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MARTEDI

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Notiziario Marketpress di Martedì 03 Giugno 2014
TENDENZE SCIENTIFICHE: RICERCATORI USANO L´HIV PER COMBATTERE L´HIV  
 
Bruxelles, 3 giugno 2014 - Dall´inizio dell´epidemia di Hiv, quasi 75 milioni di persone sono state infettate dal virus e circa 36 milioni di persone sono morte di Hiv. Nel 2012 sono stati registrati un totale di 29 000 nuovi casi di Hiv nell´Ue e nello Spazio economico europeo. Questa settimana però i media riportano che alcuni ricercatori hanno scoperto un metodo per usare il virus come strumento nella lotta contro le malattie ereditarie. A lungo termine, il virus potrebbe persino essere usato contro la stessa infezione da Hiv. Secondo Russia Today (Rt), i ricercatori dell´Università di Aarhus sono riusciti ad alterare le particelle di Hiv per riparare i genomi umani in un processo detto tecnica dell´"attacco lampo". Questo significa che le particelle di Hiv potrebbero presto essere sfruttate in un modo nuovo per curare le malattie ereditarie e il virus stesso. I ricercatori di Aarhus sono riusciti ad alterare le particelle del virus dell´Hiv in modo da poter simultaneamente "tagliare e incollare" nel nostro genoma attraverso processi biologici. Le particelle alterate sono efficacemente trasformate in veicoli per portare "forbici", che serviranno a tagliare la parte difettosa del genoma, e materiale biologico per rattoppare il buco. Jacob Giehm Mikkelsen, professore associato di genetica presso l´Università di Aarhus, spiega: "Adesso possiamo simultaneamente eliminare la parte del genoma difettosa nella cellule malate e richiudere il vuoto creato nelle informazioni genetiche che abbiamo rimosso dal genoma. L´elemento nuovo è che possiamo portare le forbici e la toppa insieme nelle particelle dell´Hiv, in un modo mai usato da nessuno finora. Science Alert osserva che la nuova tecnica è molto più sicura rispetto ai precedenti metodi di taglia e incolla. In questa tecnica, le "forbici" usate per tagliare il Dna hanno la forma di una proteina che ha vita breve, portata dalle particelle modificate del virus dell´Hiv. Questo significa che non possono riprodursi e cominciare a tagliare in modo incontrollato. Il che era motivo di preoccupazione nelle tecniche precedenti. Il prof. Mikkelsen continua a spiegare: "In passato, il gene delle forbici era trasferito alle cellule, una cosa pericolosa perché la cellula continua a produrre forbici che possono iniziare a tagliare in modo incontrollato. Noi invece facciamo forbici sotto forma di una proteina e quindi queste tagliano solo per un paio d´ore, dopo di che si dissolvono. Assicuriamo inoltre che la particella di virus porti con sé anche un piccolo pezzo di materiale genetico per richiudere il buco". I ricercatori hanno chiamato questa tecnica "attacco lampo" perché il processo è veloce e non lascia tracce. Design & Trend riferisce che le cellule di questa tecnica potrebbero persino essere fornite di geni adatti a combattere certi tipi di cancro e certe malattie ereditarie. Yujia Cai del team di ricerca conclude: "Alterando cellule pertinenti del sistema immunitario (cellule T) possiamo renderle resistenti all´infezione da Hiv e forse allo stesso tempo potremmo persino dotarle di geni che aiutano a combattere l´Hiv. Per maggiori informazioni, visitare: http://elifesciences.Org/content/3/e01911    
   
   
A PISA PRIMO IMPIANTO DEL PIÙ PICCOLO PACEMAKER SENZA FILI AL MONDO  
 
Firenze, 3 giugno 2014 - Nei giorni scorsi a Pisa è stato effettuato con successo il primo impianto del più piccolo pacemaker senza fili al mondo, ossia del sistema di stimolazione intracardiaco transcatetere: Micra Transcatheter Pacing System, realizzato dalla ditta Medtronic. L´impianto rientra nell´omonimo studio clinico mondiale Micra Transcatheter Pacing Study ed è stato effettuato, per la prima volta in Italia, da Maria Grazia Bongiorni, direttore dell´Unità operativa di Cardiologia 2 dell´Aoup-azienda ospedaliero-universitaria pisana, coadiuvata dalla sua équipe. L´assessore al diritto alla salute della Regione Toscana esprime grande soddisfazione per questo impianto e si congratula con la dottoressa Bongiorni e con l´intera équipe che ha eseguito l´intervento, sottolineando che l´azienda ospedaliero-universitaria pisana è uno dei pochi centri al mondo che partecipano a questo studio. L´aou Pisana è uno dei primi centri al mondo inclusi in questo studio, ed ha ricevuto preventivamente l´approvazione dal Comitato Etico competente e dal Ministero della Salute, per ottenere il marchio Ce e l´approvazione Fda-federal & Drug Administration americana. Lo studio clinico Micra è uno studio a singolo braccio, multicentrico mondiale, che vedrà l´arruolamento di 780 pazienti in oltre 50 centri. I risultati iniziali sui primi pazienti, a distanza di tre mesi dall´impianto, saranno resi noti all´inizio del 2015. Il piccolo pacemaker pesa 2 gr. E misura poco più di 2 cm. - poco più grande di una pillola, un decimo della grandezza di un pacemaker convenzionale – e ha una durata che può variare da 7 a 14 anni. Viene inserito attraverso la vena femorale e si àncora nel ventricolo destro con 4 piccoli arpioncini. Non ha bisogno di alcun filo inserito nelle vene e, agganciato direttamente all´interno del cuore, il sistema Micra emette impulsi elettrici in grado di regolarizzare il battito cardiaco attraverso un elettrodo posizionato sul dispositivo stesso. A differenza delle attuali procedure di impianto, quella del Micra non richiede incisioni nel torace né la creazione di una tasca sottocutanea, né l´inserimento di fili nelle vene, eliminando così il rischio di potenziali complicanze legate alla procedura tradizionale. La stimolazione del cuore senza elettrocateteri rappresenta un´innovazione rivoluzionaria che si posiziona come pietra miliare nell´ambito del trattamento elettrico delle aritmie. La miniaturizzazione dei dispositivi cardiaci impiantabili comporterà enormi benefici per i pazienti a breve e lungo termine. "Questa tecnologia miniaturizzata, dall´approccio mininvasivo – spiega la dottoressa Bongiorni - è stata studiata per fornire ai pazienti una tecnologia avanzata in alternativa ai sistemi di stimolazione tradizionali. Siamo orgogliosi che il nostro ospedale sia stato selezionato tra un gruppo ristretto di centri che partecipano allo studio clinico mondiale Micra. I risultati che deriveranno dallo studio clinico attualmente in corso si tradurranno in un maggior beneficio per i milioni di pazienti che ogni anno necessitano di questa terapia".  
   
   
LOMBARDIA.EXPO,PRESIDENTE: NEI PROSSIMI GIORNI VEDRÒ CANTONE  
 
Milano, 3 giugno 2014 - "Vedrò prossimamente Raffaele Cantone a Roma, gli ho chiesto un incontro, perché voglio coinvolgerlo sulla anche sulla Città della Salute, perché siamo molto attenti su questo, ma, finché non ha i poteri effettivi, è inutile. Il Governo continua a rinviare questa decisione, che spero prenda rapidamente, perché ogni giorno che passa è un giorno perso e non si capisce perché rimandare queste decisioni". Lo ha spiegato il presidente della Regione Lombardia nel corso della conferenza stampa al termine della seduta della Giunta regionale a Palazzo Lombardia.  
   
   
DIABETE: IPOGLICEMIA IL RISCHIO SOMMERSO  
 
 Bologna, 3 giugno 2014 – Palpitazioni, tremore, ansia, giramenti di testa, confusione: sono questi alcuni dei sintomi percepiti durante un episodio di ipoglicemia, un repentino ed eccessivo abbassamento dei livelli di glucosio nel sangue che può accadere in una persona dopo l’assunzione di alcuni farmaci per la cura del diabete. Nella forma grave l’ipoglicemia può portare addirittura alla perdita di coscienza e può essere fatale se non si interviene per tempo. Il tema dell’ipoglicemia è stato al centro del simposio “Terapia del diabete: innovazione, personalizzazione e future prospettive”, promosso da Novo Nordisk al 25° Congresso nazionale della Società Italiana di Diabetologia, svoltosi a Bologna. “Il problema delle ipoglicemie è molto diffuso e interessa e preoccupa molte persone con diabete, sia adulti sia bambini” afferma Antonio Nicolucci, Responsabile del dipartimento di farmacologia clinica ed epidemiologia della Fondazione Mario Negri Sud. “Secondo i risultati di uno studio italiano, Hypos-1, una persona con diabete di tipo 1, infatti, va incontro a quasi un episodio di ipoglicemia sintomatica a settimana, mediamente 53,3 episodi l’anno. Per quanto riguarda l’ipoglicemia grave, che può portare al ricovero in ospedale, il 16,5% delle persone che riferiscono episodi di ipoglicemia, quindi una persona su sei, ha almeno un episodio grave all’anno. Nelle persone con diabete tipo 2, invece, le ipoglicemie ammontano in media a 9 episodi per persona l’anno, e gli episodi gravi sono poco meno di uno ogni 100 persone l’anno”. Quando ad avere il diabete è un bambino, a essere preoccupati per le ipoglicemie sono i genitori e questa ansia si ripercuote in maniera negativa sulla cura della malattia del proprio figlio. Lo dimostrano i risultati del recente studio Ship-d (Severe Hypoglycemia and ketoacidosis in Pediatric population with type 1 Diabetes), condotto in 29 centri diabetologici italiani, su 2.025 bambini e adolescenti. “Lo studio Ship-d rivela, tra le altre cose, un rapporto inversamente proporzionale tra l’età della madre del piccolo paziente con diabete e il rischio del figlio di incorrere in un episodio di ipoglicemia: più la mamma è giovane, più elevato è il rischio. Questo può essere correlato al fatto che le giovani madri riescono a gestire meno lo stress derivante dal prendersi cura del proprio bimbo e vivono nella paura costante che abbia un episodio di ipoglicemia, soprattutto di notte, quando non è costantemente sorvegliato; questo stress genera ansia e, in un circolo vizioso, riduce le capacità della madre di gestire nel modo migliore la malattia del proprio figlio”, continua Nicolucci, che è tra gli autori dello studio. Ship-d ha rivelato, inoltre, che ogni 100 bambini con diabete di tipo 1, si verificano quasi 8 episodi di ipoglicemia grave l’anno. “La buona notizia è che questo dato è decisamente più basso rispetto al passato. Precedenti studi riportavano, infatti, un’incidenza annua degli episodi di ipoglicemia grave di oltre 30 episodi ogni 100 bambini. Alla base di questo miglioramento c’è sicuramente maggiore attenzione e aderenza alla terapia e l’utilizzo di farmaci innovativi”. A spaventare di più, e a essere maggiormente pericolose tanto nei bambini quanto negli adulti, sono le ipoglicemie notturne, proprio perché quando si dorme non ci si rende conto dei sintomi e non si può quindi intervenire per riportare il glucosio nel sangue a un livello sufficiente per il corretto funzionamento dell’organismo. “A tal proposito lo stesso studio Hypos-1 - prosegue Nicolucci - rivela che, fra coloro che riferiscono episodi di ipoglicemia, uno su quattro ha avuto almeno un episodio di ipoglicemia sintomatica notturno nel corso degli ultimi 12 mesi, vivendo sulla propria pelle tutti i sintomi che ne derivano.” “Quando si verifica un episodio di ipoglicemia - spiega Gian Paolo Fadini, endocrinologo, Ricercatore presso l’Università di Padova – non si deve fare i conti solo con i bassi livelli di zucchero nel sangue, perché l’ipoglicemia può anche scatenare problematiche cardiovascolari, di cui i diabetici soffrono frequentemente. Infatti, in carenza di zucchero, l’organismo viene a trovarsi in una condizione infiammatoria, i vasi sanguigni subiscono uno stress, ed il cuore modifica la propria attività elettrica. In particolare le ipoglicemie notturne sono considerate molto pericolose perché si realizzano durante il sonno ed in momenti in cui l’apparato cardiovascolare è tipicamente più suscettibile agli insulti. Studi effettuati su pazienti affetti da diabete tipo 1 e tipo 2, in cui sono stati registrati simultaneamente gli andamenti glicemici e l’elettrocardiogramma, hanno dimostrato una relazione strettissima tra ipoglicemia e prolungamento del tratto Qt, che favorisce la comparsa di aritmie potenzialmente gravi. Si ritiene infatti che lo sviluppo di ipoglicemie nelle persone con diabete in terapia farmacologica rappresenti uno dei motivi per cui è molto difficile prevenire le malattie cardiovascolari abbassando la glicemia. Per tale motivo, è auspicabile l’utilizzo di farmaci per il diabete che espongono al minor rischio possibile di ipoglicemie.” Inoltre, è necessario ricordare che le ipoglicemie notturne compromettono gravemente la qualità del sonno e la sua capacità ristoratrice. Infatti, nella giornata che segue un’ipoglicemia notturna, la persona può presentare significative alterazioni di alcune funzioni neurologiche, come attenzione e memoria a breve termine, e delle capacità operative. Infine, quando ripetuti episodi di ipoglicemia si susseguono a distanza ravvicinata, i segnali di allarme che normalmente si avvertono - sudorazioni, tremori, palpitazioni - possono compromettersi, risultando in una ridotta capacità di far fronte all’ipoglicemia, con conseguente aumento del rischio di ipoglicemie gravi, come in circolo vizioso. Tutto questo ha certamente un forte impatto negativo sulla qualità di vita delle persone con diabete e dei loro familiari, che vivono costantemente nella paura di incorrere in un episodio di ipoglicemia. Spesso per questo motivo, si tende a diminuire l’aderenza alla terapia e agli stili di vita raccomandati. “Le ipoglicemie sono il principale effetto collaterale del trattamento con insulina, ma oggi l’incidenza di ipoglicemie sintomatiche e notturne è diminuita grazie all’introduzione di insuline innovative, ciononostante le ipoglicemie continuano a rappresentare una barriera all’ottimizzazione della terapia - commenta Edoardo Mannucci, Direttore agenzia diabetologia, Azienda Ospedaliero-universitaria Careggi, Firenze. “Le caratteristiche della formulazione di un’insulina ideale, sotto questo punto di vista, dovrebbero essere quelle di rilasciare una concentrazione di insulina costante, stabile, priva di picchi e continua per almeno 24 ore, con rischio ridotto di ipoglicemia. L’insulina degludec è un innovativo analogo basale dell’insulina caratterizzato da durata d’azione superiore alle 24 ore e con un effetto metabolico distribuito uniformemente nel corso della giornata. La sua ridotta variabilità di assorbimento assicura un profilo glicemico più stabile con un’importante riduzione del rischio di ipoglicemia. A parità di riduzione di emoglobina glicata, nel programma di sviluppo clinico Begin, degludec, rispetto ad altre insuline, era associato a un minore tasso di ipoglicemia notturna sia nel diabete tipo 1 (-25%) sia nel tipo 2 (-17%). La disponibilità di questa nuova insulina, che all’occorrenza permette anche flessibilità nell’orario di somministrazione da un giorno all’altro, potrebbe rappresentare un passo in avanti per la terapia insulinica”, conclude Mannucci, ricordando anche come l’insulina degludec, negli studi clinici sin qui condotti, abbia dimostrato di migliorare significativamente il benessere fisico e la qualità di vita della persona con diabete di tipo 2 rispetto alle insuline oggi disponibili.  
   
