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LUNEDI
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Notiziario Marketpress di
Lunedì 17 Settembre 2012 |
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SANATORIA PER LAVORATORI EXTRAUE IRREGOLARMENTE OCCUPATI DA ALMENO 3 MESI
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Fino al 15 ottobre i datori di lavoro possono regolarizzare, attraverso una procedura di emersione, cittadini extraUe privi del permesso di soggiorno, occupati, irregolarmente e a tempo pieno da almeno 3 mesi. Per accedere alla sanatoria il datore di lavoro deve essere un cittadino italiano, comunitario o extracomunitario titolare di carta di soggiorno, mentre il lavoratore da regolarizzare deve essere un cittadino extraUe occupato da almeno 3 mesi antecedentemente al 9 agosto 2012, presente sul territorio nazionale dal 31 dicembre 2011. Il rapporto di lavoro deve essere in essere. Documenti di riferimento: Attuazione della direttiva 2009/52/Ce che introduce norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare - Decreto legislativo n. 109 del 16 luglio 2012; Attuazione dell´articolo 5 del decreto legislativo n.109/2012, in materia di emersione dal lavoro irregolare - Decreto interministeriale 29 agosto 2012; Procedura di emersione - lavoratori exrtacomunitari - Ministero del Lavoro - Circolare congiunta n. 5638 del 7 settembre 2012 |
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REGIONE TRENTINO ALTO ADIGE: MEDIAZIONE PENALE E GIUSTIZIA RIPARATIVA - INTESA CON IL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA
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Il Centro per la mediazione penale, istituito nel 2004 dalla Regione Trentino-alto Adige a supporto dei giudici di pace, potrà realizzare percorsi di mediazione penale o di attività riparative anche con riguardo ai detenuti o ai soggetti in esecuzione penale esterna, nonché ai minori, rispetto ai quali il Centro già svolge in via sperimentale attività di mediazione in virtù di accordi precedenti. E’ quanto prevede l’intesa istituzionale sottoscritta oggi a Roma fra il Ministro della Giustizia Paola Severino ed il Presidente della Regione Lorenzo Dellai. L’intesa contempla principalmente una cornice programmatica di collaborazione tra la Provincia autonoma di Trento ed il Ministero della Giustizia, in relazione ad azioni finalizzate al trattamento e al reinserimento sociale dei soggetti in esecuzione penale, ma prevede altresì una collaborazione tra Regione Trentino-alto Adige e Ministero della Giustizia per quanto riguarda l’ambito della mediazione penale e della giustizia riparativa. I servizi periferici dell’amministrazione penitenziaria quali ad esempio l’ufficio esecuzione penale esterna e della giustizia minorile (ufficio servizio sociale per i minorenni) si potranno avvalere dunque, ricorrendone i presupposti, dell’attività del Centro per la mediazione penale. Con l’intesa firmata a Roma oggi trovano sviluppo, inoltre, precedenti impegni in tema di mediazione penale derivanti dal protocollo di collaborazione siglato con il Ministero della Giustizia già nel 2005. Il Ministro Severino ha apprezzato l’esperienza sviluppata dal Centro per la mediazione, esperienza che conferma le convinzioni dell’amministrazione della giustizia al riguardo delle positive prospettive di sviluppo di forme alternative di risoluzione delle controversie. Sul tema della mediazione il Ministro ha auspicato che si possa tenere a Trento, sede accademica di eccellenza, una riflessione congiunta delle amministrazioni regionale, provinciale e della giustizia coinvolte in una significativa e complessiva collaborazione che comprende più ambiti del settore giustizia. Proprio questa mattina a Trento è stato sottoscritto un protocollo di collaborazione fra la Regione Autonoma Trentino-alto Adige e l’Azienda Pubblica di Servizi alla Persona Civica di Trento che consentirà di dare ulteriore senso all’attività svolta dal Centro per la mediazione della Regione. L’accordo prevede che i minori coinvolti in procedimenti penali, cui le autorità giudiziarie abbiano prescritto percorsi di mediazione, possano intraprendere fattive azioni di riparazione simbolica delle conseguenze dannose del reato tramite lo svolgimento di attività di volontariato a servizio delle persone anziane |
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I MINORENNI COINVOLTI IN PROCEDIMENTI PENALI POTRANNO FARE VOLONTARIATO ALLA CIVICA DI TRENTO
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I minori coinvolti in procedimenti penali, cui le autorità giudiziarie abbiano prescritto percorsi di mediazione, potranno intraprendere fattive azioni di riparazione simbolica delle conseguenze dannose del reato tramite lo svolgimento di attività di volontariato a servizio delle persone anziane. Lo prevede un protocollo di collaborazione firmato oggi fra la Regione Autonoma Trentino-alto Adige e l’Azienda Pubblica di Servizi alla Persona Civica di Trento. L’accordo, siglato dall’Assessore regionale competente Luigi Chiocchetti e dal Presidente della Apsp Civica di Trento Giancarlo Paolazzi, consentirà di tradurre in realtà l’attività svolta dal Centro per la Mediazione della Regione e rientra nell’ambito dell’impegno della Regione in materia di giustizia riparativa, ovvero di una risoluzione pacifica dei conflitti sociali, concordata fra le parti in causa. Il Centro per la Mediazione proporrà ai minori interessati, al termine di un percorso di mediazione fra le parti, la riparazione simbolica del reato tramite l’attività di volontariato presso l’Apsp Civica di Trento. Nel commentare la firma del protocollo l’Assessore regionale Luigi Chiocchetti ha sottolineato come l’attività di mediazione posta in essere dalla Regione si ponga l’obiettivo di ricostruire la relazione fra le due parti in causa. Da un lato la vittima che esprime il suo vissuto di ingiustizia, manifesta le sue emozioni e assume un ruolo da protagonista nel partecipare alla definizione del modo in cui l’ingiustizia subita può essere riparata. Dall’altro lato l’autore del reato che attraverso la “riparazione” propone una diversa e migliore immagine di sé, slegata dal reato e orientata verso le buone pratiche e i buoni propositi. Si auspica, ha concluso l’Assessore, che il protocollo oggi sottoscritto, funga da apripista per ulteriori collaborazioni con enti, cooperative, associazioni, disponibili ad accogliere l’impegno volontario del minore offrendogli la possibilità di porre riparo con un’azione utile e positiva al danno causato |
