hanno contribuito all’emergere di nuove tensioni in quelli che una volta erano noti come “rapporti Est-ovest”. Ma un terzo importante evento, verificatosi negli ultimi 12 mesi, è stato senza dubbio il nuovo corso politico degli Stati Uniti. Oggi siamo tutti ben consapevoli del fatto che le elezioni presidenziali americane e le risolute e innovative iniziative in politica estera assunte dall’Amministrazione Obama sembrano aprire nuove prospettive . La missione in Europa del Presidente Obama, che ha riscosso successo e ampio plauso, ed il suo incontro con il Presidente Medvedev, hanno portato le due “Superpotenze” nucleari (ritengo che questa definizione sia ancora giusta) a concordare l’avvio di negoziati per “un nuovo trattato con la Russia per la riduzione delle armi strategiche” (cito dal discorso del Presidente americano del 5 aprile a Praga) con l’obiettivo di concludere “un nuovo accordo entro la fine di quest’anno che sia giuridicamente vincolante”. Circa l’impegno dell’America rispetto ai sistemi di difesa missilistica, il Presidente Obama ha affermato, come sicuramente ricorderete, che “fintanto che continuerà a persistere la minaccia da parte dell’Iran” l’America intende “procedere con un sistema di difesa missilistica che sia efficace in termini di costi e sicuro”. Allo stesso tempo questo verrà fatto, come chiarito dal Vice Presidente Biden nel discorso tenuto a Monaco il 7 febbraio, in consultazione con “voi, alleati Nato, e con la Russia”. Questi nuovi sviluppi nei rapporti dell’Europa e dell’America con la Russia sono accolti con favore e sono stati interpretati come l’inizio di una nuova fase di negoziati strategici, e non solo nel campo degli armamenti; sebbene possano riapparire alcune tensioni che è necessario tenere sotto controllo. Ho affermato prima che gli sviluppi internazionali hanno presentato non solo nuove sfide e minacce ma anche nuove opportunità che certamente riguardano anche l’Unione Europea. Tuttavia, e cito nuovamente un passaggio dalla Conferenza di Sir Michael Howard, gli eventi dell’11 settembre ed i successivi attacchi terroristici in Europa ed altrove, dimostrano che “la società globale è vulnerabile, non mancando coloro che sono pronti a sovvertirla o a passare al terrorismo. Questa minaccia accompagna lo sviluppo della nostra società globale come ombra ineludibile”. Tale situazione ha nuovamente messo in luce il problema e la possibilità del disarmo nucleare. Come affermato dal Presidente Obama nel suo discorso di Praga, dalla fine della Guerra Fredda “la minaccia della guerra nucleare globale si è ridotta ma è aumentato il rischio di un attacco nucleare”. Questa affermazione lo ha portato a proclamare “l’impegno dell’America a cercare la pace e la sicurezza in un mondo senza armi nucleari”. Un nobile obiettivo, certamente, e tuttavia egli ha subito dopo aggiunto: “questo obiettivo non sarà raggiunto rapidamente –forse neanche nel corso della mia vita”. Siamo tutti consapevoli del fatto che la deterrenza svolge ancora un ruolo fondamentale nel prevenire le guerre nucleari. Siamo anche consapevoli del fatto che la diffusione delle armi nucleari e la possibilità che alcune di esse cadano nelle mani di organizzazioni terroristiche, riducono l’efficacia della deterrenza basata sulla Distruzione Reciproca e Garantita, e conferiscono nuova importanza e valore alla difesa anti-missilistica. L’equilibrio tra quegli obiettivi in parte contrastanti dovrà essere accuratamente esaminato al fine di prevenire la proliferazione nucleare e gli attacchi nucleari, nella speranza che tutte le principali potenze raggiungano un accordo. Quelli da me sopra citati sono alcuni dei più recenti sviluppi nel quadro complessivo dei problemi cui fare fronte per garantire la sicurezza e la stabilità internazionale, come parte essenziale di un’efficace governo del mondo globale. Non occorre enumerare tutte le sfide e le minacce emerse nell’ultimo decennio, e soprattutto dall’11 settembre, per interrogarci su quale parte l’Europa sia destinata a fare. Dobbiamo discuterne schiettamente, con