   
DIABETE MELLITO: I TANTI PERCHÉ DI UNA SFIDA DIFFICILE  
 
Bologna, 3 giugno 2014 – L’intervento del presidente eletto della Sid Enzo Bonora al Xxv° Congresso della Società Italiana di Diabetologia Il diabete, una delle tre emergenze sanitarie identificate dalle Nazioni Unite e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms o Who), insieme alla malaria e alla tubercolosi e l’unica delle tre ad essere malattia ‘non trasmissibile, rappresenta una delle sfide più difficili per i sistemi sanitari di tutto il mondo. Ed è una sfida complessa e articolata. La sfida è difficile perché la malattia è estremamente diffusa e la sua prevalenza è in costante aumento. Nel mondo il numero dei diabetici è raddoppiato in 20 anni da circa 150 a oltre 300 milioni e le stime della International Diabetes Federation e della Who prevedono che questo numero raggiunga e probabilmente superi i 600 milioni entro il 2030. In Italia i dati dell’Osservatorio Arno Diabete 2012, frutto della collaborazione Cineca-sid e basati sulle prescrizioni di farmaci, sulle esenzioni ticket e sulla presenza del diabete fra i codici delle diagnosi indicate sulle schede di dimissione ospedaliera (Sdo), indicano una prevalenza del diabete del 6.2% pari a 3.750.000 di individui affetti. Accanto a questi vanno considerati i diabetici noti ma senza esenzione ticket, non farmaco-trattati e senza l’indicazione del diabete nella Sdo di un eventuale ricovero ospedaliero e anche tutti i soggetti che sono diabetici senza che la malattia sia mai stata diagnosticata. Nel complesso i diabetici italiani non sono meno di 5 milioni. Circa una persona su 12 che vive in Italia ha il diabete: una vera pandemia, con un diabetico presente praticamente in ogni famiglia. Il 95% di questi 5 milioni di individui ha diabete tipo 2, il 2-3% ha diabete tipo 1 e il restante ha varietà meno comuni della malattia. La sfida è difficile perché la malattia è cronica e la sua durata, attualmente di 20-30 anni, è in continuo aumento, grazie a cure sempre migliori che aumentano la sopravvivenza delle persone affette ma in virtù di una età di insorgenza che si sta abbassando sempre più. L’età media alla diagnosi in Italia è attualmente 50 anni ma ormai molti diabetici tipo 2 ricevono la diagnosi della malattia all’età di 20 e 30 anni, soprattutto nelle etnie non caucasiche, ed hanno la prospettiva di vivere con la malattia per i successivi 40-50 anni. Senza dimenticare che i diabetici tipo 1, la cui diagnosi avviene quasi sempre prima dei 20 anni e non infrequentemente nei prima anni di vita, spesso raggiungono e superano gli 80 anni di età e totalizzano quindi una durata di malattia di 7-8 decadi e anche più. La sfida è difficile perché il diabete è assai complesso nella patogenesi eterogenea e multiorgano dell’iperglicemia, alla quale concorrono variamente beta ed alfa cellule pancreatiche, muscolo scheletrico, fegato, tessuto adiposo, intestino, rene, cervello. La complessità patogenetica e l’eterogeneità della combinazione dei vari difetti molecolari e della loro severità è tale da giustificare l’affermazione che ogni diabetico è unico nel suo genere e per questo merita una personalizzazione nella diagnosi, nel monitoraggio e nella cura. Una personalizzazione che deve tener conto del fatto che il diabete non è solo iperglicemia ma anche dislipidemia, ipertensione, infiammazione, trombofilia e stresso ossidativo. La sfida è difficile perché nel diabete tutti i tessuti e tutte le cellule dell’organismo soffrono a causa dell’iperglicemia e dei difetti associati. Il diabete è malattia sistemica anche per questo motivo: per l’espressione multiorgano delle complicanze croniche per le quali va superata la visione classica dell’interessamento dell’occhio, del rene e dei nervi (microangiopatia) e dei vasi sanguigni (macroangiopatia), per la conoscenza che il diabete aumenta il rischio di malattie polmonari e gastrointestinali, cutanee e osteo-articolari, ematologiche e immunologiche e raddoppia il rischio di sviluppare praticamente tutti i tumori. La sfida è difficile perché al momento della diagnosi solo il 20% dei pazienti non presenta danno d’organo. L’80% dei pazienti al momento della diagnosi ha invece alterazioni al fondo dell’occhio (retinopatia) oppure una riduzione del filtrato glomerulare e/o microalbuminuria (nefropatia) oppure alterazioni neurologiche somatiche o autonomiche (neuropatia) oppure placche carotidee o alle arterie degli arti inferiori oppure alterazioni ischemiche elettrocardiografiche o precedenti di infarto e/o ictus (vasculopatia). Un danno d’organo più o meno severo che impone un’assistenza multidisciplinare e multiprofessionale fin dal momento della diagnosi. La sfida è difficile perché il diabete, è inutile celarlo, è una malattia grave che ha un impatto notevole sulla qualità della vita, causando spesso disabilità. Il diabete è la prima causa di cecità, la seconda causa di insufficienza renale terminale con necessità di dialisi o trapianto, la prima causa di amputazione non traumatica degli arti inferiori, una concausa di metà degli infarti e degli ictus. I dati epidemiologici documentano che in Italia ogni 7 minuti una persona con diabete ha un attacco cardiaco, ogni 26 minuti una persona con diabete sviluppa un’insufficienza renale, ogni 30 minuti una persona con diabete ha un ictus, ogni 90 minuti una persona subisce un’amputazione a causa del diabete e ogni 3 ore una persona con diabete entra in dialisi. Complicanze tanto gravi che il diabete è responsabile di una premorienza stimata mediamente in 7-8 anni quando si valuta l´aspettativa di vita di un diabetico all´età di 50 anni e la si confronta con un pari età senza la malattia. Il diabete non è una malattia fastidiosa, un numero ‘asteriscato’ su un referto di laboratorio, con cui convivere. Il diabete, è sbagliato nasconderlo, è una malattia che uccide e spesso lo fa senza dare grossi segni della sua presenza, come un killer silenzioso. In Italia ogni 20 minuti una persona muore a causa del diabete. La sfida è difficile perché il diabete richiede un incessante ed attivo coinvolgimento nella cura della malattia della persona affetta. Nel diabete, come in nessun’altra malattia, l’esito dipende da quanto il paziente partecipa scrupolosamente al monitoraggio e alla cura. Dipende da lui più che dal medico. Per questo è irrinunciabile che il paziente sia educato adeguatamente alla gestione della malattia in tutte le sue varie sfaccettature. Per questo è indispensabile che i professionisti che lo curano dedichino tempo, molto tempo alla persona con diabete: devono riuscire a stringere con lei quell’alleanza complice che è necessaria per raggiungere una consapevole accettazione della malattia e di quanto è necessario per curarla in maniera efficace, minimizzando il rischio di complicanze croniche. Il diabete è una malattia che nel corso della vita richiede qualcosa di specifico, in genere mal sopportato, centinaia di migliaia di volte (attenzione all’alimentazione, attività fisica, misurazioni glicemiche domiciliari, assunzione di pillole o iniezioni, visite, esami, ecc.). Per conseguire la necessaria aderenza non bastano raccomandazioni verbali frettolose o foglietti con scarne istruzioni scritte. Servono ascolto ed empatia, pazienza e comprensione, dedizione e compassione. La sfida è difficile perché diagnosi e cura del diabete richiedono l’intervento di molti professionisti della sanità. Richiedono medici di famiglia formati sulla gestione della malattia e interessati alla cura di una patologia che abbisogna di moltissimo tempo e di incessante impegno. Richiedono team specialistici costituiti da medici diabetologi, infermieri e dietisti esperti (team diabetologico). Richiedono anche psicologi, podologi, nefrologi, cardiologi, oculisti, neurologi e, sempre più frequentemente, specialisti che abbiano competenze specifiche nella cura del piede (diabetologi diventati chirurghi, chirurghi plastici, chirurghi vascolari, ortopedici, infettivologi, fisiatri). Professionisti aggiornati, motivati e appassionati che sappiano destreggiarsi fra decine di esami di laboratorio e strumentali e padroneggiare l’uso di decine di classi di farmaci. Da questo punto di vista il diabete è una varietà molto peculiare di malattia cronica che richiede uno specifico modello assistenziale. Diversamente dalle altre malattie croniche (scompenso cardiaco, Bpco, patologia ulcerativa gastrointestinale, artrosi) il diabete non riguarda un solo organo o apparato, non si gestisce con 1-2 esami strumentali, 3-4 esami di laboratorio e una mezza dozzina di farmaci. E’ stato calcolato che, considerando l’armamentario di farmaci a disposizione, le combinazioni possibili di farmaci anti-diabetici siano superiori a 100. La sfida è difficile perché il diabete costa una quantità enorme di soldi alla società e al singolo individuo. Soldi che vengono utilizzati per diagnosi, cura e riabilitazione o che non vengono guadagnati per giornate lavorative perdute e per disabilità acquisite. Senza contare i costi morali e intangibili attribuibili alla malattia (qualità e quantità di vita perduta). I dati più recenti sulla cura del diabete indicano che in Italia ogni persona con diabete costa al Ssn circa 3.000 euro. La somma, tuttavia, è sottostimata perché basata sulle tariffe (es. Rimborso forfettario di un ricovero col sistema dei Drg) e non sui costi reali (es. Costo della giornata di degenza moltiplicato per la durata della stessa). Da notare che il costo per i farmaci anti-diabetici, per i presidi (strisce per misurare a domicilio la glicemia), per le visite diabetologiche e per il monitoraggio di laboratorio (es. Hba1) rappresentano nel loro complesso solo il 10% dei costi mentre il 90% degli stessi è rappresentato da ricoveri ospedalieri e diagnosi, monitoraggio e terapia delle complicanze acute e croniche. Per vincere questa sfida è fondamentale un’alleanza forte fra chi cura la malattia e chi ha la malattia, fra medici di famiglia e specialisti, fra ospedale e territorio, fra clinici e ricercatori, fra enti governativi nazionali e locali, fra soggetti pubblici e privati, fra istituzioni pubbliche, associazioni di pazienti e società scientifiche. Un’alleanza che includa anche le aziende del settore farmaceutico e dei biomedicali per identificare strumenti di diagnosi e cura sempre più efficaci e sicuri e per realizzare e sostenere ricerca, assistenza, formazione e divulgazione nel campo del diabete. L’italia è il Paese dove esiste un’organizzazione per l’assistenza diabetologica che non ha eguali nel mondo ed è invidiata da tutti i paesi occidentali. Un’organizzazione che consta, oltre che dei medici di famiglia, di una rete di centri specialistici diffusi capillarmente su tutto il territorio nazionale e che forniscono con regolarità consulenze per circa il 50% delle persone con diabete, prevalentemente, ma non esclusivamente, quelle con malattia più complessa e/o complicata. Per questo l’Italia è uno dei Paesi con il più basso livello medio di Hba1c ed è il Paese che ha registrato in passato più bassi tassi di complicanze croniche e di eccesso di mortalità. Per consolidare e migliorare questi risultati l’Italia, che fra i primi si è dotata di una legge nazionale sul diabete 25 anni fa, ha varato nel 2013 un Piano Nazionale Diabete che, approvato dalla Conferenza Stato-regioni, prevede che tutte le persone con diabete che vivono in Italia siano assistite con il modello della “gestione integrata” o “disease management” fin dal momento della diagnosi dai medici di famiglia, da soli o aggregati, e dai team diabetologici. Una gestione che non prevede una suddivisione dei pazienti fra chi va dallo specialista e chi no ma piuttosto un intervento dei team diabetologici (non di singoli specialisti in diabetologia) meno frequente nei pazienti a più bassa complessità (circa il 60% del totale) e più frequente in quelli a più alta complessità (circa il 40%). Una gestione che non può realizzarsi senza una condivisione totale delle informazioni cliniche di tutti i diabetici mediante cartelle elettroniche visibili sia ai medici di famiglia che ai team specialistici e senza una collaborazione leale e sincera, rispettosa delle proprie diverse ma complementari professionalità. Una gestione integrata ha già visto la luce in alcune realtà regionali o locali e che è previsto si debba estendere a tutto il Paese per dare le stesse opportunità di cura a tutti (equità ed uguaglianza) e per vincere la sfida. Il diabete deve essere sconfitto, con la necessaria partecipazione attiva alla sfida della persona affetta e con l’irrinunciabile alleanza fra medici di famiglia e team diabetologici. Se la sfida non sarà vinta, se il diabete non sarà sconfitto, la malattia dilagherà, con le sue complicanze, con la sua disabilità, con la sua premorienza, coi suoi costi insostenibili per il singolo e la società, con il suo impatto negativo sulla qualità e quantità di vita di molti milioni di cittadini nel nostro Paese.  
   