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L’ITALIA DEL BUSINESS RIPARTE DA MILANO, CON SOCIAL2BUSINESS |
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Social2business, la community che fa ripartire il business, torna il 27 settembre 2012 a Milano, con Tavoli tematici e Matching, tutto all’insegna del Networking. Nata dall’idea del Gruppo Giovani Imprenditori di Assolombarda con l´obiettivo di sviluppare rapporti tra attori di diversi network e settori, Social2business punta a fondere il Social con il web 2.0. L’evento “zero” organizzato a Milano lo scorso novembre, ha riscosso grande successo tra i partecipanti coinvolti. Imprese, imprenditori, startupper, finanziatori, ricercatori, professionisti ed istituzioni hanno posto le basi per nuove partnership e collaborazioni, nell’atmosfera informale del Social Aperitivo e della Social Dinner. Il prossimo evento avrà sede nella cornice del Castello Sforzesco, uno dei principali simboli della storia e della cultura della città, con il patrocinio del Comune e della Provincia di Milano. Per l’occasione si sposterà a Milano la riunione del Consiglio Centrale dei Giovani di Confindustria. L´evento è organizzato con la partecipazione del Gruppo Giovani di Confindustria Lombardia, Monza, Bergamo, Pavia e Alto Milanese e di network e acceleratori di impresa della Provincia di Milano. Il format della giornata prevederà: Ore 10.30 – 13.30 Consiglio centrale Ggi (Riservato ai Soci Ggi) H 16:00- 18:00 Tavoli tematici su argomenti legati alle esigenze delle imprese milanesi ( I tavoli tematici si svolgeranno in contemporanea, i partecipanti dovranno quindi scegliere di seguire l’argomento di maggiore interesse: L’impresa competitiva: “costo opportunità e sinergie per lo sviluppo del business” Un paradigma competitivo … Il networking potrà essere uno strumento di efficienza per incrementare il fatturato e ridurre i costi? Start up, ricerca e innovazione Lanciare un nuovo progetto comporta sempre dei rischi. Strumenti utili per avere successo. Internazionalizzazione: La nuova Europa, reali possibilità di Business Come affrontare i mercati vicini: una guida interattiva per sviluppare progetti di successo e fare business. Paesi emergenti e le nuove economie mondiali: opportunità per lo sviluppo del business Strategie e strumenti per la crescita e la competitività delle imprese italiane nel mercato globale.) H 18:00 - 20:00 Tavoli di Matching per filiera ( Aree dedicate allo speed date & matching per gli appartenenti alle principali filiere dell’economia italiana: Agroalimentare Oil & Gas Green Energy Costruzioni, legno e arredo Automotive e Meccanica Biomedicale – Farmaceutico – Sanitario Tessile e sistema moda Lusso) H 20.00 - 24:00 Light Dinner Serata Just Cavalli con area riservata. --- Social2business è un´iniziativa del Gruppo Giovani Imprenditori di Assolombarda, con la partecipazione del Gruppo Giovani di Confindustria Lombardia e di network e acceleratori di impresa della Provincia di Milano. S2b è dedicato ad imprese, aspiranti imprenditori, startupper, finanziatori, ricercatori, professionisti ed istituzioni interessati a sviluppare collaborazioni e partnership, il tutto attraverso l’incontro tra i partecipanti. Il Gruppo Giovani Imprenditori Assolombarda riunisce imprenditori, figli di imprenditori e dirigenti di aziende iscritte ad Assolombarda, di età compresa tra i 18 e i 40 anni. Scopo del Gruppo è accrescere la diffusione dei valori della libera iniziativa e della cultura d’impresa nonché promuovere e sviluppare, nella formazione culturale dei Giovani Imprenditori, la consapevolezza della funzione economica ed etico-sociale dell’impresa e approfondire la conoscenza delle problematiche economiche, politiche, sociali, tecniche ed aziendali, per favorire la crescita professionale dei Giovani. Info su www.Social2business.it |
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PRIVACY: TESSERA ELETTORALE E SEGRETEZZA DEL VOTO. IL COMUNE NON PUÒ RICHIEDERE LA RESTITUZIONE DEL DOCUMENTO ESAURITO
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Ai cittadini che chiedono l’emissione di una nuova tessera elettorale perché in quella vecchia non vi sono più spazi per la certificazione del voto, il comune non deve chiedere la restituzione del documento, ma verificare solo che sia esaurito. La restituzione è prevista solo in casi eccezionali e rischia di ledere la segretezza del voto. Lo ha chiarito il Garante per la privacy intervenendo su segnalazione di una donna che esprimeva forti dubbi sulla correttezza della procedura adottata dal suo comune di residenza, lesiva, a suo parere, anche del diritto alla segretezza del voto. Al momento del rinnovo della tessera elettorale, infatti, alla signora era stato chiesto di restituire il documento esaurito e alle perplessità della donna, espresse prima a voce e poi via mail, il comune aveva risposto, anche per iscritto, ribadendo la correttezza del proprio operato. Per niente soddisfatta e preoccupata per i rischi alla riservatezza del voto che sarebbero potuti derivare dalla restituzione della vecchia tessera al comune, la donna, articoli di legge alla mano, si è rivolta al Garante. L’autorità ha riconosciuto le sue ragioni e ha interessato della vicenda il Ministero dell’interno, il quale a sua volta ha dato disposizioni affinché non si proceda più al ritiro del documento esaurito. La procedura adottata dal comune non trova infatti alcun fondamento nella normativa in materia, che prevede la restituzione della tessera solo in un numero limitato e definito di ipotesi: in caso di trasferimento di residenza dell’elettore da un comune ad un altro, di deterioramento, di perdita del diritto di voto, ma non quando siano esauriti gli spazi per le timbrature. Ma soprattutto - ha sottolineato il Garante - va sempre tenuto presente che la tessera, riportando l’annotazione della partecipazione al voto è in grado di rivelare il comportamento elettorale di una persona, e in alcuni casi anche il suo orientamento politico. Nel caso dei referendum, ad esempio, la partecipazione o l’astensione alla consultazione possono essere indicative della condivisione o meno del progetto dello schieramento politico che lo ha proposto |
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PRIVACY: LOTTA ALLE FRODI SU CARTE DI CREDITO E BANCOMAT. LE FORZE DI POLIZIA POSSONO ACCEDERE ALLA BANCA DATI SIPAF