spirito critico, perché dobbiamo portarci all’altezza delle nostre responsabilità in vari campi, e specificatamente e concretamente in quello della sicurezza. L’europa – per essere più precisi, l’Unione europea – ha fatto non poco in questi anni perché si giungesse alla definizione di un nuovo concetto di sicurezza. Lo ha fatto anche attraverso una discussione non semplice con il nostro partner fondamentale, gli Stati Uniti. In questo momento possiamo dire che appare sostanzialmente condiviso in Europa e sulle due sponde dell’Atlantico, un più ampio, inclusivo, multidimensionale concetto di sicurezza. In proposito, definizioni ormai del tutto coincidenti si trovano nei documenti più recenti, dopo che un importante contributo venne già nel 2003 dall’Unione con la Strategia Europea di Sicurezza. Si vedano l’impegnativa dichiarazione comune sulla politica di sicurezza e difesa sottoscritta all’inizio di febbraio dal Cancelliere Merkel e dal Presidente Sarkozy, o il discorso pronunciato a Parigi all’inizio di marzo dal Segretario Generale della Nato. Quest’ultimo, dopo aver rilevato come tenda a scomparire il clivage tra la nozione di difesa e la nozione di sicurezza, ha prospettato temi come quelli della cyber-defence, della sicurezza energetica, del cambiamento climatico (e nel documento franco-tedesco vi si aggiunge quello delle migrazioni). E’ dunque ovvio che un simile concetto di sicurezza implichi approcci flessibili e comprensivi rispetto al presente, complesso contesto globale così come a specifiche aree di crisi. Tali approcci possono, in varia misura, comprendere il ricorso a mezzi militari o civili, a iniziative politico-diplomatiche o a misure di promozione dello sviluppo economico e sociale (essenziali queste ultime, insieme al sostegno alla costruzione delle istituzioni, al fine di creare le condizioni necessarie di crescita della democrazia e di affermazione dei diritti). Vorrei però dire chiaramente che l’ampliamento e arricchimento del concetto di sicurezza, sebbene necessario, non è una buona ragione per sfuggire ad una valutazione degli aspetti militari e a un impegno congiunto di difesa collettiva. Non vi può sfuggire l’Unione Europea. Nei suoi rapporti con gli Stati Uniti l’Europa risente ancora del sospetto di voler lasciare la responsabilità e gli oneri della propria difesa e della sicurezza sulle spalle dell’alleato americano. Dobbiamo essere ben certi che non persista nell’Unione Europea e/o nei suoi singoli Stati Membri una sostanziale sottovalutazione delle responsabilità che essi hanno congiuntamente per la tutela dei loro interessi di sicurezza individuali e di quelli dell’Unione nel suo complesso. La consapevolezza di tali responsabilità ha avuto espressione chiara e rilevante nella partecipazione europea, con mezzi militari oltre che civili, a missioni di mantenimento della pace e di stabilizzazione in aree di crisi sotto la responsabilità delle Nazioni Unite, della Nato, della stessa Unione Europea. Si tratta di uno sviluppo nuovo, il cui significato e la cui rilevanza desidero sottolineare: come componente della risposta della comunità internazionale alla nuova sfida rappresentata dall’insorgenza del terrorismo internazionale. Non occorre che io dia delle cifre: cito solo gli 8. 500 soldati italiani attualmente impegnati in molteplici missioni, soprattutto nei Balcani, in Libano ed in Afghanistan. Sono però un fatto innegabile anche la difficoltà e la lentezza con cui si è proceduto nel corso dell’ultimo decennio a dotare l’Unione Europea degli strumenti necessari perché essa potesse fare la sua parte a tutela della sicurezza comune. Il rapporto von Wogau, presentato ad una sessione plenaria del Parlamento Europeo e approvato nel febbraio scorso, non ha nascosto motivi di seria insoddisfazione per i progressi compiuti dal 2003 (data di definizione della Strategia Europea in materia di Sicurezza) fino ad oggi nel campo della cooperazione europea in materia di difesa. Il rapporto attribuisce tale insoddisfacente progresso alla cruda constatazione che gli