   
DIABETE, NEMICO N° 1 DEI RENI PURTROPPO IN BUONA COMPAGNIA  
 
Bologna, 3 giugno 2014 – A colloquio con Anna Solini, ricercatore di Medicina Interna, Università di Pisa; segretario eletto del gruppo di studio ‘nefropatia’ della società europea di diabetologia (Easd) Il diabete è la principale causa d’insufficienza renale terminale, quella che porta alla dialisi, nelle popolazioni occidentali, seguito dal danno renale da ipertensione arteriosa. I numeri sono importanti, come si evince da studi condotti su diverse popolazioni, tra i quali lo studio Riace, uno studio condotto con il supporto della Società Italiana di Diabetologia su 16,000 pazienti afferenti a 19 centri su tutto il territorio nazionale. La prevalenza di malattia renale cronica, cioè quando il filtrato glomerulare scende al di sotto dei 60 ml/min (indicativo di danno renale conclamato) si aggira intorno al 18% della popolazione diabetica. Tale percentuale aumenta in modo rilevante con l’avanzare dell’età: tra gli ultra 65enni diabetici, una persona su tre è affetta da una nefropatia di grado severo. Le cause di un danno fatto a…più ‘mani’. La nefropatia diabetica è un’affezione renale cronica dalla patogenesi estremamente complessa al cui determinismo, oltre ad una indubbia predisposizione genetica, concorrono non soltanto un inadeguato controllo metabolico del paziente, ma anche la presenza di valori pressori elevati o di una dislipidemia. Ciò giustifica e, anzi, rende necessario un approccio multifattoriale per la prevenzione dell’insorgenza del danno renale, o per rallentare il declino della funzione renale una volta che essa sia già compromessa. Valori elevati di glicemia, ma anche la pressione arteriosa elevata, l’aumento del colesterolo e dei trigliceridi e il fumo danneggiano il rene attraverso tanti meccanismi. L’effetto diretto dell’alto glucosio sulle cellule (con formazione di composti tossici per il metabolismo cellulare ed aumento dello stress ossidativo) si somma a quello della dislipidemia, al danno delle arterie e delle arteriole provocato dalla frequente coesistenza di una ipertensione arteriosa, ad un danno di tipo infiammatorio, indotto da un eccesso di citochine ed altre molecole infiammatorie. La nefropatia diabetica è quindi una malattia molto complessa, della quale non sappiamo ancora tutto. Per la diagnosi di danno renale non basta un solo esame! Fino a qualche anno fa si riteneva che la nefropatia diabetica avesse sempre lo stesso tipo di evoluzione e cioè che la prima ‘spia’ di danno a comparire fosse la microalbuminuria (cioè la presenza di piccole quantità di albumina nelle urine), seguita dalla macroalbuminuria e, infine, dalla riduzione del filtrato glomerulare, che è il vero danno funzionale. Più recentemente, studi osservazionali condotti su diverse migliaia di soggetti, tra cui lo studio Riace, hanno documentato come ci sia una percentuale rilevante di pazienti con diabete di tipo 2 (tra il 35 e il 50% circa) che perde una quota importante di filtrato, pur rimanendo normoalbuminurici. Si è identificato, quindi, un fenotipo diverso che potrebbe differire per alcuni aspetti patogenetici dalla “forma classica “, nonché richiedere un trattamento in parte diverso. Il messaggio importante, per il paziente, e soprattutto per i medici, è dunque quello di non basarsi solo sul valore della creatina o della microalbuminuria, ma di misurare anche, nelle persone con diabete, il filtrato glomerulare, che si può calcolare applicando formule molto semplici che richiedono, oltre alla creatinina, solo il sesso e l’età del soggetto. In questo modo si evita il rischio che il danno renale avanzato possa non essere riconosciuto in un numero rilevante di pazienti. “La nefropatia continua ad essere motivo di ricorso alla dialisi in un numero crescente di persone con diabete in Italia – commenta il Prof. Stefano Del Prato, Presidente della Società Italiana di Diabetologia. Studi come quello commentato dalla Dr.ssa Solini, sono importanti perché mettono in guardia i diabetologi italiani sulla necessità di essere più incisivi e attenti nella identificazione delle persone a rischio, soprattutto quando questo può essere fatto con mezzi semplici ma efficaci” Come prevenire o rallentare il danno renale. Il controllo stretto della glicemia è fondamentale nella prevenzione e nel trattamento della nefropatia: valori glicemici il più vicino possibili ai range di normalità rallentano l’andamento della malattia e, talvolta, ne inducono la regressione (ad esempio, normalizzando ll’escrezione urinaria di albumina). Dati recenti inoltre sembrano suggerire che il buon controllo metabolico esercita sempre e comunque un effetto protettivo sul rene, anche se intrapreso tardivamente. Insomma, per la salute del rene, bisogna controllare in maniera molto attenta la glicemia, e sarebbe bene farlo da subito, ma non è mai troppo tardi! Il controllo della pressione arteriosa è altrettanto importante, va instaurato il più precocemente possibile e va mantenuto nel tempo, senza abbassare mai la guardia, pena la vanificazione dei benefici ottenuti. Convincenti evidenze scientifiche prodotte negli ultimi anni dimostrano anche l’effetto positivo che un adeguato controllo del profilo lipidico (quindi anche dei trigliceridi, non solo del colesterolo) può esercitare sulla funzionalità renale. Ad esempio, il fenofibrato, un farmaco che abbassa soprattutto i trigliceridi, può ridurre l’albuminuria, rallentare la perdita del filtrato glomerulare e migliorare anche la retinopatia, un’altra temibile complicanza microangiopatica del diabete). Cosa fare, ancora, per proteggere i reni? Nonostante la messa in atto di un attento trattamento multifattoriale (volto, cioè, a controllare adeguatamente tutti i principali fattori di rischio cardiovascolare e di danno renale, che sostanzialmente sono gli stessi), la accurata correzione di glicemia, pressione, dislipidemia può non essere sufficiente per arrestare il danno ai reni. L’età media dei nostri pazienti è, per fortuna, in aumento, ma c’è bisogno di strategie alternative per ridurre ulteriormente il cosiddetto ‘rischio residuo’, e garantire nei prossimi anni una drastica riduzione dell’accesso alle dialisi, un risultato che non siamo ancora stati in grado di conseguire. Infatti, una recente analisi pubblicata due settimane fa sull’autorevole New England Journal of Medicine documenta come, nella popolazione statunitense, negli ultimi 20 anni, a fronte di una significativa riduzione della prevalenza di infarto miocardico e ictus, il numero di pazienti che vanno incontro nel tempo ad insufficienza renale terminale è ancora piuttosto elevato. Ciò giustifica lo sforzo che molti ricercatori stanno attualmente compiendo, volto a: 1) scoprire, con l’ausilio di tecniche modernissime di biologia molecolare quali la proteomica e la metabolomica, marcatori precoci di malattia che permettano di identificare i pazienti più a rischio di sviluppare danno renale severo, concentrando su questi i massimi sforzi al fine di raggiungere precocemente i target metabolici e pressori raccomandati; 2) mettere a punto nuove terapie. Strategie ‘difendi-reni’ ancora in fase di studio. Dati incoraggianti, emersi negli ultimi due anni e che giustificano gli ampi studi clinici ora in atto in migliaia di pazienti, riguardano l’utilizzo di derivati della vitamina D, che sembrano ridurre la escrezione urinaria di albumina; di fatto, è stato recentemente documentato come il deficit di vitamina D si associ ad una più alta incidenza di insufficienza renale terminale in pazienti con nefropatia diabetica. Qualora gli studi di supplementazione con la vitamina D attualmente in corso, dessero risultati positivi sulla riduzione o rallentamento del danno renale nelle persone con diabete avremmo un’arma in più da utilizzare per proteggere la salute dei reni. Altre possibilità interessanti, ma che richiedono ulteriori conferme in merito sia alla loro efficacia che alla sicurezza, e quindi sono – al momento –lontane da un possibile utilizzo nella pratica clinica, riguardano molecole che possono agire riducendo l’infiammazione, componente assai importante nel determinismo e nella accelerazione del danno renale in corso di diabete: tra queste, alcuni regolatori dello stress ossidativo quali i derivati della pentossifillina; gli antagonisti selettivi del recettore A della endotelina; i modulatori del Vascular Endothelial Growth Factor- A (Vegf-a), un fattore di crescita regolatore della permeabilità vascolare che svolge un ruolo importante anche nello sviluppo della retinopatia.  
   
   
GLI ITALIANI ‘PENSANO’ DI CONOSCERE IL DIABETE “MA NON SENTENDOSI A RISCHIO NON FANNO PREVENZIONE”  
 
Bologna, 3 giugno 2014 – Quando si parla di diabete, la gente, in generale è convinta di sapere di cosa si tratti; questa patologia viene facilmente accostata nell’immaginario collettivo al ‘mangiare’ (in particolare ad un’errata alimentazione o all’obesità), alla mancanza di attività fisica e alla familiarità. Il 90% degli italiani la giudica una malattia grave (molto grave per il 24%), non “guaribile” ma controllabile (si può controllare ma non guarire per il 70% degli italiani). In termini di gravità, gli intervistati la posizionano al quinto posto, dopo tumori, ictus, infarto e Alzheimer mentre, fra le patologie croniche, viene messa al secondo posto, dopo l’epatite e prima dell’insufficienza renale e della bronchite cronica. Eppure, quello che manca totalmente, nella messa a fuoco del problema da parte delle persone, è la percezione del rischio diabete riferito a se stessi: · Oltre il 90% degli italiani non si considera a rischio (mentre in realtà oltre un terzo è a rischio!) e ben il 70% di chi è ad alto rischio non si sente tale! · oltre la metà dichiara di non fare nulla per prevenire il diabete o altri problemi di salute, · non si fa nulla perché non ci si considera a rischio, si nega il problema e si considera la prevenzione inefficace: fra le persone ad alto rischio prevale il fatalismo (non ci voglio pensare) e la difficoltà a modificare il proprio stile di vita. “Solo il 3% degli intervistati – sottolinea il professor Stefano Del Prato, Presidente della Società Italiana di Diabetologia – si considera a rischio di diabete; un dato questo già stridente con la prevalenza di questa condizione nella popolazione italiana, stimata intorno al 6,2% della popolazione. Ma il dato ancora più inquietante è che il 70% delle persone a più elevato rischio* di diabete, non fa nulla per ridurre questo rischio, come se ignorasse totalmente il problema. In particolare, dalle interviste, emerge che la fascia a maggior rischio, percepisce meno l’alimentazione come elemento impattante sul rischio, mentre riconosce un chiaro ruolo in tal senso ad alcol e fumo”. “Questo studio – spiega la dottoressa Isabella Cecchini, Direttore Dipartimento Ricerche sulla Salute – Gfk Eurisko - ha indagato le conoscenze della malattia, i vissuti e i comportamenti di prevenzione, su un campione di 1100 casi, rappresentativi della popolazione italiana maggiorenne. Circa 3,6 milioni di italiani (il 6,2%) soffrono di diabete, circa 6 milioni (10%) sono ad alto rischio, 15 milioni sono a rischio modesto . A maggior rischio sono le donne (65% delle persone a rischio sono donne), in particolare quelle con bassa scolarità (75% ha un titolo di studio elementare-media inferiore)”. Dalle risposte degli intervistati emerge anche l’idea che il diabete sia una malattia fatta e finita in se stessa e non un fattore di rischio importante per altre condizioni quali infarto, ictus, tumori, malattie renali. “E la conseguenza inevitabile di tutto ciò – sottolinea il professor Del Prato – è che non sentendosi a rischio, non pensandoci, la gente non fa neppure prevenzione”. I pochi che hanno invece la percezione di essere a rischio diabete (come visto, meno di 1 su tre di quello a più alto rischio), mettono in atto misure di prevenzione soprattutto attraverso l’alimentazione (a rispondere così è l’80% degli intervistati), mentre dall’indagine emerge che le persone più a rischio di diabete, sono paradossalmente quelle che fanno meno attività fisica. Alla domanda ‘perché non fanno prevenzione’, hanno risposto ‘perché non ci voglio pensare’ il 40% dei giovani e il 32% degli anziani. Il 27% dice di non fare prevenzione perché non si sente a rischio e i restanti ammettono di non farla perché farebbero troppa fatica a cambiare lo stile di vita. Gli italiani intervistati sanno che i pilastri della prevenzione sono: seguire una dieta salutare, non ingrassare, fare movimento. Solo uno su 4 ritiene tuttavia che si tratti di misure efficaci (e solo il 31% di quelli appartenenti alla fascia ad alto rischio). ------ * Il grado di rischio è stato valutato in base ad alcuni parametri: sesso, età, familiarità, Bmi, circonferenza addominale, glicemia elevata, ipertensione, stili alimentari (consumo di frutta e verdura), attività fisica “E’ un po’ la ‘strategia dello struzzo’ – commenta il professor Del Prato - quanto più si è a rischio, tanto più si nega l’esistenza del problema. E’ dunque fondamentale trovare nuove parole e nuovi strumenti per far arrivare alle persone un corretto messaggio di prevenzione e per aumentare la consapevolezza relativa al rischio personale di sviluppare il diabete e quella delle complicanze che il diabete può provocare. I risultati di questa indagine sono per molti versi scioccanti per noi addetti ai lavori; ci rendiamo conto che in tutti questi anni abbiamo sparato contro un vetro anti-proiettile; i nostri messaggi di invito alla prevenzione non sono arrivati a destinazione. O solo parzialmente”. Volendo vedere il bicchiere ‘mezzo pieno’ infine, a fronte di questa generale tendenza alla negazione del rischio sul piano personale, c’è invece una grande sete di informazione. La gente in particolare sembra interessata a sapere cosa fare per prevenire il diabete (66%), ma anche a scoprire quali ne sono le cause (46%) e le conseguenze (41%). Ed è dal medico di famiglia (56%) che ci si aspetta un’informazione utile ed efficace; ma per il 38% degli intervistati anche i mass media (quotidiani/giornali, Tv, radio) e internet (22%) rappresentano fonti preziose di informazioni. “Alla luce di questi risultati – conclude il professor Stefano Del Prato – riteniamo dunque urgente mettere in atto campagne di sensibilizzazione ed educazione, che aiutino le persone a prendere coscienza del rischio di sviluppare il diabete e delle complicanze di questa condizione, ma che allo stesso tempo propongano modelli di comportamento efficaci. E soprattutto attuabili nella quotidianità della vita lavorativa e nelle grandi città, dove gli spazi a disposizione per l’attività fisica spesso sono carenti.”  
   