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Via libera del Garante per la privacy sullo schema di Convenzione tra il Ministero dell’interno e il Ministero dell’economia e delle finanze che consentirà alle forze di polizia, tramite il Ced del Viminale, di accedere al Sistema informatizzato di prevenzione amministrativa delle frodi sulle carte di pagamento (Sipaf). Il Sipaf, gestito dal Ministero dell’economia, è la banca dati in cui confluiscono le segnalazioni (su carte di credito clonate o false, bancomat contraffatti, esercizi commerciali in cui si sono verificate frodi ecc.) effettuate dalle società, dalle banche e dagli intermediari finanziari che emettono carte di credito e gestiscono reti commerciali in cui si accettano le carte. Nell’esprimere parere favorevole l’Autorità ha ritenuto le disposizioni contenute nella Convenzione, comprese quelle relative alla sicurezza, conformi alle norme poste a protezione dei dati personali. Lo schema di Convenzione sottoposto al Garante prevede, in particolare, che l’accesso al Sipaf da parte delle forze di polizia sia espressamente limitato alle “finalità di prevenzione e repressione dei reati connessi o comunque collegati all’utilizzo di carte di credito o di altri mezzi di pagamento”. La consultazione del Sipaf dovrà essere consentita esclusivamente dalle postazioni di lavoro certificate delle forze di polizia e ai soli operatori cui sia stato rilasciato dal Ced uno specifico codice identificativo personale. Gli accessi e le operazioni effettuate dagli operatori di polizia saranno tracciate e dovrà essere attivato un sistema di alert automatico che segnali eventuali utilizzi anomali. Spetterà al Centro elaborazione dati del Viminale, infine, verificare ogni sessanta giorni le abilitazioni degli utenti autorizzati ad accedere al sistema Sipaf |
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PRIVACY: ZTL E LISTE DEI TITOLARI DEI PERMESSI. SPETTA ALL’AMMINISTRAZIONE COMUNALE VALUTARE LA RICHIESTA DA PARTE DEI GIORNALISTI
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La legge sulla privacy non pone di per sé ostacoli alla conoscenza da parte dei giornalisti dei titolari di permessi per l’accesso all’aerea Ztl. Spetta però all’amministrazione comunale verificare se la richiesta della testata giornalistica, sulla base dell’interesse o dei motivi rappresentati, sia da accogliere o meno, in conformità alla normativa in materia di accesso ai documenti amministrativi. E’ il principio ricordato dall’Ufficio del Garante in una risposta a due giornalisti di un quotidiano locale che si lamentavano del rifiuto opposto dal proprio comune alla richiesta di poter avere o almeno visionare l’elenco delle persone titolari di permesso per l’accesso alla zona a traffico limitato. L’ufficio ha osservato che il Codice in materia di protezione dei dati personali non ha inciso in modo restrittivo sulla normativa posta a salvaguardia della trasparenza amministrativa, specie nel caso in cui l’attività amministrativa riguardi il corretto utilizzo di beni e risorse da parte di soggetti pubblici. E non può quindi essere invocata per negare in via di principio l’accesso ai documenti amministrativi. Spetta dunque all’amministrazione comunale destinataria della richiesta di accesso ai documenti - ha osservato il Garante – valutare gli interessi in gioco e verificare l’esistenza dei requisiti posti alla base della richiesta, considerando che da queste liste potrebbero desumersi anche dati sensibili (es. Stato di salute). Il giornalista da parte sua, nel caso la richiesta venga ritenuta legittima, dovrà utilizzare in maniera responsabile i dati personali, rispettando il principio di essenzialità dell’informazione, evitando di pubblicare informazioni e dettagli privi di interesse pubblico o lesivi della dignità della persona |
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GIUSTIZIA EUROPEA: L’ESENZIONE IVA PUÒ ESSERE NEGATA A UNA SOCIETÀ CHE ABBIA VENDUTO PRODOTTI DESTINATI A UN ALTRO STATO MEMBRO SE NON DIMOSTRA CHE SI TRATTAVA DI UN´OPERAZIONE INTRACOMUNITARIA |
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Per contro, ove detta società presenti tali prove e abbia agito in buona fede, l’esenzione Iva non può esserle negata adducendo che l´acquirente non aveva trasportato i prodotti fuori dello Stato di spedizione. Secondo la direttiva «Iva», la vendita, in uno Stato membro, dei beni spediti o trasportati in un altro Stato membro, per un acquirente che sia soggetto passivo dell’Iva in uno Stato membro diverso dallo Stato membro di partenza della spedizione o del trasporto dei beni, è esente dall´Iva nel primo Stato. In una tale eventualità, è l´acquirente che deve pagare l’Iva nel paese di destinazione dei prodotti. La Mecsek-gabona è una società ungherese la cui attività principale consiste nel commercio all’ingrosso di cereali, tabacco, sementi e foraggio. Nell´agosto 2009, essa ha venduto a una società italiana – che disponeva all´epoca di un numero d’identificazione Iva – 1000 tonnellate di colza che, ai sensi del contratto di vendita, dovevano essere trasportate dall´acquirente in un altro Stato membro. La merce è stata consegnata all´acquirente presso i locali della Mecsek-gabona in Ungheria e la società italiana ha rinviato al venditore, da un indirizzo postale italiano, varie lettere di vettura Cmr attestanti che la colza era stata trasportata fuori dell´Ungheria. La Mecsek-gabona ha redatto due fatture per tale operazione. Considerato che si trattava di un´operazione intracomunitaria esente dall’Iva in Ungheria, non ha fatturato tale tributo all’acquirente e non lo ha versato all´amministrazione tributaria ungherese. Tuttavia, l’amministrazione fiscale italiana ha constatato che la società acquirente era irreperibile e che non aveva mai pagato l´Iva in Italia. Di conseguenza, nel gennaio 2010, il numero d´identificazione Iva italiano di tale società era stato cancellato dal registro con effetto retroattivo al 17 aprile 2009. Date le circostanze, l´amministrazione fiscale ungherese ha considerato che la colza venduta dalla Mecsek-gabona non era mai stata trasportata in un altro Stato membro e che l´operazione in oggetto non costituiva quindi una cessione intracomunitaria di beni oggetto di un’esenzione dall’Iva. Essa ha pertanto ordinato alla società ungherese di pagare l´Iva connessa a tale operazione e le ha inflitto un’ammenda nonché una penalità di mora. Poiché la Mecsek-gabona ha contestato gli argomenti dell´amministrazione ungherese