Stati Membri “concepiscono ancora troppo spesso i loro interessi in un’ottica puramente nazionale”. Tale limite di visione ha indebolito anche il passo importante che fu fatto dal Consiglio Europeo con la decisione, già nel 2000, di istituire il Comitato Politico e di Sicurezza ed un Comitato Militare dell’Unione Europea incaricati di ampie responsabilità (responsabilità cui essi, nonostante i problemi che si trovano ad affrontare, continuano a cercare di ottemperare). Un altro limite che certamente pesa sull’impegno dell’Unione nel campo della difesa e della sicurezza è quello delle risorse disponibili. Da ciò possono venire dubbi anche sulla probabilità di raggiungere tutti gli obiettivi riccamente e precisamente fissati nella Dichiarazione per il Rafforzamento delle Capacità dell’Ue presentata al Consiglio nel dicembre 2008. Il punto è che nelle condizioni difficili in cui versano – ancor più dinanzi alla crisi finanziaria ed economica globale – i bilanci pubblici degli Stati Membri, la via da battere è quella di un deciso elevamento della produttività della spesa europea per la difesa, ancora di gran lunga inferiore rispetto a quella prevista nel bilancio Usa per la difesa e che, soprattutto, sconta uno scarso livello di efficacia e coordinamento. Si impone una razionalizzazione, anche nel senso del superamento di una costosa e improduttiva duplicazione di strutture. Ogni Stato Membro dell’Ue ha la propria organizzazione di Difesa nazionale. La spesa per la ricerca, la tecnologia e gli acquisti è tutt’altro che specializzata, dal momento che, per ragioni politiche, ciascun paese vuole mantenere una struttura di difesa completa, il che porta ad una ridondanza degli asset militari di base, ad una mancanza di moltiplicatori delle forze e, in generale, alla mancanza di capabilities di alto livello. Si tratta di superare contraddizioni e debolezze di tale natura ed egualmente di potenziare uno strumento cruciale come l’Agenzia Europea di Difesa, avendo di mira anche la crescita di un’ industria europea della difesa. Si ripropone in effetti, da tutti i punti di vista, la necessità di un deciso superamento di tradizionali impostazioni e gestioni nazionali dei problemi e delle politiche pubbliche, a favore di indirizzi e assetti comuni al livello europeo. E’ questa la via per un’efficace partnership tra l’Unione Europea e la Nato, anche al fine della piena valorizzazione delle opportunità consentite dai cosiddetti “accordi Berlin-plus” del 2003 di accesso dell’Unione “ai mezzi e agli assets collettivi della Nato per le operazioni a guida Ue”. Le remore verso forme di più razionale e produttiva integrazione nella fase che attraversa attualmente l’Unione europea, non possono più giustificarsi in nome di pregiudiziali e diffidenze di principio, “ideologiche”, e debbono cadere – non in omaggio a opposte dottrine e costruzioni teoriche, ma in risposta a fatti obbiettivi, a evoluzioni irresistibili del quadro mondiale, a nuove sfide alla crescita e alla sicurezza della società europea che i singoli Stati membri dell’Unione non sono, nel modo più evidente, in grado di fronteggiare. E’ solo attraverso l’Unione e le sue istituzioni (da rinnovare e rafforzare sulla base almeno del Trattato di Lisbona) che l’Europa “può portarsi all’altezza delle sue responsabilità”. Mi riferisco alle responsabilità da assolvere in seno alla sempre fondamentale partnership euro-atlantica, e in primo luogo al contributo da dare all’attuazione degli orientamenti scaturiti dall’incontro dei Capi di Stato e di governo tenutosi a Strasburgo e Kehl e della “Dichiarazione sulla sicurezza dell’Alleanza” che l’ha concluso. Si tratterà in particolare di contribuire all’elaborazione – a dieci anni di distanza dal documento di Washington – di un nuovo Strategic Concept, “per meglio fronteggiare le minacce di oggi e anticipare i rischi di domani”. Tra tali minacce e rischi si collocano certamente non solo quelli che vengono da uno stato di conflittualità diffusa su cui fa leva la sfida del terrorismo transnazionale, ma anche quelli che