   
LA FOTOGRAFIA DEL DIABETE NEL VENETO  
 
Bologna, 3 giugno 2014 – L’osservatorio Arno Diabete, frutto di un partenariato fra il Cineca e la Società Italiana di Diabetologia, fornisce periodicamente dati preziosi per quantificare il peso economico e sociale del diabete in Italia e in alcune realtà regionali: presenta dati riguardanti la prevalenza della malattia, caratteri demografici delle persone affette da diabete, nonché informazioni dettagliate sui ricoveri ospedalieri e sulle prescrizioni di farmaci, dispositivi (es. Strisce per la glicemia) ed esami diagnostici. Grazie a questi dati è possibile avere un’idea precisa dei costi della malattia e delle varie voci di spesa, cosa che consente una più efficace e mirata programmazione sanitaria. “Abbiamo partecipato con impegno ed entusiasmo all’analisi dei dati disponibili nell’Osservatorio Arno Diabete – commenta il prof. Enzo Bonora, presidente eletto della Società Italiana di Diabetologia – perché riteniamo che forniscano informazioni preziose su dove migliorare e che siano fondamentali per razionalizzare ed ottimizzare i percorsi assistenziali e per meglio allocare le risorse umane ed economiche nell’interesse della collettività e, in particolare, delle persone con diabete”. Questi i principali dati desumibili dal Rapporto Arno Diabete Veneto 2013: 1. I residenti del Veneto identificati come diabetici dalle varie fonti utilizzate (farmaci, esenzioni ticket, ricoveri) sono circa 275 mila, con una prevalenza del 5,6% sui circa 5 milioni di abitanti della Regione. Questa prevalenza, pur essendo più bassa rispetto a quella dell’intero Paese (pari al 6,2%), è del 70% superiore a quella del 1997. Il 60% dei diabetici ha un’età pari o superiore a 65 anni, il 3% ha meno di 35 anni e meno dell’1% ha un’età inferiore a 20 anni. Ciò significa che, sebbene più frequente nelle fasce di popolazione più avanti con gli anni, 100 mila soggetti con diabete nel Veneto non sono anziani o addirittura si trovano nel pieno dell’età lavorativa. 2. Il 92% dei diabetici riceve almeno una prescrizione di un farmaco per il diabete o per altre patologie. Il numero di confezioni di farmaco prescritte ai diabetici è più che doppio rispetto ai non diabetici (67 contro 31). Circa il 91% dei diabetici riceve almeno una prestazione specialistica (visita o esame di laboratorio o strumentale). Anche le prestazioni prescritte ai diabetici sono quasi doppie rispetto ai non diabetici (34 contro 19 ogni anno). Circa un diabetico ogni cinque viene ricoverato almeno una volta nell’anno e i ricoveri nei diabetici rappresentano il 16% di tutti i ricoveri ordinari della Regione. Le persone con diabete ricoverate nell’85% dei casi effettuano almeno un ricovero ordinario e nel 22% dei casi almeno un ricovero in regime di Day Hospital. “Sono dati questi – commenta il prof. Enzo Bonora - che danno una chiara indicazione del peso enorme che la malattia comporta per le persone affette, per le loro famiglie e per il Servizio Sanitario Regionale e Nazionale”. 3. Il tasso di ricovero è circa doppio nei diabetici rispetto ai non diabetici (354 contro 184 per mille persone/anno) e il numero medio annuo di ricoveri ordinari nei diabetici è di 1.6 rispetto a 1.4 nei non diabetici. La degenza media è superiore nei diabetici di circa un giorno e mezzo (13.3 contro 11.9). Da notare che solo in una piccola percentuale di casi (circa 4%) il ricovero è dettato dallo scompenso del diabete mentre in circa un terzo dei casi esso è legato a problemi cardiovascolari. Quasi tutte le patologie, tuttavia, generano più ricoveri nei diabetici che nei non diabetici. “Questi dati – conferma il prof. Bonora – consolidano il concetto che il diabete è una malattia sistemica che interessa tutti gli organi e apparati. La valutazione degli esiti deve far riflettere sul fatto che nei soggetti con diabete ancora troppo spesso si sviluppano delle complicanze, in particolare cardiovascolari. Va sottolineato tuttavia che i pazienti veneti hanno numeri di gran lunga migliori della media nazionale e che solo un’esigua minoranza di pazienti viene ricoverata per diabete scompensato”. 4. Il costo complessivo della cura e degli esami è più che doppio nei diabetici rispetto ai non diabetici (circa 2.800 rispetto a circa 1.300 euro). La composizione della spesa per poco più della metà (53%) è da riferire ai ricoveri, per il 15% alla specialistica (esami, visite, ecc.), per il 20% ai farmaci diversi dagli antidiabetici, per il 7% ai farmaci antidiabetici e per il 6% ai dispositivi. 5. I farmaci utilizzati. Gran parte dei pazienti sono trattati con antidiabetici diversi dall’insulina, orali o iniettabili; il 30% assume insulina (da sola o in associazione con altri farmaci). In accordo con le linee guida correnti, la metformina (da sola o in associazione con altri farmaci) è il farmaco più usato per il trattamento del diabete (quasi l’80% dei soggetti); le sulfoniluree (da sole o in associazione con altri farmaci) sono usate nel 40% dei casi e la repaglinide nel 10% dei casi. I glitazoni sono usati in poco più del 5% dei casi, l’acarbosio in meno del 2% e le incretine in meno del 10% dei soggetti (inibitori Dpp-4 nel 7% dei casi e agonisti recettore Glp-1 nell’1,5% dei casi). “Alla luce delle più recenti raccomandazioni delle società scientifiche e delle caratteristiche della popolazione in esame (molti anziani, anche ultraottantenni, con più e associate e dunque ‘fragili’) – commenta il professor Enzo Bonora – questo uso ancora così abbondante di sulfoniluree e repaglinidi merita una approfondita riflessione”. Gli analoghi dell’insulina rendono conto del 50% della spesa per tutti gli antidiabetici, le insuline Dna-ricombinanti contribuiscono per meno del 4% e i nuovi antidiabetici (incretine) per il 15%. 6. Il trattamento dei fattori di rischio concomitanti. L’80% dei diabetici è iperteso, ma ad essere tratto con antipertensivi è solo il 71%. Solo il 47% è trattato con farmaci per il colesterolo e solo il 40% con antiaggreganti piastrinici. “Sono numeri molto più bassi di quelli attesi – commenta il prof. Bonora – soprattutto in considerazione del fatto che le persone con diabete rappresentano una categoria ad elevato rischio di malattie cardiovascolari”. 7. L’automonitoraggio del diabete. I soggetti che fanno uso di dispositivi (aghi per penne o siringhe, lancette pungidito e strisce per la misurazione della glicemia) sono circa 150 mila, cioè poco più della metà del totale. “E’ una percentuale decisamente bassa – commenta il prof. Bonora – considerando che il 30% è in trattamento insulinico e che il 50% assume secretagoghi (sulfoniluree o repaglinide), farmaci che possono causare crisi di ipoglicemia, un evento spesso asintomatico o paucisintomatico, benché pericoloso, e che solo un attento e regolare automonitoraggio glicemico domiciliare può rivelare”. 8. In considerazione della spesa pro capite e del numero dei diabetici, il costo complessivo del monitoraggio e della cura del diabete nel Veneto è calcolato in quasi 800 milioni di euro. Questa somma in realtà sottostima di circa il 30% la spesa reale perché è definita dalle tariffe e dal sistema dei Drg. Considerando che i ricoveri ordinari sono circa 80 mila, che la degenza media è 13.3 giorni e che la giornata di degenza costa in media 750 euro, la voce della spesa per i ricoveri ammonta nella realtà a quasi 800 milioni di euro. Sommando a questi la spesa per i farmaci (circa 200 milioni di euro), quella per i dispositivi (circa 50 milioni di euro) e per la specialistica (circa 110 milioni di euro) il costo reale diventa quasi 1.200 milioni di euro. All’interno di questa somma i ricoveri pesano per il 66%. Sommando la spesa per i farmaci diversi dagli antidiabetici e considerando che il costo degli esami di laboratorio specifici per il diabete e delle visite diabetologiche non rappresenta che una piccola parte della specialistica (1-2%), il costo attribuibile alle complicanze e alle comorbidità rappresenta più del 90% del costo della malattia. “Nel complesso i dati dell’Osservatorio Arno Diabete Veneto, accanto a quelli desumibili dagli archivi del Servizio Epidemiologico Regionale e dai database dei diabetologi e dei medici dei medicina generale – commenta il prof. Bonora – forniscono una chiara indicazione del peso enorme che questa malattia comporta per le persone affette, le loro famiglie e il Servizio Sanitario Regionale e Nazionale”.  
   
   
DIABETE: ALLA SCOPERTA DI NUOVI BERSAGLI TERAPEUTICI  
 
Bologna, 3 giugno 2014 – L’espressione genica è la trascrizione sotto forma di ‘proteine’ di tutti quei geni, che contengono informazioni fondamentali per il funzionamento delle cellule stesse. Fino a qualche anno fa si sapeva solo che l’espressione genica fosse determinata dal Dna, che veniva trascritto in Rna e quindi tradotto in proteine, che rappresentano la controparte funzionale dell’informazione genetica. Negli ultimi anni invece è stato osservato che le cose non sono così semplici. Altri regolatori si inseriscono nel determinare l’espressione di geni specifici all’interno delle cellule del nostro organismo. Due di questi, sono i microRna e le sirtuine. I microRna sono delle piccole molecole che si trovano all’interno delle cellule e sono prodotte dalle cellule stesse; il loro compito consiste nel regolare ulteriormente l’espressione di geni specifici. Anche le sirtuine sono dei regolatori ma agiscono a livello di specifiche proteine, andandone a modulare l’attività. Nell’ambito del diabete, sia microRna, che sirtuine sono coinvolte nel funzionamento della beta-cellula, le cellule pancreatiche deputate alla produzione di insulina. I microRna possono alterare sensibilmente il funzionamento delle beta-cellule, ma di recente è stato dimostrato che è possibile modulare anche queste molecole. In caso di riscontro di un’alterazione di tali molecole, dunque, almeno in teoria, si potrebbe intervenire, modificandone i livelli all’interno delle cellule stesse. Per questo, i microRna possono essere designati come nuovi bersagli terapeutici. Anche le sirtuine sono protagoniste della ricerca degli ultimi anni perché al centro dei meccanismi di senescenza delle cellule; è stato osservato che un aumento delle sirtuine all’interno delle cellule, prolunga in generale la vita stessa delle cellule. Per quanto riguarda più nello specifico il diabete, sono stati individuati diversi microRna coinvolti nella funzione beta-cellulare. Uno di questi è il mir-124a, che, all’interno delle beta-cellule, è in grado di bloccare la secrezione insulinica, perché va ad inibire l’espressione di geni che intervengono nel processo di secrezione dell’insulina. A conferma di questo, si è osservato che il mir-124a è più espresso nelle cellule beta provenienti da pazienti con diabete di tipo 2. In questo senso il mir-124a viene ipotizzato come bersaglio terapeutico, da poter ‘sopprimere’ in caso di elevata presenza all’interno delle cellule produttrici di insulina. Per fare questo, essendo i microRna delle piccole sequenze di Rna, si potrebbero utilizzare delle sequenze complementari ed opposte a questi microRna, al fine di neutralizzarli. Ma non sappiamo ancora come ‘bersagliare’ con precisione la cellula beta pancreatica. I vettori (cioè i ‘veicoli’ che trasportino all’interno delle cellule beta queste ‘molecole neutralizzanti’) possono essere diversi: da vettori virali, a particelle lipidiche (liposomi) contenenti al loro interno questi microRna ‘neutralizzanti’. Ancora non siamo riusciti però a mirare in maniera specifica alle sole cellule portatrici di questi mircoRna alterati. I microRna infine hanno un futuro anche sul fronte della diagnosi. Essendo secreti dalle cellule, possono essere ritrovati e misurati nei fluidi biologici, tra cui il siero (sangue). In questo senso, possono pertanto rappresentare anche dei validi biomarcatori, sia della predizione dell´insorgenza del diabete, che del "follow up" del paziente diabetico. Il diabete è stato sinora diagnosticato sulla base dell’alterazione della glicemia – commenta il Prof. Stefano Del Prato, Presidente della Società Italiana di Diabetologia. Ma lo specialista diabetologico guarda con sempre maggiore attenzione alla possibilità di avere nuovi strumenti diagnostici che non identifichino solo l’alterazione metabolica ma guidino nella identificazione del meccanismo alla base di quella alterazione. I microRna, la metabolomica, la proteomica e la genomica potrebbero presto permetterci di identificare gli specifici meccanismi responsabili del diabete nello specifico individuo fornendo la base di una terapia completamente personalizzata”  
   
   
ARRIVANO LE NUOVE LINEE GUIDA ITALIANA PER LA DIAGNOSI E LA TERAPIA DEL DIABETE  
 
Bologna, 3 giugno 2014 – La terza edizione degli ‘Standard italiani per la Cura del Diabete Mellito’ sarà presentata nel corso del congresso della Società Italiana di Diabetologia. Non saranno più disponibili in edizione cartacea, ma solo in formato elettronico, su sito web dedicato e quindi di ancor più semplice consultazione. Tra le novità la personalizzazione degli obiettivi per l’emoglobina glicata,, i nuovi obiettivi del trattamento della pressione arteriosa, le nuove terapie e i nuovi aspetti della nefropatia diabetica, scoperti da Riace, uno studio tutto italiano sostenuto da Sid e recepiti nella nuova edizione delle linee guida. L’occasione per il ‘lancio’ sarà rappresentata dal Congresso Nazionale della Società Italiana di Diabetologia. “Questa edizione degli Standard – spiega la dottoressa Simona Frontoni, coordinatrice degli Standard per Sid (insieme a Tina Lapolla) e Responsabile Uoc Endocrinologia e Diabetologia dell’Ospedale Fatebenefratelli, Isola Tiberina, Roma - è nata dalla volontà di creare delle linee guida, che fossero calate nella realtà italiana e che si discostassero dalle linee guida americane, quelle dell’American Diabetes Association, che avevano ispirato la prima edizione del 2007. Già nell’edizione del 2010 avevamo cercato di dare una caratterizzazione, che tenesse fortemente conto della realtà italiana e che si è ulteriormente concretizzata negli Standard di quest’anno”. I capitoli che hanno visto un aggiornamento più evidente sono quelli della terapia del diabete tipo 2, essendo state considerate tutte le nuove molecole entrate in commercio a partire dal 2010. Novità anche nei capitoli relativi alle complicanze del diabete e ai target di terapia dei fattori di rischio. I target di pressione arteriosa, ad esempio, passano da 130 per la massima (pressione sistolica) e 80 per la minima (pressione diastolica), a 140 e 80, rispettivamente. Questa revisione è dettata dai risultati degli ultimi studi pubblicati in materia che hanno dimostrato che, scendere sotto 140 mmHg di massima, non comporta alcun vantaggio, anzi, quando si scenda molto al di sotto di questi valori, tendono ad aumentare gli eventi avversi inclusa la mortalità soprattutto nel caso del paziente anziano. Il target dell’emoglobina glicata è rimasto invariato, ma viene ulteriormente sottolineata la necessità di individualizzare gli obiettivi della terapia, a seconda che si parli di un giovane con un diabete di recente diagnosi o di anziano con tanti anni di diabete alle spalle e altre patologie associate. “In questo – afferma la dottoressa Frontoni – siamo stati dei precorritori, perché nei nostri standard del 2010 era già sottolineata questa necessità di differenziare i target di glicata, nelle varie popolazioni di pazienti”. Gli obiettivi di un buon trattamento del diabete sono dunque un’emoglobina glicata inferiore a 7% in generale; inferiore a 6,5% nel giovane con diabete appena diagnosticato e senza altre patologie associate; 8-8,5% nell’anziano fragile, con malattia di lunga durata e altre patologie associate o complicanze del diabete in fase avanzata. Gli obiettivi di glicemia a digiuno e prima dei pasti sono 70-130 mg/dl; quelli della glicemia 1 e 2 ore dopo un pasto sono <160 mg/dl. Invariati gli obiettivi di trattamento della dislipidemia: il colesterolo ‘cattivo’ o Ldl dovrebbe essere inferiore a 100 mg/dl o addirittura inferiore a 70 mg/dl in pazienti con pregressi eventi cardiovascolari o fattori di rischio multipli; il colesterolo ‘buono’ (Hdl) dovrebbe essere superiore a 40 nel maschio e superiore a 50 mg/dl nella femmina; i trigliceridi dovrebbero essere inferiori a 150 mg/dl. “Per quanto riguarda le complicanze renali del diabete – spiega la dottoressa Frontoni - sono stati recepiti i risultati dello studio Riace, che hanno dimostrato come tra le persone con diabete ce ne possa essere un numero rilevante di soggetti senza microalbuminuria ma con un filtrato glomerulare ridotto”. La microalbuminuria (Mau), un esame che che una persona con diabete dovrebbe periodicamente controllare per cogliere sin dalle prime fasi la comparsa di un danno renale, espressione di complicanza del diabete, in un gruppo di persone, può essere normale anche se la funzione renale è già alterata. “In altre parole – prosegue la dottoressa Frontoni – il diabetologo accorto non può accontentarsi di una microalbuminuria assente per concludere che quel paziente non abbia già un risentimento diabetico del rene. Al contrario, deve sempre verificare, in tutti, anche il filtrato glomerulare, tanto più che è possibile farlo con semplici formulette descritte negli Standard”. I nuovi standard, pertanto, raccomandano di calcolare sempre il valore del filtrato glomerulare, in tutte le persone con diabete, senza accontentarsi di verificare la presenza o meno di microalbuminuria”. Gli standard hanno particolare valore in quanto traggono forza di raccomandazione e livello di evidenza dall’accumularsi dei dati di letteratura. Tutte le volte che si accumula una quantità sufficiente di dati, soprattutto se pubblicati su giornali autorevoli, tali da modificare una raccomandazione o variarne il livello di forza e di evidenza, allora quella raccomandazione viene recepito dagli Standard a tutti gli effetti. Questa edizione degli Standard, la terza, non sarà più disponibile in formato cartaceo, ma solo elettronico e sarà consultabile su un sito interattivo online dedicato, che contiene oltre ai testi dei capitoli, anche una serie di link a riferimenti importanti, quali linee guida, review, metanalisi, documenti ufficiali, leggi, circolari, siti di organizzazioni. La pubblicazione online consentirà inoltre di apportare tempestivi aggiornamenti, non appena si rendano disponibili nuove evidenze scientifiche. “Gli Standard Italiani – commenta la dottoressa Frontoni - forniscono la testimonianza più valida dell’elevato grado di cultura e competenza della Diabetologia Italiana, che ancora una volta elabora un documento unitario e di estremo valore per una corretta gestione della pratica clinica quotidiana fornendo, nello stesso tempo, un solido riferimento per le amministrazioni e per le agenzie regolatorie. Gli Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito sono ormai da tempo riferimento per l’intera comunità diabetologica e medica, forti della collaborazione tra Società Italiana di Diabetologia (Sid) ed Associazione dei Medici Diabetologici (Amd)”. Questa terza edizione degli Standard di Cura – commenta il Prof. Stefano Del Prato, Presidente della Società Italiana di Diabetologia – rappresenta il segno di un’ulteriore crescita della maturità della comunità diabetologica italiana che lavorato in modo intenso, competente e indipendente. C’è da augurarsi che oltre all’apprezzamento del diabetologo clinico che troverà negli Standard lo strumento più solido per guidare le proprie scelte diagnostiche e terapeutiche possa anche essere acquisito come documento di riferimento dalle agenzie centrali come Aifa così come da quelle regionali nello svolgimenti del loro lavoro di analisi dei processi di rimborsabilità anche e soprattutto dei nuovi farmaci.  
   