dinanzi al Baranya Megyei Bíróság (Tribunale provinciale di Baranya, Ungheria), quest´ultimo chiede alla Corte di giustizia di determinare quali prove debbano essere considerate sufficienti per dimostrare che ha avuto luogo una cessione di beni in esenzione dall’Iva. Il giudice ungherese intende altresì sapere in che misura il venditore, qualora non garantisca esso stesso il trasporto, possa essere ritenuto responsabile del comportamento dell’acquirente qualora non sia dimostrato che i prodotti venduti sono giunti nello Stato membro di destinazione. Nella sua odierna sentenza, la Corte rammenta, innanzitutto, le tre condizioni richieste per beneficiare dell´esenzione dell´Iva sulla cessione intracomunitaria di un bene. In primo luogo, è necessario che il diritto di proprietà di tale bene sia trasmesso all´acquirente. In secondo luogo, il venditore deve provare che il bene è stato spedito o trasportato in un altro Stato membro. In terzo luogo, in seguito a tale spedizione o trasporto, il bene deve lasciare fisicamente il territorio dello Stato membro di spedizione. Nel caso di specie, dal momento che la prima condizione risulta soddisfatta, la Corte esamina gli obblighi che incombono al venditore in materia di prova della spedizione o del trasporto di beni in un altro Stato membro. La Corte constata che, in mancanza di specifiche disposizioni nella direttiva Iva per quanto riguarda gli elementi di prova idonei a dimostrare la realizzazione di una cessione intracomunitaria, spetta agli Stati membri stabilirli, rispettando al contempo i principi generali del diritto dell’Unione, quali i principi di certezza del diritto e di proporzionalità. La Corte precisa che gli obblighi in materia di prova devono essere quindi determinati dal diritto nazionale e dalla prassi abituale prevista per analoghe operazioni. Tuttavia, uno Stato membro non può imporre al soggetto passivo di fornire la prova concludente del fatto che la merce abbia fisicamente lasciato il suo territorio. La Corte constata altresì che, nel contesto di una cessione intracomunitaria, la direttiva Iva consente agli Stati membri di negare al venditore l’esenzione dall´Iva qualora quest´ultimo non soddisfi i suoi obblighi in materia di prova. Nel caso di specie, il giudice ungherese deve esaminare se la Mecsek-gabona abbia ottemperato agli obblighi che le incombevano in materia di prova in forza del diritto ungherese e della prassi abituale. La Corte osserva inoltre che, qualora l’acquirente benefici del potere di disporre del bene come proprietario nello Stato membro di spedizione e provveda al trasporto dello stesso verso lo Stato membro di destinazione, occorre tener conto del fatto che la prova che il venditore può produrre alle autorità tributarie dipende fondamentalmente dagli elementi che egli riceve a tal fine dall’acquirente. Qualora il venditore abbia adempiuto i suoi obblighi derivanti dal diritto nazionale e dalla prassi abituale in materia di prova, non può essere considerato debitore dell’Iva nello Stato membro di cessione laddove l’obbligo contrattuale di spedire o trasportare detti beni fuori da tale Stato membro non sia stato assolto dall’acquirente. Infatti, in una tale ipotesi, è l’acquirente che deve considerato debitore dell´Iva nello Stato membro di cessione. Tuttavia, la Corte osserva che l´esenzione dell´Iva connessa a un’operazione intracomunitaria non può essere accordata al venditore se sapeva o avrebbe dovuto sapere che tale operazione rientrava in un’evasione posta in essere dall’acquirente e non ha adottato le misure cui poteva ragionevolmente ricorrere per evitare l’evasione medesima. Infine, la Corte rileva che il beneficio del diritto all´esenzione dell´Iva non può essere negato alla Mecsek-gabona per la sola ragione che il numero d´identificazione Iva italiano dell´acquirente è stato cancellato dal registro dei soggetti passivi con effetto retroattivo. Infatti, un’irregolarità relativa a detto registro, la cui gestione rientra nella competenza delle autorità nazionali, non può essere addebitata a un soggetto passivo che si sia fondato sui dati ivi figuranti. (Corte di giustizia dell’Unione europea, Lussemburgo, 6 settembre 2012, Sentenza nella causa C-273/11, Mecsek-gabona Kft / Nemzeti Adó- és Vámhivatal Dél-dunántúli Regionális Adó Főigazgatósága) |
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GIUSTIZIA EUROPEA: UN VINO NON PUÒ ESSERE COMMERCIALIZZATO E PUBBLICIZZATO COME «FACILMENTE DIGERIBILE»
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Una siffatta indicazione, che segnala un ridotto tenore di acidità, costituisce un’indicazione sulla salute vietata per le bevande alcoliche Il diritto dell’Unione vieta tutte le «indicazioni sulla salute» nell’etichettatura e nella pubblicità per le bevande contenenti più dell’1,2% in volume di alcol, e segnatamente per il vino. A causa dei pericoli inerenti al consumo di bevande alcoliche, il legislatore dell’Unione ha inteso tutelare la salute dei consumatori, le cui abitudini di consumo possono essere direttamente influenzate da siffatte indicazioni. Deutsches Weintor, una cooperativa di viticoltori stabilita a Ilbesheim, nel Land Renania Palatinato (Germania), commercializza vini dei vitigni Dornfelder e Grauer/weißer Burgunder come «edizione leggera», accompagnata dalla menzione « acidità lieve » Sull’etichetta, in particolare, è indicato quanto segue: «grazie al nostro speciale processo protettivo ‘Lo3’ di deacidificazione biologica diventa gradevole al palato». Sul collarino delle bottiglie compare la dicitura «Edizione leggera, facilmente digeribile». Nel listino prezzi il vino è designato con la seguente espressione: «Edizione leggera ‑ acidità lieve /facilmente digeribile». L’autorità incaricata di controllare la commercializzazione delle bevande alcoliche nel Land Renania Palatinato ha contestato l’uso dell’indicazione «facilmente digeribile» con la motivazione che si tratta di «indicazioni sulla salute» vietate dal diritto dell’Unione. Di conseguenza, Deutsches Weintor ha adito i giudici tedeschi al fine di ottenere l’autorizzazione ad usare siffatta indicazione per l’etichettatura e la pubblicità dei suoi vini. Essa ha fatto valere, in particolare, che l’indicazione «facilmente digeribile» non presenta alcun nesso con la salute e riguarda unicamente il benessere generale. Il Bundesverwaltungsgericht (Corte federale amministrativa), investito della controversia in ultimo grado, ha chiesto alla Corte di giustizia di precisare