concretamente vengono oggi da tre cruciali aree di crisi : la regione Afghanistan-pakistan, il Medio Oriente allargato e il Corno d’Africa (si pensi alla Somalia come base di una nuova forma di pericolosa pirateria). In particolare, il quadro offerto dagli sviluppi in Afghanistan è lungi dall’essere incoraggiante. Questa è la prima area in cui la Comunità Internazionale deve compiere il suo sforzo principale per contrastare la minaccia globale posta dal fanatismo e dall’oscurantismo. Un fallimento nei nostri sforzi di stabilizzare l’Afghanistan e promuovere lo sviluppo delle sue istituzioni e della società civile avrebbe conseguenze molto gravi nell’intera regione. Pertanto, sono fermamente convinto che una partecipazione europea più attiva nelle operazioni di mantenimento e ri-stabilimento della pace in Afghanistan, come energicamente suggerito dall’Amministrazione americana, dovrebbe essere seriamente presa in considerazione, innanzitutto nel nostro interesse, tenendo presente la minaccia del terrorismo islamico fondamentalista contro l’Europa. Prendo molto seriamente il monito del Presidente Obama secondo il quale l’Europa potrebbe trovarsi sotto una minaccia di terrorismo più grave rispetto a quella che incombe sugli stessi Stati Uniti. L’afghanistan può sembrare molto distante da noi ma le distanze contano ben poco nel mondo odierno. E’ un’illusione pericolosa credere che il futuro dell’Afghanistan non riguardi il futuro della pace nel mondo. Lo stesso può dirsi della crisi ancora aperta in Medio Oriente. Dopo continui attacchi missilistici dalla Striscia di Gaza contro le città israeliane, la guerra che ne è seguita è costata un prezzo altissimo in termini di vite umane e di distruzione. Continuano a permanere profonde differenze in seno alla comunità palestinese tra coloro che sono a favore della continuazione di negoziati mirati a pervenire ad una soluzione che prevede due stati, che è indubbiamente l’unica opzione praticabile, e coloro i quali, almeno formalmente, sono contrari a continuare. D’altra parte, i miei recenti contatti con i leader della regione hanno lasciato qualche spazio alla speranza: i negoziati tra le due parti palestinesi continuano e, apparentemente, mostrano qualche progresso. Da parte israeliana, le elezioni hanno portato alla formazione di un governo che finora sembra non accettare alcuni degli accordi parziali conclusi nei negoziati bilaterali precedenti. Un ruolo europeo più attivo su tutte le questioni riguardanti il processo di pace (economiche, oltre che politiche e anche potenzialmente militari) verrebbe certamente visto molto favorevolmente nella regione, e non solo dai palestinesi. Più in generale, all’Europa toccherà dimostrarsi, nel prossimo futuro, capace di contribuire in modo significativo agli sviluppi che come ho detto in precedenza si stanno rendendo possibili nel sistema delle relazioni internazionali anche grazie alle nuove iniziative dell’Amministrazione americana. Ho già citato gli auspicabili e necessari sviluppi nei rapporti con la Federazione russa e in un rinnovato ciclo di negoziati sul disarmo, in particolare quello nucleare. E quando dico “l’Europa dovrà dimostrare”, intendo la concreta realtà dell’Unione europea che ha già sue politiche “esterne”, come quella con la Russia, come quella del partenariato orientale o – su un altro versante – quella del partenariato euro-mediterraneo. E mi riferisco ad un’ Europa che può ancor più assumere un suo profilo e un suo ruolo nell’evoluzione complessiva delle relazioni internazionali. L’europa deve – vorrei toccare quest’ultimo punto – mostrarsi capace di contribuire in modo significativo anche alle soluzioni da dare ai problemi di fondo che la crisi finanziaria ed economica globale in atto dallo scorso anno ha posto e pone. E queste soluzioni vanno cercate e definite in un vasto ambito di concertazione che negli ultimi tempi ha assunto dimensioni crescenti, fino a quelle del G-20. E’ lì che ci si deve incontrare con nuovi grandi paesi emergenti, come l’India e la Cina e con i rappresentanti