   
QUANDO LA TERAPIA DEL DIABETE È ‘TECHNO’  
 
Bologna, 3 giugno 2014 – Il microinfusore è stato un passo importantissimo per la terapia del diabete. E’ uno strumento che ‘copia’ la secrezione del pancreas, somministrando insulina secondo due modalità: una continua (infusione basale), ed una “a domanda” (boli insulinici) per coprire il fabbisogno insulinico legato ai pasti o per correggere eventuali iperglicemie. Con il microinfusore viene utilizzata solo insulina ad azione rapida, il cui assorbimento a livello del tessuto sottocutaneo è molto più riproducibile di quello dell’insulina ad azione ritardata, garantendo così una minore fluttuazione glicemica. Negli anni questo strumento si è evoluto, non solo perché è diventato più piccolo, ma anche perché è diventato intelligente; ad esempio, il microinfusore ‘aiuta’ il paziente a decidere quanta insulina somministrare ai pasti, varia l’infusione nelle 24 ore a seconda del fabbisogno del paziente e così via. Il microinfusore, però, non fa ancora tutto da sé. Va guidato, va pre-impostato. Però, il microinfusore, per il paziente “ben selezionato” (o “adatto”), è il gold standard della terapia. Negli ultimi anni, la possibilità di integrare o associare al micro-infusore un sensore in grado di ‘leggere’ continuamente la glicemia, ha fatto fare un balzo in avanti a questa tecnologia. Se il paziente è in grado di vedere l’andamento della glicemia, è avvertito da allarmi e può interagire con l’infusione di insulina erogata dal microinfusore, può gestire meglio la sua malattia in funzione delle necessità quotidiane (sport, lavoro, studio, variazioni della dieta…) Moltissimi studi hanno dimostrato che il microinsufore collegato al sensore è più efficace rispetto alla terapia con il solo microinfusore e molto di più rispetto alla terapia multi-iniettiva (le 4 iniezioni di insulina giornaliere, tradizionali) nel migliorare il controllo glicemico. Questa opportunità è tanto maggiore quanto più la persona con diabete ‘indossi’ il sensore e impari a gestire bene tutte le informazioni che riceve. Infatti, per essere efficace il sensore va portato almeno il 70% del tempo. Gli studi hanno dimostrato che questa tecnologia migliora il controllo glicemico (cioè riduce l’emoglobina glicata), senza aumentare gli episodi di ipoglicemia, che, almeno in qualche studio, sono risultati ridotti. In effetti il sensore, grazie a particolari allarmi, offre al paziente la possibilità di ridurre/evitare l’ipoglicemia. Purtroppo, nonostante gli allarmi, non sempre i pazienti reagiscono in modo appropriato. In soccorso a questo problema è è quindi intervenuta una particolare funzione nota come Lgs (low glucose suspend). Questa funzione, per il momento disponibile in un solo microinfusore, determina l’interruzione automatica dell’infusione di insulina basale per 2 ore nel caso in cui la glicemia scenda al di sotto di un valore soglia prestabilito e nel caso paziente non intervenga. Questa funzione potrebbe essere particolarmente utile per le ipoglicemie notturne e nei bambini. Coniugare lettura della glicemia, infusione di insulina e sospensione automatica dell’erogazione di insulina in caso di ipoglicemia rappresenta un ovvio primo passo verso il pancreas artificiale. Questo microinfusore ‘intelligente’ è stato disponibile nel nostro Paese prima ancora che negli Usa, dove è stato approvato solo lo scorso anno dall’Fda ma è stato subito accolto come una delle invenzioni più importanti del 2013. La rivista ‘Time’ dello scorso novembre lo ha indicato come la seconda scoperta più importante dell’anno, su una lista di 25. Ma si è andati anche oltre. La funzione Lgs interrompe l’erogazione di insulina, quando la glicemia scende sotto una soglia prestabilita, ad esempio 70 mg/dl. Suona l’allarme, per avvisare del superamento della soglia, ma di fatto l’ipoglicemia non è prevenuta. La funzione allarme e la sospensione dell’erogazione di insulina, infatti, scattano quando l’ipoglicemia si è verificata. Adesso si sta lavorando alla messa a punto di una nuova funzione, più sofisticata, la Predictive Low Glucose Suspend (Plgs), per cui, oltre alla funzione automatica di sospensione, c’è un algoritmo capace di ‘predire’, in base all’andamento della glicemia, il rischio che la glicemia continui a caderefino a raggiungere, nei successivi 30 minuti, un valore francamente ipoglicemico. In base a questa predizione, il microinfusore interrompe l’infusione prima di raggiungere la soglia di ipoglicemia. Ma non siamo ancora al pancreas artificiale. Per pancreas artificiale si intende qualcosa che sia in grado di stabilire, in modo autonomo e automatico, sulla base delle letture in continuo della glicemia fatte dal sensore, la quantità di insulina da erogare senza intervento della persona diabetica. Un pancreas artificiale si compone di tre elementi: un sensore per la lettura in continuo della glicemia, un algoritmo di controllo che riproduce la funzione della cellula beta del pancreas che, nel diabete tipo 1 è deficitaria e un microinfusore per l’erogazione di insulina. Ci sono vari prototipi di pancreas artificiale e in occasione del 25° Congresso Nazionale Sid presenteremo quello che messo a punto a Padova, composto da un microinfusore, un sensore e un cellulare, privato delle funzioni di telefono ma contenente l’algoritmo matematico (frutto del lavoro di bioingegneri di Padova e Pavia, coordinati dai Proff. Cobelli e Magni rispettivamente) e connesso, senza fili, agli altri strumenti. Fino a pochi mesi fa, l’algoritmo era contenuto in un computer portatile, che veniva utilizzato negli studi sperimentali posizionandolo ai piedi del letto del paziente, ma che difficilmente poteva essere impiegato nelle condizioni di vita quotidiana. Questa fase è stata ora superata grazie alla collaborazione di vari esperti ha permesso di creare l’attuale “pancreas artificiale miniaturizzato portatile”. Nello specifico, la misura della glicemia fatta dal sensore viene trasmessa all’algoritmo di controllo contenuto nel ‘cellulare’ che elabora i dati e, sulla base di questi, ordina al microinfusore quanta insulina infondere per mantenere la glicemia in un intervallo prossimo alla normalità. L’algoritmo è definito di tipo ‘predittivo’ cioè capace di prevedere, sulla base dei dati a disposizione, l’andamento della glicemia nel futuro immediato e quindi di scegliere la quantità di insulina da inforndere per mantenere la glicemia nell’intervallo di quasi-normalità. L’algoritmo riceve una lettura della glicemia fatta ogni 5 minuti e ogni 5 minuti l’algoritmo decide se confermare o modificare l’infusione di insulina precedentemente suggerita. Il sistema funziona un po’ come un giocatore di scacchi che ha una strategia iniziale che però adatta in base alle mosse dell’avversario decidendo se proseguirla, modificarla o cambiarla. I risultati che verranno presentati a Bologna sono il risultato del lavoro eseguito nell’ambito di un progetto finanziato dalla Comunità Europea e che vede la partecipazione della Università di Montpellier inFrancia, e di Amsterdam in Olanda oltre che a gruppi di ricerca americani. Fino ad oggi l’impiego del pancreas artificiale non ha superato 1-2 giorni ma all’inizio di quest’anno è stato completato uno studio in persone con diabete tipo 1 che utilizzavano per 5 giorni microinfusore e sensore (sensor augmented pump) e per 5 giorni la sensor augmented pump, ma di notte ricorrevano al pancreas artificiale. In questa sperimentazione di giorno era la persona diabetica a “governare” l’infusione di insulina mentre di notte questa dipendeva dall’algoritmo. Come in precedenti studi, si è visto che il pancreas artificiale riduceva le ipoglicemie notturne e migliorava la glicemia media grazie a una migliore ripartizione delladose di insulina oltre a garantire valori glicemici al risveglio più fisiologici con una positiva ripercussione sui restanti valori della glicemia durante la giornata. Sulla scorta di questi dati incoragianti, con i primi di giugno verrà avviato uno studio che coinvolgerà i gruppi di Padova, Amsterdam e Montpellier, nel quale alcuni pazienti utilizzeranno il pancreas artificiale a casa di notte per due mesi. Molti sono i ricercatori nel mondo impegnati a sviluppare un pancreas artificiale che, al momento, è in una fase di sviluppo superiore a quello delle cellule staminali. In Italia è coinvolto in queste ricerche il solo gruppo di Padova composto da un’èquipe medica diretta dal professor Avogaro e da un’èquipe di bioingegneri diretta dal Professor Cobelli. L’abbandono delle iniezioni e delle misurazioni ripetute della glicemia nel corso della giornata rimangono una delle grandi speranze di tante persone con diabete tipo 1 e delle loro famiglie – commenta il prof. Stefano Del Prato, Presidente della Società Italiana di Diabetologia. Il pancreas artificiale è una strada intrapresa ormai molti decenni fa ma che ora vede avvicinarsi a velocità sempre maggiore la possibilità di un impiego clinico. E’ orgoglio della comunità diabetologica italiana e della Società Italiana di Diabetologia che un contributo sostanziale a questo affascinante sviluppo avvenga proprio ad opera dei nostro ricercatori e clinici,  
   