la portata del divieto e, se del caso, di pronunciarsi sulla sua compatibilità con i diritti fondamentali dei produttori e distributori di vini, quali la libertà professionale e la libertà d’impresa. Con la sua sentenza in data odierna, la Corte risponde che il divieto di usare indicazioni sulla salute per la promozione di bevande contenenti più dell’1,2% in volume di alcol ricomprende l’indicazione «facilmente digeribile», accompagnata dalla menzione del contenuto ridotto di sostanze considerate negative da un gran numero di consumatori. Infatti, la nozione di «indicazioni sulla salute» non presuppone necessariamente che venga suggerito un miglioramento dello stato di salute, riconducibile al consumo dell’alimento di cui trattasi. È sufficiente che venga suggerita la mera preservazione di un buono stato di salute nonostante il consumo potenzialmente dannoso. Inoltre, si deve tenere conto non soltanto degli effetti temporanei e passeggeri di un consumo occasionale, ma altresì degli effetti cumulativi di un consumo ripetuto e di lunga durata dell’alimento sulle condizioni fisiche. Nella specie, l’indicazione controversa, suggerendo che il vino viene assorbito e digerito bene, sottintende che il sistema digerente non ne soffra o ne soffra poco e che lo stato di questa sistema rimanga relativamente sano ed intatto, anche in seguito a consumo ripetuto, poiché tale vino è caratterizzato da una ridotta acidità. In tal senso, l’indicazione può suggerire un effetto fisiologico benefico duraturo, consistente nella preservazione di un buono stato del sistema digerente, contrariamente ad altri vini di cui si presume che, in seguito al loro consumo cumulato, provochino effetti duraturi negativi per il sistema digerente e, conseguentemente, per la salute. Pertanto, tale indicazione costituisce un’indicazione sulla salute, vietata. Peraltro, la Corte dichiara che il fatto di vietare, senza alcuna eccezione, ad un produttore o ad un distributore di vini di usare un’indicazione come quella della presente fattispecie, ancorché questa sia di per sé esatta, è compatibile con i diritti fondamentali garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e con il principio di proporzionalità. Infatti, tale divieto stabilisce un giusto equilibrio tra la tutela della salute dei consumatori, da un lato, e la libertà professionale e la libertà d’impresa dei produttori e distributori, dall’altro. La Corte rileva in particolare che tutte le indicazioni riguardanti tali bevande devono essere prive di qualsiasi ambiguità, affinché i consumatori siano in grado di regolare il proprio consumo tenendo conto di tutti i pericoli che ne derivano e, così facendo, di proteggere efficacemente la propria salute. Orbene, l’indicazione controversa, anche ove sia esatta, risulta comunque incompleta. Invero, essa evidenzia una determinata qualità atta a facilitare la digestione, mentre tace sulla circostanza che, indipendentemente dal buon decorso della digestione, pericoli inerenti al consumo di bevande alcoliche non sono comunque affatto esclusi e neppure limitati. Al contrario, mettendo in rilievo unicamente la facile digeribilità, l’indicazione controversa è idonea ad incoraggiare il consumo del vino di cui trattasi e, in definitiva, ad accrescere tali pericoli. Di conseguenza, il divieto assoluto di usare siffatte indicazioni nell’etichettatura e nella pubblicità di bevande alcoliche è necessario per tutelare la salute dei consumatori. (Corte di giustizia dell’Unione europea, Lussemburgo, 6 settembre 2012, Sentenza nella causa C-544/10, Deutsches Weintor eG/land Rheinland-pfalz) |
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GIUSTIZIA EUROPEA: LA POSSIBILITÀ PER UN CONSUMATORE DI CONVENIRE IN GIUDIZIO UN COMMERCIANTE STRANIERO DINANZI AI GIUDICI NAZIONALI NON RICHIEDE CHE IL CONTRATTO CONTROVERSO SIA STATO CONCLUSO A DISTANZA
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Pertanto, il fatto che il consumatore si sia recato nello Stato membro del commerciante per sottoscrivere il contratto non esclude la competenza dei giudici dello Stato membro del consumatore Il diritto dell’Unione mira a tutelare il consumatore, quale parte contraente più debole, nelle controversie transfrontaliere, agevolandone l’accesso alla giustizia, in particolare, mediante una prossimità geografica con il giudice competente. Il consumatore può quindi convenire dinanzi ai giudici nazionali il commerciante con il quale ha concluso un contratto, anche allorché tale commerciante sia residente in un altro Stato membro, e ciò, qualora due condizioni siano soddisfatte: occorre, in primo luogo, che il commerciante eserciti la propria attività commerciale o professionale nello Stato membro di residenza del consumatore ovvero che, con qualsiasi mezzo (ad esempio attraverso l’utilizzo di Internet), egli diriga le sue attività verso tale Stato membro o verso una pluralità di Stati che comprende il medesimo Stato membro e, in secondo luogo, che il contratto oggetto della controversia rientri nell’ambito di detta attività. L’oberster Gerichtshof (Corte suprema, Austria) chiede alla Corte di giustizia se la possibilità di adire i giudici nazionali presupponga, inoltre, che il contratto tra il consumatore ed il professionista sia stato concluso a distanza. La Corte suprema è chiamata a pronunciarsi, quale giudice di ultimo grado, su un´azione proposta dinanzi ai giudici austriaci dalla sig.Ra Mühlleitner, residente in Austria, avverso l’Autohaus Yusufi, impresa con sede in Amburgo (Germania), specializzata nella vendita di automobili. La sig.Ra Mühlleitner chiede la risoluzione del contratto di vendita del veicolo che essa aveva acquistato dall’Autohaus Yusufi per uso privato. Ella era pervenuta all’offerta dell’Autohaus Yusufi grazie alle sue ricerche effettuate su Internet. Tuttavia, per sottoscrivere il contratto di acquisto e prendere possesso dell’automobile, si era recata ad Amburgo. Rientrata in Austria, scopriva che il veicolo presentava taluni vizi di carattere sostanziale. Dal momento che i sigg. Yusufi si rifiutavano di provvedere alla riparazione del veicolo, la sig.Ra Mühlleitner presentava ricorso dinanzi ai giudici austriaci, dei quali i convenuti contestano la competenza giurisdizionale internazionale. Orbene, la Corte suprema considera che le attività commerciali di questi ultimi erano effettivamente dirette verso l’Austria dal momento che il loro sito Internet era accessibile in tale Stato e che vi erano stati dei