di altre non ignorabili realtà di diversi continenti. Si prospetta talvolta vagamente la necessità di una nuova Bretton Woods : ma va detto che il mondo è radicalmente cambiato rispetto agli anni della complessa gestazione e infine della definizione degli accordi di Bretton Woods. I grandi protagonisti di quell’impresa furono in sostanza gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, quest’ultima rappresentata da un grande studioso, scrittore e servitore pubblico inglese, figura di straordinario valore culturale e tecnico, John Maynard Keynes, che pure dové rinunciare ad alcune sue idee e rivendicazioni fondamentali. Ricordiamo quel che egli disse, alla Conferenza di Bretton Woods, sul lavoro compiuto, con parole che davano il segno della sua sapienza : “. Abbiamo, inoltre, operato in un campo di grande difficoltà intellettuale e tecnica. Abbiamo dovuto allo stesso tempo svolgere i compiti che attengono all’economista, al finanziere, al politico, al giornalista, al propagandista, all’avvocato, allo statista e, perfino, penso, al profeta e al vaticinatore. ” “. Abbiamo dimostrato che un gruppo di 44 nazioni è in realtà in grado di collaborare per un compito costruttivo in amicizia e armonia completa. Pochi lo credevano possibile. Se riusciremo a continuare con un compito più ampio come abbiamo cominciato con questo compito limitato, c’è speranza per il mondo. ” Si può oggi nella comunità internazionale ripetere quell’impresa, riaccendere quella speranza? C’è davvero da invocare nuovamente, come fece Keynes, “uno spirito di saggezza, pazienza e severo riserbo”. Ci si deve provare con un numero molto più grande di effettivi protagonisti, più che di semplici partecipanti. E al tavolo ci sarà non più, per l’Europa, solo l’imbattuta e vittoriosa Gran Bretagna, con alle spalle la sua grande tradizione nazionale e imperiale; ma l’unico soggetto che potrà davvero aver peso : l’Europa unita, attraverso le istituzioni dell’Unione. E potrà veder riconosciuto il suo ruolo, solo se uscirà da logiche e vincoli strettamente nazionali, da cui è stata ancora condizionata nel decidere con quali strumenti intervenire dinanzi alla crisi finanziaria mondiale. Tutto quel che ho detto, il filo del discorso che ho svolto nella sede di questo istituto, luogo di così grande esperienza e competenza, mi porta a rispondere alla domanda iniziale affermativamente ma ad una condizione, come ho d’altronde via via rilevato. Si, l’Europa sarà all’altezza delle sue responsabilità in un mondo globalizzato, ma a condizione che si riconosca nell’Unione scaturita dalla Comunità ideata quasi sessant’anni or sono. A condizione cioè che ci diamo più forti istituzioni comuni, più forti politiche comuni, e maggiori risorse di bilancio comuni. So bene che questa conclusione può contraddire la storica riluttanza della Gran Bretagna ad accettare fino in fondo una prospettiva di integrazione e di unità politica europea. Possiamo allora ricordare le parole che un grande inglese un grande europeo pronunciò nel suo discorso alla Albert Hall il 14 maggio 1947? Cito: “E’ necessario che qualsiasi politica che quest’isola possa adottare nei confronti dell’Europa ed in Europa goda della piena simpatia e dell’approvazione dei popoli dei paesi del Commonwealth. Ma perché dovremmo ipotizzare che essi non saranno con noi in questa causa? Sentono con noi che la Gran Bretagna è geograficamente e storicamente parte dell’Europa e che anche loro hanno il loro patrimonio storico in Europa. Se l’Europa unita deve essere una forza vivente, la Gran Bretagna dovrà fare pienamente la sua parte come membro della famiglia europea. ”. Confido nel fatto che il vecchio messaggio di Winston Churchill, che suona ancora così ispirato e lungimirante, possa essere accolto e interamente condiviso dalla Nazione da lui condotta negli anni in cui, sotto la sua guida, la Gran Bretagna difese con successo se stessa e l’Europa, salvando la nostra libertà e la nostra civiltà, cose che non dimenticheremo mai. .  
   
 

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