   
ALLA RICERCA DI UN’AUTO-TERAPIA DEL DIABETE  
 
Bologna, 3 maggio 2014 – Rigenerare le cellule beta, nel pancreas di un paziente affetto da diabete, rappresenta il sogno della medicina rigenerativa, ancora confinato nel futuro. Tra le varie linee di ricerca che si muovono in questo senso, promettente è quella della cosiddetta ‘trans-differenziazione’ cellulare. Con una nostra precedente ricerca abbiamo dimostrato che alcune cellule del pancreas sono in grado di trasformarsi da cellule che producono glucagone (cellule alfa) a cellule che producono insulina (cellule beta). Ovvio che questo potrebbe essere un mezzo per difendersi dall’insorgenza di diabete. Il principale meccanismo alla base di questo tipo di trasformazione sembra essere la perdita nelle cellule beta di un parametro che si chiama gluco-sensibilità (che significa come la cellula che produce insulina risponde allo stimolo del glucosio). La perdita di gluco-sensibilità da parte delle cellule beta attiva questo meccanismo di trasformazione delle cellule alfa, produttrici di glucagone, in cellule beta, produttrici di insulina. Questa scoperta è scaturita da unostudio, effettuato su pazienti non diabetici, sottoposti ad intervento di rimozione di una parte del pancreas, per un tumore della papilla di Vater. Alcuni di questi pazienti dopo l’intervento hanno sviluppato diabete mellito, altri no, pur avendo in alcuni casi una condizione predisponente al diabete (la cosiddetta insulino-resistenza). Confrontando le persone più insulino-resistenti, e comunque in grado di produrre una quantità di insulina in grado di mantenere un normale livello di glicemia, con le persone con normale sensibilità all’insulina, abbiamo potuto scoprire quale era il meccanismo che consentiva di produrre questa maggiore quantità di insulina. Attraverso lo studio del pezzo operatorio (cioè della porzione di pancreas asportata con l’intervento chirurgico) abbiamo quindi valutato la situazione delle cellule, all’interno delle insule pancreatiche. In uno studio pubblicato qualche mese fa, avevamo dimostrato che alcuni soggetti riescono a non sviluppare diabete, grazie alla capacità delle cellule produttrici di glucagone (le cellule alfa) di trasformarsi(trans-differenziarsi), in cellule produttrici insulina (cellule beta). Il fenomeno della trans-differenziazione spiega il modo in cui questi pazienti riescono a produrre più insulina, ma nonsapevamo ancora quale fosseil meccanismo in grado di indurre la trasformazione delle cellule da alfa, a beta. Con questa nuova ricerca, attraverso dei modelli matematici, sviluppati da Andrea Mari, bioingegnere dell’Università di Padova, siamo riusciti a scoprire che lo stimolo che porta a questa trans-differenziazione è la perdita della glucosio-sensibilità. Questo è un parametro, misurabile solo attraverso modelli matematici, attraverso il quale si riesce a misurare come le cellule beta produttrici di insulina rispondono allo stimolo del glucosio. Il primum movens della trans differenziazione sarebbe dunque la perdita di questa sensibilità al glucosio. Più le cellule beta preesistenti perdevano la gluco-sensibilità, tanto più si osservava questa trasformazione di cellule alfa in cellule beta. Quindi se riusciamo a capire quale meccanismo, all’interno della cellula beta, è il responsabile della perdita di gluco-sensibilità, con ogni probabilità riusciremo a riprodurre ‘artificialmente’ questo meccanismo nei pazienti o nelle persone a rischio di sviluppare diabete. E questo potrebbe rappresentare una nuova strategia di trattamento. “La ricerca del professor Giaccari, membro del Consiglio Direttivo di Sid – osserva il Prof. Stefano Del Prato, Presidente della Società Italiana di Diabetologia – apre spiragli nuovi non solo nei complessi meccanismi di comunicazione tra diversi tipi di cellule ma soprattutto fornendo spunti completamente nuovi per tentare di sopperire alla carenza di cellule produttrici di insulina caratteristica della condizione diabetica. Tra l’altro questa ricerca offre un tipico esempio di collaborazione virtuosa tra diversispecialisti: il fisiologo clinico, l’esperto di biologia molecolare e il bioingegnere”. Questo studio è stato realizzato in collaborazione con la scuola di chirurgia del Gemelli, che ci haconsentito di accedere ed esaminare il tessuto pancreatico di persone con vari gradi di tolleranza al glucosio. Grazie alla collaborazione con Andrea Mari di Padova abbiamo potuto scoprire che il trigger della trans differenziazione da cellula alfa a cellula beta e la perdita della gluco-sensibilità nelle cellule beta e questi risultati saranno presentato al prossimo congresso della Società Italiana di Diabetologia. Infine, all’inizio di giugno sarà a Roma il professor Rohit N. Kulkarni, presso il cui laboratorio al Joslin Diabetes Center, la dottoressa Teresa Mezza, coautrice di questo studio, ha esaminato i primi campioni. I dati saranno quindi presentati al Congresso dell’American Diabetes Association(ada), che si terrà a San Francisco dal 13 al 17 giugno.  
   
   
DIABETE DI TIPO 1 SI PUÒ PREVEDERLO CON LARGO ANTICIPO E FORSE IN FUTURO ANCHE ‘VACCINARSI’  
 
Bologna, 3 giugno 2014 – Il diabete di tipo 1 è caratterizzato dall’assoluta mancanza di insulina per la distruzione completa delle beta cellule pancreatiche, che sono deputate alla produzione di insulina. Colpisce la fascia di età giovanile, prevalentemente tra i 5 e 15 anni di età. A causa della distruzione delle beta cellule, a differenza del diabete di tipo 2 dell’adulto, l’unica terapia attualmente disponibile è la somministrazione di insulina mediante iniezione sottocutanea. Il diabete di tipo 1 è causato da un processo autoimmune che porta alla distruzione delle beta-cellule pancreatiche. Questo processo autoimmune può impiegare mesi o anni prima di determinare la comparsa del diabete. L’esordio del diabete di tipo 1 è spesso acuto (la chetoacidosi diabetica) con un quadro di gravissimo scompenso che può portare al coma. La Sardegna, insieme alla Finlandia, ha la più elevata incidenza di diabete di tipo 1 nella fascia di età 0-15 anni. Rispetto alle altre regioni italiane, l’incidenza è 4-5 volte più elevata. Una possibile spiegazione di questa incidenza così elevata risiede nell’isolamento della popolazione sarda che può avere favorito la selezione di fattori genetici in presenza di particolari fattori ambientali. Alla diagnosi, ma spesso anche mesi o anni prima, sono presenti degli autoanticorpi anti-insula pancreatica, che identificano la malattia. Nella pratica clinica l’identificazione di questi anticorpi permette di confermare la diagnosi di diabete tipo 1, ma questi anticorpi potrebbero essere utili anche per identificare soggetti che hanno già attivato il processo autoimmune ma non hanno ancora sviluppato la malattia. Gli autoanticorpi comunemente dosati nella pratica clinica sono gli anti-Gad, anti-Ia2 e anti-insulina. L’obiettivo della ricerca era di stabilire la prevalenza dei soggetti positivi per anticopri tra i familiari di primo grado con diabete di tipo 1, quando la glicemia era ancora normale per poterne seguire nel tempo l’evoluzione. La Sardegna, proprio per l’elevatissima incidenza, offriva le condizioni migliori per studiare il fenomeno. Sono state 160 le famiglie che abbiamo potuto valutare – dice il prof. Marco Baroni – al cui interno era presente un soggetto con diabete tipo 1. E’ stata riscontrata la presenza di questi anticorpi nel 12,7% dei familiari valutati; si tratta di una percentuale circa 4 volte superiore a quanto osservato in altre popolazioni Europee e 2-3 volte superiore aquanto osservato nelle popolazioni degli Usa”. 24 soggetti con anticorpi positivi, ma non diabetici, sono stati quindi seguiti per due anni.Di questi, 9 (quasi il 40%) sohannosvilupato diabete, mentre altri cominciano a presentarealterazioni della glicemia. Lostudio ha confermato quindi l’elevato rischio familiare di diabete di tipo 1 in Sardegna e fornito l’evidenza di come sia possibile identificare soggetti a rischio particolarmente elevato. Questo screening si basa su esami comunemente disponibili nella pratica clinica. “Va ricordato – commenta il Prof. Baroni – come la precoce identificazione dei soggetti a rischio permette di ridurre l’evenienza di un esordio acuto (chetoacidosi e coma), condizione talmente grave da rappresentare, nelle sue forme più estreme, un rischio di vita. “La possibilità di individuare soggetti a rischio - commenta il prof. Stefano Del Prato, presidente della Società Italiana di Diabetologia - può rivelarsi anche molto utile anche per verificare l’impatto di terapie per prevenire il diabete di tipo 1 o trattamenti atti a rallentare l’evoluzione della malattia tanto più che oggi risultati incoraggianti sono stati ottenuti con terapie di immuno-intervento.Una ‘vaccinazione’ con un antigene bersaglio dell’autoimmunità (Hs60) potrebbe fornire nuove speranze a quelle persone ad alto rischio in quanto familiari di primo grado”, un tema che sarà oggetto di discussione nell’ambito del Xxv Congresso della Società Italiana di Diabetologia.  
   
   
GRAZIE ALLA TELEMEDICINA L’ASSISTENZA DEL FUTURO DELLA PERSONA CON DIABETE  
 
 Bologna, 3 giugno 2014 – L’assistenza delle malattie croniche, anche di quelle complesse come il diabete, in futuro passerà inevitabilmente attraverso la telemedicina, se si vuole garantire la sostenibilità del sistema assistenziale. Ne è convinto il professor Stanton Newman neuropsicologo e preside della School of Health Sciences della City University di Londra, nel suo intervento al congresso della Società Italiana di Diabetologia in corso a Bologna. La telemedicina viene utilizzata per monitorare segni e sintomi in pazienti affetti da una patologia cronica o che siano in trattamento per una qualche malattia. Ne sono esempio il monitoraggio della pressione arteriosa o della glicemia o della frequenza cardiaca. Per farlo vengono utilizzati degli strumenti ‘attivi’, che richiedono cioè una partecipazione attiva da parte del paziente (o di un familiare) per inviare queste informazioni ad un centro d’ascolto specializzato. Quando la telemedicina funziona, queste informazioni vengono rinviate al paziente, dopo essere state analizzate da uno specialista, accompagnandole magari con la prescrizione di una modifica del dosaggio delle terapie in corso, con la richiesta di nuovi esami o con il consiglio di recarsi al più presto ad una visita di controllo in ospedale, qualora la situazione lo richieda. Nella cosiddetta tele-care vengono invece utilizzati dei device passivi, tipicamente dei sensori di movimento, per monitorare i movimenti di un individuo, in particolare quando si trova in casa. Le persone non devono fare nulla di particolare perché pensa a tutto il device che monitora i movimenti all’interno della casa e le eventuali anomalie registrate vengono inviate al centro di ascolto che se necessario fa scattare un allarme. La telecare può naturalmente essere associata alla telemedicina. Tra le varie patologie croniche, il diabete è probabilmente quella che è più immediatamente ‘calabile’ nella telemedicina; sono già stati messi a punto una serie di strumenti per monitorare la glicemia, ma anche la pressione arteriosa; e oggi è possibile fare una ‘tele-visita’ per esaminare un piede con un’ulcera o altri problemi. E’ inoltre possibile registrare giorno per giorno le glicemie del paziente, così da studiarne i trend in un determinato periodo di tempo e commentarli da remoto con i pazienti, per promuovere il loro empowerment nella gestione della malattia. La telemedicina consente anche infine di monitorare alcuni comportamenti come la dieta e l’esercizio fisico. Un sistema video consente anche di vedere cosa fanno le persone, per fornirgli dei feedback così da promuovere l’autogestione della malattia; un buon sistema di telemedicina dovrebbe infatti essere disegnato per garantire l’empowerment dei pazienti e non per esautorarli dalla gestione della malattia. Ma la gente è pronta ad accettare questa sorta di ‘grande fratello’ medico? Abbiamo dati che dimostrano che molte persone sono disposte ad accettarlo; solo ad una minoranza non piace, perché ritiene questo controllo continuo e serrato, anche se a distanza, li faccia sentire ed apparire ‘malati’; alcuni insomma – ma sono una minoranza – non amano questa invasione della privacy. Ma la stragrande maggioranza (85-90%) è decisamente favorevole ad accogliere questo tipo di device. Solo ad una condizione però: di vederne concretamente i benefici. Ma la telemedicina è molto più che un apparecchietto per il controllo della glicemia o della pressione; la cosa più complessa è tutta l’organizzazione da costruirgli intorno. È un intervento e un investimento in capitale umano che riguarda il modo in cui si offre e si riceve l’assistenza sanitaria. È una tecnologia dirompente che richiede di ridisegnare l’organizzazione dell’assistenza sanitaria per venire incontro ad un modello che utilizza la tecnologia. Per dare un’idea concreta di quello che sarà nel prossimo futuro la medicina, basti pensare a quello che è successo con i biglietti aerei; 20 anni fa, chiunque di noi sarebbe andato in un’agenzia di viaggi, magari in centro, per comprare un biglietto aereo cartaceo. Oggi, almeno il 95% della gente prenota ormai biglietti e il posto a sedere sul web. E a nessuno verrebbe più in mente di uscire di casa e perdere tempo a fare queste operazioni in agenzia. È un esempio di tecnologia dirompente. Questo tipo di tecnologia non ha ancora investito l’ambito dell’assistenza sanitaria, ancora ‘incartata’ in un mondo di carta. I device sono una parte della storia nel caso della telemedicina; molto più importante è come questi vengono integrati in un percorso di assistenza. Prima che tutto questo diventi realtà, è necessario cambiare le aspettative dei professionisti della salute e anche quelle dei pazienti. Ma è l’unico modo per modernizzare il sistema. Ritengo che nell’arco dei prossimi 5 anni assisteremo a questa rivoluzione, perché c’è un’enorme spinta verso l’adozione di queste soluzioni. I sistemi sanitari attuali non saranno più sostenibili a fronte dell’invecchiamento della popolazione e il modo in cui la gente si prenderà cura della propria salute, consisterà nel fornirgli delle informazioni che possano essere in grado di comprendere. Al momento per le patologie croniche ci basiamo su un sistema fisso di visite di controllo a distanza di mesi, fissate magari 6 mesi prima. Vedi il diabetologo e quello ti dice: è tutto Ok, puoi tornare tra 6 mesi. Ora tra 6 mesi può essere che vada ancora tutto bene, ma può anche darsi invece che tra 4 mesi le cose non vadano più tanto bene e che magari potrebbero andare subito meglio, ricevendo un consiglio qualificato dal medico. Cosa che oggi non può accadere perché sei costretto ad aspettare il tuo appuntamento già fissato in precedenza. Con la telemedicina, invece, il paziente può contattare in qualunque momento il proprio riferimento sanitario e avere un consulto video, attraverso un computer o smartphone e trovare immediatamente la risposta che cerca. E’ un sistema costo-efficace, non solo nell’ottica del sistema sanitario, ma anche e soprattutto di quello del paziente. La persona con diabete può contattare il medico, dal soggiorno di casa, commentare con lui il risultato dei suoi miei esami e sapere se va tutto bene, se deve magari aumentare le unità di insulina o se ha bisogno di fare una visita in ospedale. Poter fare tutto questo da casa, rappresenta un’enorme convenienza per il paziente. In questo modo in ospedale o in ambulatorio andranno solo le persone che hanno reale bisogno in un dato momento di vedere il medico; non quelle che arrivano perché avevano un appuntamento fissato 6 mesi prima e che non hanno invece bisogno di un controllo medico. Un visita in ospedale inutile che magari costa al paziente o al suo accompagnatore una giornata di lavoro persa; un’ora o due di anticamera, per poi vedere il medico appena 5 minuti. Questo sistema libera spazi per dare appuntamenti a pazienti che ne hanno realmente bisogno, abbattendo le liste d’attesa.  
   