contatti a distanza (telefonate, messaggi di posta elettronica) inter partes. Tuttavia, essa si chiede se la competenza dei giudici austriaci non presupponga che il contratto sia stato concluso a distanza. Con la sentenza pronunciata in data odierna, la Corte risponde che la possibilità per un consumatore di convenire in giudizio, dinanzi ai giudici del suo Stato membro, un commerciante residente in un altro Stato membro non è subordinata alla condizione che il contratto sia stato concluso a distanza. Se è pur vero che la normativa europea esigeva sino al 2002 che il consumatore dovesse aver compiuto nello Stato membro di residenza gli atti necessari per la conclusione del contratto, la normativa attuale non prevede più detta condizione. Con tale modifica, il legislatore dell’Unione ha inteso assicurare una migliore tutela dei consumatori. Il requisito essenziale cui è subordinata l’applicazione di tale normativa è quello connesso all’attività commerciale o professionale diretta verso lo Stato di residenza del consumatore. Al riguardo, sia l’avvio di contatti a distanza, sia l´ordine di un bene o di un servizio a distanza o, a fortiori, la conclusione a distanza di un contratto stipulato con un consumatore costituiscono indizi di riconducibilità del contratto ad un’attività di tal genere. Pertanto, qualora a) il commerciante residente in un altro Stato membro eserciti la propria attività commerciale o professionale nello Stato membro di residenza del consumatore ovvero, con qualsiasi mezzo, diriga le sue attività verso lo Stato membro medesimo[1] e b) il contratto controverso rientri nell’ambito di detta attività, il consumatore può convenire il commerciante dinanzi ai giudici del proprio Stato membro, anche quando il contratto non sia stato concluso a distanza in quanto sottoscritto nello Stato membro del commerciante. (Corte di giustizia dell’Unione europea, Lussemburgo, 6 settembre 2012, Sentenza nella causa C‑190/11, Daniela Mühlleitner / Ahmad Yusufi, Wadat Yusufi |
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GIUSTIZIA EUROPEA: MISURE INTESE A EVITARE LA PRESENZA INVOLONTARIA DI OGM – MISURE NAZIONALI CHE VIETANO LA MESSA IN COLTURA
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La direttiva 2001/18 regola l’emissione deliberata nell’ambiente nonché l’immissione in commercio degli Ogm come tali o contenuti in prodotti e instaura procedure e criteri armonizzati per la valutazione caso per caso dei rischi potenziali derivanti dall’emissione deliberata nell’ambiente di Ogm nonché una procedura comunitaria di autorizzazione per l’immissione sul mercato. Gli Stati membri possono adottare tutte le misure opportune per evitare la presenza involontaria di Ogm in altri prodotti. La raccomandazione del 23 luglio 2003 affronta la problematica della coesistenza di colture geneticamente modificate, convenzionali e organiche. Questa si riferisce alla possibilità per i conduttori agricoli di praticare una scelta tra colture Gm, produzione convenzionale e biologica. Se in un dato prodotto agricolo destinato a non contenere Ogm la presenza accidentale di Ogm supera la tolleranza stabilita nella normativa comunitaria, è obbligatorio indicarlo nell’etichetta. In questo caso può derivarne una perdita di reddito. Ne consegue che la coesistenza ha attinenza, da un lato, con il potenziale impatto economico della commistione tra colture Ogm o non Ogm e, dall’altro, con l’individuazione di misure di gestione praticabili volte a minimizzare il rischio di commistione e con il costo di tali misure. La direttiva 2002/53/Ce relativa al catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole prevede che le sementi e le piante possano essere commercializzate liberamente all’interno della Comunità dal momento della loro inserzione nel catalogo comune. Una varietà Gm può essere ammessa solo se sono state adottate tutte le misure appropriate atte ad evitare effetti nocivi sulla salute umana e sull’ambiente ed una volta effettuata una valutazione del rischio per l’ambiente La normativa nazionale Il decreto legislativo n. 212/2001 sottopone ad autorizzazione (del Ministro delle politiche agricole e forestali, di concerto con il Ministro dell’ambiente e del Ministro della sanità) la messa in coltura dei prodotti cementieri e dispone misure idonee a garantire che le colture derivanti da semi Ogm non entrino in contatto con le colture derivanti da prodotti semi tradizionali e non arrechino danno biologico all’ambiente circostante. Chi mette in coltura semi di varietà Gm senza l’autorizzazione è punito con l’arresto da sei mesi a tre anni o l’ammenda fino a 100 milioni di lire. Inoltre, il decreto legge n. 279/2004 (in attuazione della raccomandazione del 23 luglio 2003) prevede l’adozione di tali misure di coesistenza con decreto del Ministro delle Politiche agricole, adottato d’intesa con la Conferenza Stato-regioni e province autonome. Il piano di coesistenza è adottato, con proprio provvedimento, da ciascuna regione e provincia autonoma e contiene le regole tecniche per realizzare la coesistenza; fino all’adozione dei diversi piani di coesistenza, le colture transgeniche non sono consentite. I fatti Nel 1998 la Commissione autorizzava la commercializzazione delle linee pure ed ibride del mais Mon 810, su richiesta della Monsanto Europe Sa, che nel 2004 notificava alla Commissione le varietà del mais Mon 810 quali «prodotti esistenti». La Commissione iscriveva 17 varietà derivate dal mais Mon 810 nel catalogo comune. La Pioneer, società produttrice e distributrice, a livello mondiale, di sementi convenzionali e Gm intendendo coltivare le varietà del mais Mon 810 iscritte nel catalogo comune, nel 2006 ne chiedeva l’autorizzazione alla messa in coltura al Ministero delle Politiche agricole. Nel 2008, questo comunicava di non poter procedere all’istruttoria della richiesta nelle more dell’adozione, da parte delle regioni, delle norme idonee a garantire la coesistenza. La Pioneer ha contestato la necessità di un’autorizzazione nazionale per la coltivazione di prodotti quali gli Ogm iscritti nel catalogo comune e l’interpretazione della direttiva 2001/18 secondo la quale la coltivazione di Ogm in Italia non sarebbe consentita fino all’adozione degli strumenti normativi regionali. Il Consiglio di Stato, investito della questione, ha chiesto in sostanza alla Corte, se la messa in coltura di Ogm quali le varietà del mais Mon 810 possa essere assoggettata a una procedura nazionale di