   
DIABETE: VERSO LA ‘COSTRUZIONE’DI UN PANCREAS ARTIFICIALE,GRAZIE ALLA MEDICINA RIGENERATIVA  
 
Bologna, 3 giugno  2014 – Il diabete ha raggiunto ormai proporzioni pandemiche; basti pensare che solo negli Usa, il costo del trattamento di questa condizione ammonta a 240 miliardi di dollari l’anno, in pratica il Pil di un piccolo stato. Il diabete oggi può per fortuna contare su terapie molto efficaci, ma non perfette. Il modo ideale di trattare questa malattia sarebbe quello di sostituire l’organo malato, con un trapianto di pancreas, una sorta di pezzo di ricambio. “Ma questo trattamento, pur essendo straordinariamente efficace – spiega il professor Giuseppe Orlando, trapiantologo e ricercatore presso la Wake Forest University, tempio della medicina rigenerativa– può essere offerto solo ad alcuni pazienti, in ragione dell’estrema difficoltà tecnico-chirurgica, delle pesanti complicanze della terapia anti-rigetto e naturalmente dei costi”. In questo scenario, una nuova concreta speranza è offerta dalla medicina rigenerativa, un campo di ricerca di recente sviluppo, che ha dimostrato un potenziale immenso di rivoluzionare la cura non solo del diabete, ma della maggior parte delle malattie. Fra i protagonisti della ricerca in questo campo, ci sono molti ‘cervelli’ italiani, che lavorano sia in Italia, che all’estero, come appunto il professor Orlando. La medicina rigenerativa ha consentito finora di produrre piccoli organi artificiali, come vasi sanguigni, vescica, vie aeree (trachea), vagina, uretra. E ad oggi, oltre 200 pazienti sono stati trattati con questi organi ‘artificiali’. In ambito diabetologico, la medicina rigenerativa sta cercando di produrre un pancreas artificiale in miniatura, ingegnerizzato a partire dalle cellule del paziente stesso. Tre sono i possibili approcci alla bioingegnerizzazione degli organi: cellule staminali, biologia dello sviluppo, matrici extracellulari. “Nel caso delle cellule staminali – spiega il professor Orlando – sfruttiamo la loro capacità di generare cellule specifiche di un dato tessuto o organo. Ad oggi ci si limita ad iniettare cellule staminali in un distretto malato, nella speranza che esse rigenerino la parte lesa o danneggiata. L’approccio dello della ‘biologia dello sviluppo’ tenta invece di ricapitolare tutte le tappe dell’ontogenesi di un organo, attraverso stimoli di varia natura (molecolari, meccanici, termici, ecc.). In pratica si cerca di manipolare delle cellule staminali, al fine di indurne la differenziazione in un dato tessuto o organo. Infine, l’ultimo approccio, che al momento appare quello più promettente, utilizza delle strutture di supporto dette ‘scaffold’ (impalcature), nelle quali si ‘seminano’ delle cellule (staminali e non). Lo scaffold per eccellenza, quello ideale, è la matrice extracellulare degli organi e dei tessuti che viene prodotto in laboratorio per ‘decellularizzazione’, cioè eliminando la componente cellulare da un pezzo di tessuto, per conservarne e utilizzarne solo l’impalcatura. Questo è il metodo che ha consentito di produrre gli organi artificiali impiantati finora in 200 pazienti. Il grande vantaggio di un tessuto artificiale di questo tipo è che può essere trapiantato, senza dover somministrare al paziente una terapia anti-rigetto. Per quanto riguarda il pancreas, entro l’anno, dovremmo pubblicare i dati sulla matrice umana. Un importante passo avanti verso la creazione del pancreas artificiale, che non sarà però disponibile per la pratica clinica prima dei prossimi 5-10 anni”. “La speranza delle persone con diabete tipo 1 rimane quella di non dover più ricorrere alle iniezioni di insulina – commenta il prof. Stefano Del Prato, Presidente della Società Italiana di Diabetologia – Il trapianto di pancreas o quello di isole sono un’opportunità, ma non la soluzione. E comunque un’opportunità limitata dalla scarsa disponibilità di organi. Le cellule staminali non sembrano una soluzione del prossimo futuro. Al pancreas artificiale meccanico si guarda con grande interesse, ma quella che ci prospetta il Prof. Orlando è l’ingegneria applicata alla biologia, con la quale rigenerare un organo così importante come il pancreas endocrino. Al congresso Sid di Bologna si è avuta la dimostrazione di quanto attiva sia la ricerca italiana, in casa così come all’estero, per trovare una risposta alle speranze di tante persone con diabete”.  
   
   
MISE STUDIA SOLUZIONE MARCATURA CE A OCCHIALI VICARI RICEVE RAPPRESENTATI ANFAO E CERTOTTICA  
 
 Roma 3 giugno 2014 – Il Ministero dello Sviluppo economico scende in campo con l’obiettivo di fare chiarezza in un settore produttivo, come quello degli occhiali da vista e da sole, in cui l’Italia è leader nel mondo. In particolare, la questione sollevata da Anfao (Associazione Nazionale dei Fabbricanti di Articoli Ottici) e da Certottica riguarda il fatto che su alcune montature di occhiali (quelle particolarmente curve, di materiali speciali o di dimensione inferiore ai 5 mm) risulta difficoltoso riportare correttamente la marcatura Ce, così come previsto dalla direttiva europea, con il rischio che il consumatore possa essere indotto a ritenere di avere acquistato un prodotto non conforme ai requisiti di legge anche quando, in realtà, lo è a tutti gli effetti. Il Sottosegretario allo Sviluppo economico, Simona Vicari, ha pertanto avviato al Ministero un confronto con i produttori di occhiali e materiali ottici con l’obiettivo di arrivare quanto prima a una soluzione che, nel rispetto della norma che prevede la marcatura sulle aste, tenga conto del fatto che su alcuni prodotti questa operazione risulta difficoltosa. Una ipotesi emersa nel corso dell’incontro potrebbe essere quella di chiarire, sulla base di una ragionevole soluzione di compromesso, che nei casi in cui la marcatura sia difficilmente applicabile, e in cui potrebbe ritenersi non obbligatorio apporla anche sulla montatura dell´occhiale, potrebbero essere tollerabili minime incongruenze nella forma e nella proporzione della stesso marchio Ce, tenendo conto che nel caso delle montature da sole c’è l´obbligo di accompagnare l´occhiale con un documento, chiamato "nota informativa", completo della marcatura e di tutti i dettagli relativi all´articolo. Anfao e Certottica invieranno tempestivamente al Ministero, per gli opportuni approfondimenti, ulteriori informazioni su alcuni casi oggetto di indagine da parte degli organi di Vigilanza e, a medio termine, una proposta armonizzata a livello europeo per la verifica della marcatura. Per fare il punto della situazione, il prossimo 17 luglio il Sottosegretario Vicari sarà in visita a Certottica.  
   
   
LOMBARDIA.ROSA CAMUNA, ASSESSORE SALUTE: SODDISFATTO PER PREMIO A SCIENZIATI ´LIETO CHE PROPOSTA ASSESSORATO SIA STATA CONDIVISA´  
 
Milano, 3 giugno 2014 - "Lo scorso 29 gennaio, avevo proposto alla Giunta lombarda un formale riconoscimento per i cinque scienziati che, grazie al loro ingegno, contribuiscono ogni giorno ad accrescere l´immagine della sanità e della ricerca lombarda, una vera eccellenza riconosciuta nel mondo". E´ quanto dichiara il vice presidente e assessore alla Salute di Regione Lombardia a margine della cerimonia della consegna del Premio Rosa Camuna svoltasi il 29 maggio all´interno della prima festa di Regione Lombardia. Riconoscimento Anche Per Medici Ca´ Granda - "Mi fa, quindi, particolarmente piacere - ha detto ancora l´assessore - che i loro nomi vengano insigniti, insieme alla Fondazione Irccs Ca´ Granda Ospedale Policlinico di Milano, anche questa da noi segnalata, di un prestigioso riconoscimento quale è quello della Rosa Comuna di Regione Lombardia". I Migliori Nel Mondo - La candidatura era nata, a seguito della pubblicazione di una speciale classifica, resa nota da un gruppo di ricercatori americani, che collocava tra i primi 400 scienziati più influenti al mondo sei italiani, tra questi proprio i cinque studiosi impegnati nelle strutture sanitarie lombarde e prontamente proposti dall´Assessore alla Salute . Proposte Condivise - "Il fatto poi - aggiunge il Vice Presidente e Assessore alla Salute - che le candidature siano state condivise all´unanimità anche da tutte le forze politiche presenti in Consiglio regionale è una dimostrazione ulteriore dell´indiscusso valore di queste personalità che tengono alto il nome di Regione Lombardia a livello nazionale e internazionale". Ecco I Loro Nomi - Tra i premiati figurano, dunque, i nomi di Alberto Mantovani, direttore scientifico dell´Irccs Humanitas di Rozzano e docente dell´Università degli Studi di Milano; Giuseppe Remuzzi dell´Istituto Mario Negri di Bergamo; Antonio Colombo dell´Università Vita-salute San Raffaele di Milano; Giuseppe Mancia dell´Università di Milano Bicocca; Alberto Zanchetti dell´Università degli Studi di Milano, oltre, appunto, alla Fondazione Irccs Ca´ Granda Ospedale Policlinico di Milano.  
   
   
LOMBARDIA, PRESIDENTE: IEO MODELLO PER SVILUPPO SANITÀ IL GOVERNATORE HA CELEBRATO IL VENTENNALE DELL´ISTITUTO  
 
 Milano, 3 giugno 2014 - "L´istituto europeo di oncologia è un centro di eccellenza, che si è guadagnato il prestigio internazionale di cui gode, senza particolari aiuti se non quello dei medici che qui lavorano e dei risultati ottenuti. E´ un doppio piacere celebrarne, proprio oggi, i 20 anni dalla fondazione, nel giorno della Festa della Lombardia". Lo ha detto il presidente della Regione Lombardia, che il 29 maggio ha partecipato alle celebrazioni del ventennale dello Ieo. Un istituto, al quale ha detto di "sentirsi particolarmente legato", per il suo rapporto personale con il professor Umberto Veronesi. "Veronesi - ha sottolineato - per me rappresenta un punto di riferimento. Cura e ricerca, binomio così ben rappresentato allo Ieo, è il futuro per quanto riguarda le istituzioni sanitarie". Naturale Vocazione - La Lombardia, ha osservato il governatore, "ha una naturale vocazione all´innovazione, che io intendo sostenere e rafforzare, soprattutto nel campo medico e biomedico. Sul nostro territorio abbiamo 13 università, 500 centri di ricerca, moltissimi Irccs, che io voglio mettere in rete per fare della Lombardia il motore dell´innovazione e della ricerca in tutti i settori. Già oggi siamo la Regione che investe di più, l´1,6 per cento del Pil, ma il mio obiettivo è di raddoppiare questo dato e arrivare al 3 per cento del Pil, da destinare a questo settore, perché il futuro passa da qui". Veronesi Punto Di Riferimento - Il presidente lombardo ha ricordato di aver affidato al professor Veronesi "la guida di una commissione di 14 esperti, con il compito di valutare il sistema sanitario regionale e proporre delle linee guida per il suo sviluppo". "Lo chiamiamo così, ´sviluppo´ - ha precisato -, perché non vogliamo ´riformare´ un sistema che ha dimostrato la sua eccellenza anche livello internazionale, ma vogliamo migliorarlo, adattarlo alle necessità del territorio, controllarne meglio la spesa, aumentando la qualità dei servizi. Questo documento, che mi è già stato consegnato, sarà alla base delle linee guida della proposta alla quale stiamo lavorando. Voglio portarla in Consiglio regionale entro la fine di giugno, perché l´approvi entro la fine dell´anno". Importanti Novità - Anticipando alcuni aspetti del progetto di sviluppo, il numero uno di Palazzo Lombardia, ha detto che "bisogna trovare le risorse, migliorando la qualità della spesa. Abbiamo fatto delle valutazioni, concentrando, ad esempio, il sistema della gestione degli appalti pubblici dalle attuali 49 stazioni appaltanti a una sola, prevediamo di avere un risparmio 500 milioni di euro all´anno, che saranno reinvestiti nel settore sanitario". "Lo scorso anno - ha ricordato – siamo riusciti a convincere il Governo nazionale e le altre Regioni a modificare i criteri di assegnazione delle risorse del fondo sanitario, applicando per la prima volta i costi standard. Solo nei primi mesi successivi a questo cambiamento, la Lombardia ha avuto un vantaggio di 54 milioni di euro, che abbiamo subito rimesso nel socio-sanitario". Uomo Al Centro - Il governatore ha sottolineato infine l´importanza delle linee guida elaborate dal professor Veronesi: la presa in carico globale dell´individuo e della famiglia, la presa in carico attiva della fragilità e della cronicità, la prossimità e la facilità di accesso ai servizi per qualunque cittadino, a prescindere da dove viva, la misurabilità e la valutazione, l´integrazione fra l´ospedale e il territorio. "Penso - ha detto - che il professore, nell´individuare queste linee guida, abbia avuto come punto di riferimento e modello proprio lo Ieo, che interpreta esattamente questa prospettiva".  
   
   
IL VENETO VINCE LA BATTAGLIA SUL RISARCIMENTO AGLI EMOTRASFUSI, LO STATO RIMBORSERÀ LE SOMME ANTICIPATE AI CITTADINI  
 
Venezia, 3 giugno 2014 - “Finalmente il Veneto ha vinto la battaglia per garantire il pagamento degli indennizzi previsti dalla Legge 210/1992 a favore di quanti hanno contratto malattie o subito complicanze patologiche irreversibili a causa delle infezioni provocate da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni o somministrazioni di emoderivati. Tocca allo Stato sborsare questa cifra, che noi, come Regione, abbiamo anticipato senza mai rinunciare a chiedere al Governo il rispetto di quanto previsto dalla Legge. Si tratta di uscite complessive, nell’arco degli ultimi anni, di una cinquantina di milioni”. L’annuncio è degli assessori veneti al bilancio, Roberto Ciambetti e alla sanità, Luca Coletto, a margine della Conferenza delle Regioni e Province autonome, in corso a Roma. “Nel marzo scorso – ricordano gli assessori –, con voto unanime il Consiglio regionale ha deciso di continuare anche nel 2014 a rimborsare l’indennizzo agli aventi diritto, per un ammontare complessivo di circa 21 milioni di euro. Queste risorse, in virtù della citata legge del 1992 che riconosceva il risarcimento permanente agli emotrasfusi, fino al 2011 erano trasferite dallo Stato alla Regione, delegandola al pagamento del rimborso. Ma dopo il 2011 il Ministero della salute bloccò i trasferimenti sino alla decisione del Governo Monti, che lasciò tutti allibiti, di abolire addirittura il capitolo di spesa. Ma nel frattempo, come previsto dalla legge, il Veneto aveva già anticipato le somme”. “Come detto, il Consiglio regionale del Veneto anche quest’anno ha garantito il risarcimento, anticipando ancora una volta le risorse – concludono Coletto e Ciambetti –, dando alla Giunta il mandato di tutelare, anche con causa civile, i propri diritti nei confronti del Governo. Con la nostra azione, che ha posto la questione all’attenzione della Conferenza delle Regioni, quest’ultima ha fatto propria la protesta del Veneto con un Ordine del giorno approvato il 10 aprile scorso. Oggi, finalmente, questa vicenda, che per quanto riguarda la nostra regione coinvolge oltre 1.300 persone, viene chiarita anche per gli anni a venire”.  
   
   
FVG: RICETTA DEMATERIALIZZATA, PARTE LA SPERIMENTAZIONE  
 
Trieste, 3 giugno 2014 - E´ partita in questi giorni in Friuli Venezia Giulia la sperimentazione della ricetta dematerializzata per le prescrizioni farmaceutiche, destinata a sostituire progressivamente il tradizionale sistema di prescrizione su ricetta rossa. Il medico, integrato in un sistema nazionale unico e dedicato, emette la propria prescrizione elettronica che in prospettiva sarà utilizzabile in tutto il territorio nazionale. Solo per un iniziale periodo di transizione, al posto della ricetta tradizionale rilascia un promemoria cartaceo all´assistito, da presentare in una qualsiasi delle farmacie del territorio regionale. Il farmacista, grazie alle informazioni del promemoria, recupera la prescrizione elettronica del medico e fornisce i farmaci prescritti. Come spiega l´assessore regionale alla Salute, Maria Sandra Telesca, il principale vantaggio del sistema è un incremento della sicurezza clinica del paziente: si eliminano le incertezze interpretative rispetto al prescritto e si elimina sostanzialmente il rischio che venga erogato un medicinale sbagliato. Altri vantaggi sono la riduzione del carico burocratico per i medici di famiglia e i farmacisti, che avranno più tempo da dedicare all´assistenza alle persone malate, e l´abbattimento dei costi per il servizio sanitario regionale. Le prime prove sono state fatte nel Distretto di Codroipo e hanno dato risultati soddisfacenti. Questa modalità di prescrizione sarà estesa a tutta la Regione nel corso del 2014.  
   
   
SANITÀ: PER FVG MOBILITÀ INTERREGIONALE VALE OLTRE 97 MILIONI  
 
Trieste, 3 giugno 2014 - La mobilità sanitaria interregionale, conseguente al diritto del cittadino ad ottenere cure a carico del proprio sistema sanitario regionale anche in un luogo diverso da quello di residenza, per il Friuli Venezia Giulia presenta un saldo attivo nel 2013 di 97 milioni 577 mila euro. Lo rileva la presidente della Regione, Debora Serracchiani, che ha partecipato alla Conferenza delle Regioni, nel corso della quale è stato raggiunto un accordo condiviso sul meccanismo delle compensazioni, che in tutta Italia vale complessivamente un miliardo di euro. In virtù dell´intesa, il Friuli Venezia Giulia otterrà 65 milioni per i ricoveri, 21,5 milioni per la specialistica, 9,4 milioni per la somministrazione di farmaci e cifre minori per cure termali e interventi dell´elisoccorso. Per la presidente si tratta di risorse importanti, che confermano come il Friuli Venezia Giulia abbia un´elevata capacità di attrarre pazienti. Una dimostrazione concreta della qualità delle cure del nostro sistema sanitario.  
   
   
PRIMA DONAZIONE DI SANGUE DIFFERITA: PER AVIS UN VALORE  
 
Milano, 3 giugno 2014 - Periodicità, centralità del malato e del donatore e prima donazione differita: sono questi i messaggi fondamentali che Vincenzo Saturni, Presidente nazionale di Avis – Associazione Volontari Italiani Sangue - ha lanciato in diretta a Radio Uno, anche in vista della Giornata Mondiale e Nazionale del donatore di sangue che ci celebrerà il prossimo 14 giugno. Il Presidente Avis è intervenuto nel corso di una puntata di “La Radio ne parla” in onda su Radio Uno, dedicata a dono e donazione e in cui erano presenti anche i presidenti nazionali di Admo e Aido e il priore della comunità di Bose, Enzo Bianchi. «Avis e il sistema trasfusionale italiano hanno costantemente bisogno di donatori volontari, anonimi, periodici e associati», ha spiegato Saturni. «Le motivazioni più intime e ideali che portano alla prima donazione vengono poi rafforzate dalla nostra Associazione, per garantire nel tempo la continuità donazionale e la fidelizzazione dei donatori. Noi ci stiamo impegnando molto su questo aspetto e crediamo nel valore della prima donazione differita, ossia compiuta dopo alcune settimane dal colloquio con il medico e dall´esecuzione degli esami di laboratorio». L’ultima assemblea generale dell’associazione, conclusasi il 18 maggio scorso a Chianciano (Si), aveva ribadito la centralità per Avis del socio donatore e del malato, beneficiario del dono. Proprio il tema della prima donazione differita è stato al centro del dibattito assembleare, con diversi interventi di carattere medico, associativo ed etico, conclusosi con l’approvazione di una mozione finale che sottolinea che obiettivo prioritario è quello di «rendere la prima donazione differita patrimonio comune e valore etico a garanzia di maggiori qualità e sicurezza in un moderno sistema trasfusionale». «Il donatore per eccellenza – ha concluso il Presidente Saturni ai microfoni di Radio Uno - è quello consapevole, periodico, volontario, anonimo, non remunerato, responsabile ed associato, che garantisce continuità donazionale, maggiori livelli di sicurezza e qualità, programmazione e coinvolgimento in progetti educativi».  
   
   
ICTUS: QUANTO CI COSTI?  
 
Milano, 3 giugno 2014 – Uno su cinque. Ecco il dato, nudo e crudo, di quanti nei Paesi industrializzati rischiano di essere colpiti da Ictus cerebrale da qui al 2030. Previsioni preoccupanti e, purtroppo, fin troppo realistiche. A determinare l’aumento di Ictus, Infarto, Embolia è, paradossalmente, l’allungarsi della vita media. Una conquista sì ma che comporta una maggiore usura del sistema cardio e cerebrovascolare. Che cosa accomuna infarto ictus ed embolia? Come spiega Alt, Associazione per la Lotta alla Trombosi e alle malattie cardiovascolari, alla base di tutto c’è la Trombosi, ovvero la formazione, in un’arteria o in una vena, di un coagulo di sangue che impedisce il nutrimento delle cellule, uccidendole. Già oggi, l’Ictus è uno dei primi 4 big killer in Europa e negli Stati Uniti, con una speciale “predilezione” per le donne, tanto che le malattie cardio e cerebrovascolari vengono spesso definite “la grande epidemia” dei tempi moderni e del prossimo futuro. Sono malattie che, in un caso su tre, portano alla morte, ma anche quando non uccidono devastano il paziente e le famiglie, come sa bene chi le ha vissute, in prima persona o da famigliare. Ma quanto ci costa l’Ictus? E le malattie da Trombosi nel loro insieme? Una cifra insostenibile: per ogni incremento del 10% di queste malattie, l’Italia perde mezzo punto di Pil. L’europa dovrà prepararsi a spendere ogni anno da 72 a 183 miliardi di euro solo per curare le persone colpite da Ictus cerebrale: fatte le opportune proporzioni per la sola Italia andiamo dai 12 ai 30 miliardi di euro l’anno (dati di Stroke- American Heart Association). Un costo troppo alto. Nessun servizio sanitario sarà in grado di sostenere spese così grandi. Se poi consideriamo i costi in termini di perdita di produttività, il danno per il nostro Paese aumenta di altri 7 fino a 13 miliardi di euro. Un quadro insopportabile, per società, famiglie, imprese. Il motivo di costi così elevati si ritrova nel fatto che non sempre l’Ictus uccide: in 90 malati su 100 lascia segni indelebili, a livello mentale e fisico, solo 10 persone riescono recuperare completamente le funzioni perdute a causa di un Ictus. Perché tante malattie da Trombosi? I fattori che concorrono alla diffusione dell’epidemia di malattie da trombosi, come Infarto, Ictus Embolia, sono moltissimi: età, pigrizia, alimentazione sbilanciata in termini di quantità e qualità, diabete, obesità, aterosclerosi, fumo e droghe, disturbi del ritmo del cuore come la fibrillazione atriale. Tutte situazioni che, progressivamente e inesorabilmente, danneggiano il nostro sistema vascolare, portando alla formazione di trombi. E la genetica: famiglie nelle quali si sono verificati eventi vascolari in età precoce subiranno con maggiore aggressività il danno causato dai fattori di rischio legati allo stile di vita. La genetica non si cambia, ma lo stile di vita si, e uno stile di vita intelligente che modifichi i fattori di rischio che aggrediscono il sistema cardio e cerebrovascolare permette di evitare le malattie da Trombosi, almeno in un caso su tre. L’ictus non è solo un mondo per vecchi. La fascia di età che subirà il più ripido incremento di queste malattie (non solo Ictus, ma anche Infarto) è quella compresa fra i 45 e i 64 anni. Le stime parlano di un incremento di almeno 5 punti percentuali all’anno. Parallelamente, aumenteranno diabete e obesità, vere e proprie mine per le nostre arterie, capaci di moltiplicare la probabilità di Ictus anche nei giovani, specie se associate a uno stile di vita scorretto. “La sindrome da immortalità - sottolinea il presidente di Alt, Lidia Rota Vender - tipica di chi non ha ancora 40 anni non solo sta perdendo significato ma sta diventando pericolosa perché porta a sottovalutare la forza negativa dei fattori di rischio legati allo stile di vita, elementi che, invece, possono e devono essere modificati con urgenza, con un atto di intelligenza e di volontà da parte del paziente. Controllo del peso, stop al fumo, porzioni di cibo più piccole e di migliore qualità, minor consumo di alcool e droghe, più movimento: non è mai troppo presto per cominciare a prendersi cura della propria salute”. La prevenzione delle malattie da Trombosi funziona davvero: rapidamente, non in anni! I dati lo dimostrano: l’eliminazione dei fattori di rischio riduce la probabilità di eventi, salvando dalla Trombosi almeno una persona su tre. “É urgente e indispensabile fare qualcosa per prevenire l’Ictus, a tutti i livelli – continua Lidia Rota Vender - è una sfida possibile. Con la consapevolezza e la forza di volontà e il senso di responsabilità ognuno di noi può prendere in mano il proprio destino. Non esistono ictus buoni o cattivi: l’ictus migliore che possa capitare è quello che non avremo mai . Scegliere di mangiare in modo intelligente, rispettare un programma di attività fisica quotidiana moderata, imparare a tastarsi il polso per scoprire un eventuale disturbo del ritmo del cuore, rivolgersi al medico in caso di necessità, controllare alimentazione, peso, non prendere oppure modificare abitudini pericolose, prestare attenzione alla storia della propria famiglia: sono interventi a basso costo ma ad alto rendimento, per migliorare il proprio stato di salute in generale e per evitare l’Ictus cerebrale e le malattie da Trombosi. Pensiamoci, seriamente, adesso. E facciamo la nostra parte, da oggi, da subito”. L’emergenza ictus è grande, in molti, associazioni scientifiche e Istituzioni, si mobilitano con l’obiettivo di prevenire l’ictus causato dalla fibrillazione atriale rendendo la cittadinanza consapevole della possibilità che questa aritmia possa essere presente e in modo silenzioso e misconosciuto. Alt è partner insieme a società scientifiche, associazioni di pazienti, università e ordini professionali, Areu e Regione Lombardia, nella campagna Stopall’ictus promossa da Rotary International (distretti regionali 2050,2041,2042) e rivolta alla popolazione della Regione Lombardia sui fattori di rischio, le cause, i sintomi, le conseguenze e le terapie dell’ictus: come prevenirlo e come curarlo. “Un elemento di forza della campagna Stopall’ictus è la sinergia tra Istituzioni, Società scientifiche, Associazioni come Alt, Alice e Aita e rete Stroke Unit e Centri di Riabilitazione per l’ictus – aggiunge il Dott. Giuseppe Micieli, Direttore del Dipartimento di Neurologia d’Urgenza all’Istituto Neurologico Nazionale Casimiro Mondino di Pavia - a volere affermare l’importanza della collaborazione tra le risorse territoriali e le strutture assistenziali unite nella lotta contro l’ictus”.  
   
   
UN ANNO DI ATTIVITÀ: FVG, A SETTEMBRE RIFORMA SANITÀ  
 
Trieste, 3 giugno 2014 - Il percorso della riforma della Sanità in Friuli Venezia Giulia si concluderà in settembre, a un anno esatto dall´avvio. Lo ha confermato l´assessore alla Salute e alla Protezione sociale, Maria Sandra Telesca, nella conferenza stampa organizzata il 30 maggio a Trieste per illustrare il primo anno di attività della Giunta Serracchiani. Intanto entro giugno sarà pronta la revisione della rete ospedaliera, mentre entro il mese successivo sarà messa a punto la prima bozza del disegno di legge, che andrà in Consiglio subito dopo l´estate. L´obiettivo di tutta la riforma, ha osservato l´assessore, è "il miglioramento del servizio al cittadino".  
   
   
TUMORE DEL SENO, ITALIA AL VERTICE DELLA RICERCA NUOVE ARMI CONTRO LE FORME PIÙ AGGRESSIVE”  
 
Chicago, 3 giugno 2014 – Nel nostro Paese vivono più di 522mila donne con tumore del seno. Le percentuali di guarigione sono in costante crescita, oggi infatti l’87% è vivo a cinque anni dalla diagnosi. Ma alcune forme di questa neoplasia sono particolarmente aggressive, in particolare quella metastatica “triplo-negativa”. Si stanno però affacciando nuove armi in grado di migliorare le percentuali di sopravvivenza, anche in questi casi. Al 50° Congresso dell’American Society of Clinical Oncology (Asco), il più importante appuntamento mondiale di oncologia in corso a Chicago fino al 3 giugno, viene presentato lo studio internazionale “tnAcity” di fase Ii/iii, che valuterà i profili di efficacia e sicurezza di due regimi di combinazione di nab-paclitaxel (con gemcitabina o carboplatino) come trattamento di prima linea per il carcinoma mammario metastatico triplo-negativo, utilizzando gemcitabina e carboplatino come controllo. L’oncologia Medica dell’Istituto Oncologico Veneto (Iov) di Padova, diretta dal prof. Pierfranco Conte, è il centro coordinatore per l’Italia di questo importante studio. “Nab-paclitaxel – afferma il prof. Pierfranco Conte -, cioè paclitaxel legato all’albumina in nanoparticelle, è un farmaco innovativo che coniuga un principio attivo di efficacia antitumorale comprovata, paclitaxel, con la tecnologia d’avanguardia basata sulle nanoparticelle. È già impiegato con successo nel trattamento del carcinoma mammario metastatico nei casi in cui la terapia di prima linea non risulti più efficace. Questo studio ha l’obiettivo di valutare la sua efficacia, in prima linea, in una delle forme più difficili da trattare, quella ‘triplo-negativa’”. Nella fase Ii dello studio, i ricercatori statunitensi ed europei (in Italia, il gruppo diretto dal prof. Conte) valuteranno 240 pazienti. Obiettivo primario della fase Ii è identificare il braccio di combinazione con nab-paclitaxel che dovrà essere valutato nella fase Iii, in cui saranno randomizzate 550 pazienti. Endpoint primario dello studio tnAcity è la sopravvivenza libera da progressione, mentre endpoint secondari sono il tasso di risposta obiettiva, la sopravvivenza globale, il tasso di controllo della malattia, la durata della risposta e la sicurezza. Saranno inoltre condotte analisi dei biomarcatori e delle cellule tumorali circolanti.