autorizzazione, quando l’impiego e la commercializzazione di dette varietà sono autorizzati ai sensi del regolamento n. 1829/2003 e sono state iscritte nel catalogo comune previsto dalla direttiva 2002/53 e se la direttiva 2001/18 consenta a uno Stato membro di opporsi alla messa in coltura sul proprio territorio di tali Ogm nelle more dell’adozione di misure di coesistenza. La Corte osserva anzitutto che l’impiego e la commercializzazione di sementi delle varietà del maïs Mon 810 sono autorizzati: - in quanto costituiscono «prodotti esistenti» (regolamento n. 1829/2003), costituito oggetto di una domanda di rinnovo d’autorizzazione (regolamento n. 641/2004), - sono state iscritte nel catalogo comune (direttiva 2002/53). Il regolamento n. 1829/2003 e la direttiva 2002/53 mirano entrambi a consentire il libero impiego e la libera commercializzazione degli Ogm sull’intero territorio dell’Unione, in quanto autorizzati conformemente al primo e iscritti nel catalogo comune in applicazione della seconda. L’autorizzazione consente la libera circolazione in tutta l’Unione degli alimenti e dei mangimi sicuri e sani, dal momento della loro inserzione nel catalogo comune. Di conseguenza, a partire dalla data di pubblicazione nel catalogo comune, le sementi delle varietà ammesse non sono soggette ad alcuna restrizione di mercato. Allo stato attuale del diritto dell’Unione, uno Stato membro non è libero di subordinare a un’autorizzazione nazionale, fondata su considerazioni di tutela della salute o dell’ambiente, la coltivazione di Ogm autorizzati ed iscritti nel catalogo comune, salvo i casi espressamente previsti dal diritto dell’Unione che non sono oggetto del procedimento principale. Un’interpretazione che consenta agli Stati membri di emanare un tale divieto sarebbe contraria al sistema istituito dal regolamento e dalla direttiva (libera e immediata circolazione dei prodotti autorizzati a livello comunitario e iscritti nel catalogo comune) una volta che le necessità di tutela della salute e dell’ambiente siano state prese in considerazione nel corso delle procedure di autorizzazione e di iscrizione. La direttiva 2002/53 può dar luogo a restrizioni, e perfino a divieti geograficamente delimitati, solo per effetto delle misure di coesistenza realmente adottate in osservanza delle loro finalità. Tale disposizione non consente, pertanto, agli Stati membri di decidere una misura come quella oggetto del procedimento principale la quale, nelle more dell’adozione di misure di coesistenza, vieta in via generale la coltivazione di Ogm autorizzati ai sensi della normativa dell’Unione e iscritti nel catalogo comune. Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara: La messa in coltura di organismi geneticamente modificati quali le varietà del mais Mon 810 non può essere assoggettata a una procedura nazionale di autorizzazione quando l’impiego e la commercializzazione di tali varietà sono autorizzati ai sensi dell’articolo 20 del regolamento (Ce) n. 1829/2003 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativo agli alimenti e ai mangimi geneticamente modificati, e le medesime varietà sono state iscritte nel catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole previsto dalla direttiva 2002/53/Ce del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, emendata con il regolamento n. 1829/2003. L’articolo 26 bis della direttiva 2001/18/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 marzo 2001, sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati e che abroga la direttiva 90/220/Cee del Consiglio, come modificata dalla direttiva 2008/27/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 marzo 2008, non consente a uno Stato membro di opporsi in via generale alla messa in coltura sul suo territorio di tali organismi geneticamente modificati nelle more dell’adozione di misure di coesistenza dirette a evitare la presenza accidentale di organismi geneticamente modificati in altre colture. (Sentenza nella causa C-36/11, Pioneer Hi Bred Italia Srl contro Ministero italiano) |
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GIUSTIZIA EUROPEA: L’IRRIGAZIONE E L’APPROVVIGIONAMENTO DI ACQUA POTABILE COSTITUISCONO RILEVANTI INTERESSI PUBBLICI CHE POSSONO, IN LINEA DI PRINCIPIO, GIUSTIFICARE LA DEVIAZIONE DEL CORSO DI UN FIUME
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Tuttavia, lo Stato membro deve individuare, con precisione, i pregiudizi arrecati dal progetto ai siti interessati e adottare tutte le misure compensative necessarie per tutelare la coerenza globale di Natura 2000. Da più di vent’anni, l´amministrazione greca è impegnata in un progetto che prevede la deviazione parziale dell’Acheloo, un fiume della Grecia occidentale, verso il fiume Pineo, nell´est del paese, e lo sfruttamento del corso superiore di detto fiume in vista della costruzione di alcune dighe. I due fiumi nascono nella catena montuosa del Pindo. L’acheloo, lungo 220 chilometri e largo quasi 90 metri, dopo essere stato arricchito dalle acque di vari affluenti, si getta nel mare nel Golfo di Patrasso. Si tratta di uno dei più grandi bacini idrici del paese e costituisce un importantissimo ecosistema fluviale. Il Pineo attraversa la pianura di Tessaglia e si getta nel Golfo di Salonicco. Tale progetto mira a soddisfare i bisogni di irrigazione della Tessaglia, nonché le esigenze di produzione di energia elettrica e di approvvigionamento di acqua di vari agglomerati urbani di quella regione. Tuttavia, varie amministrazioni locali e alcune associazioni, agendo contro il Ministero dell´Ambiente, hanno chiesto l´annullamento del progetto dinanzi al Consiglio di Stato. Al fine di statuire su tale ricorso, detto giudice ha deciso di sottoporre alla Corte di giustizia varie questioni riguardanti l´interpretazione del diritto dell´Unione. Dopo aver dichiarato che la direttiva quadro sull’acqua e la direttiva sulla valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati (cosiddetta direttiva «Via») non ostano, in linea di principio, al progetto, la Corte interpreta la direttiva habitat. A questo proposito, la Corte ricorda che l´elenco dei siti di importanza comunitaria (Sic) per la regione biogeografica mediterranea – comprendente, per quanto riguarda la zona interessata, vari laghi e il delta del fiume Acheloo – ha acquisito i propri effetti prima dell´adozione della legge che ha approvato il progetto di parziale deviazione del fiume. Inoltre, nel momento in cui la Grecia ha incluso i siti in questione nella propria proposta di elenco di Sic, essi dovevano costituire l’oggetto di misure di salvaguardia idonee a tutelare il loro interesse ecologico a livello nazionale. Pertanto, la Grecia doveva, anche prima dell´entrata in vigore della decisione che ha stabilito l´elenco dei Sic, vietare gli interventi che rischiassero di compromettere seriamente le caratteristiche ecologiche dei siti suddetti. Dopo la notifica di tale decisione allo Stato membro interessato, la procedura di valutazione deve garantire che il progetto venga autorizzato nella misura in cui esso non arreca pregiudizio all´integrità del sito. Tale procedura deve essere concepita in modo tale che le autorità competenti possano avere la certezza che un progetto sarà privo di effetti pregiudizievoli per l’integrità del sito. Pertanto, un progetto di deviazione di acque non necessario alla conservazione di una zona di protezione speciale (Zps), ma idoneo ad avere incidenze significative su quest’ultima, non può essere autorizzato in assenza di dati attendibili e attuali relativi all’avifauna di questa zona. Inoltre, nel caso in cui un progetto debba essere realizzato – per motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale o economica – malgrado le conclusioni negative della valutazione dell´incidenza sul sito, e in assenza di soluzioni alternative, la conoscenza di tale incidenza è indispensabile per bilanciare i suddetti motivi di interesse pubblico con i pregiudizi arrecati al sito, finalizzato a stabilire le misure compensative. Infatti, lo Stato membro deve adottare ogni misura compensativa necessaria per garantire la tutela della coerenza globale di Natura 2000. Esso dovrà tener conto dell´estensione della deviazione di acque e dell´entità dei lavori che ne derivano e individuare dunque, con precisione, i pregiudizi arrecati dal progetto al sito di cui trattasi. Dunque, l´irrigazione e l´approvvigionamento di acqua potabile costituiscono un «rilevante interesse pubblico», che può, in linea di principio, giustificare un progetto di deviazione di acque in assenza di soluzioni alternative. Per contro, per giustificare la realizzazione di un progetto di deviazione di acque che reca pregiudizio all´integrità di un Sic ospitante un tipo di habitat naturale e/o una specie prioritari, possono essere fatte valere soltanto considerazioni correlate alla salute delle persone e alle conseguenze positive di primaria importanza per l’ambiente. L´approvvigionamento di acqua potabile rientra, in linea di principio, nel novero delle considerazioni correlate alla salute delle persone. Quanto all´irrigazione, non può escludersi che essa possa, in alcune circostanze, avere conseguenze positive di primaria importanza per l´ambiente. Altri motivi imperativi di interesse pubblico possono essere fatti valere soltanto previo parere della Commissione. Spetta al giudice del rinvio valutare se, nel caso di specie, il progetto arrechi effettivamente pregiudizio all´integrità di uno o più Sic ospitanti un tipo di habitat naturale e/o una specie prioritari. Infine, la Corte conferma che la direttiva habitat, interpretata alla luce dell´obiettivo dello sviluppo sostenibile, autorizza, per i siti della rete Natura 2000, la trasformazione di un ecosistema fluviale naturale in un ecosistema fluviale e lacustre antropizzato, a condizione, in particolare, che lo Stato adotti tutte le misure compensative necessarie a garantire la tutela della coerenza globale di Natura 2000. Infatti, lo scopo principale della direttiva è di favorire il mantenimento della biodiversità, tenendo conto al tempo stesso delle esigenze economiche, sociali, culturali e regionali. Il mantenimento di tale biodiversità può, in alcuni casi, richiedere la promozione di attività umane. (Corte di giustizia dell’Unione europea, Lussemburgo, 11 settembre 2012, Sentenza nella causa C-43/10, Nomarchiaki Aftodioikisi Aitoloakarnanias e a. / Ypourgos Perivallontos, Chorotaxias kai Dimosion ergon e a.) |
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GIUSTIZIA EUROPEA: IL TRIBUNALE ANNULLA LA DECISIONE DELLA COMMISSIONE CHE HA APPROVATO TUTTE LE MISURE ADOTTATE DALLA FRANCIA A FAVORE DELLA SNCM
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La Commissione è incorsa in errori manifesti di valutazione constatando, da un lato, che talune misure del piano di ristrutturazione del 2002 costituivano aiuti di Stato compatibili con il mercato comune e, dall’altro, che le misure del piano di privatizzazione del 2006 non costituivano aiuti di Stato. La Société Nationale Corse‑méditerranée («Sncm») è una compagnia di navigazione francese che garantisce collegamenti regolari dalla Francia continentale, in particolare verso la Corsica. Dal 1976 la Sncm assolveva taluni obblighi di servizio pubblico di trasporto dietro corresponsione di una compensazione finanziaria da parte dello Stato francese. Nel 2002 detta società era partecipata al 20% dalla Société nationale des chemins de fer («Sncf») e all’80% dalla Compagnie générale maritime et financière («Cgmf»), entrambe interamente controllate, a loro volta, dallo Stato francese. Al momento dell’apertura del suo capitale, nel 2006, il controllo della Sncm è stato rilevato per il 60% da società private (Capital Partners e Veolia), mentre il 25% del suo capitale rimaneva in possesso della Cgmf. Con decisione dell’8 luglio 2008, la Commissione ha ritenuto che il conferimento di capitale effettuato dalla Cgmf a favore della Sncm nel 2002, per un importo di Eur 76 milioni (53,48 milioni a titolo di obblighi di servizio pubblico e il saldo di Eur 22,52 milioni a titolo di aiuti alla ristrutturazione) fosse compatibile con il mercato comune. Parimenti, la Commissione ha considerato che le misure del piano di privatizzazione del 2006 non costituivano aiuti di Stato. Tali misure comprendevano una ricapitalizzazione della Sncm per un importo di Eur 158 milioni, un ulteriore conferimento di capitale da parte della Cgmf per un importo di Eur 8,75 milioni e, infine, un anticipo in conto corrente, per un importo di Eur 38,5 milioni, volto a finanziare l’attuazione di un eventuale piano sociale da parte degli acquirenti. La Corsica Ferries France Sas, principale concorrente della Sncm, ha proposto ricorso dinanzi al Tribunale per ottenere l’annullamento di tale decisione. In primo luogo, il Tribunale constata che la Commissione è incorsa in un errore manifesto di valutazione approvando la ricapitalizzazione della Sncm in quanto misura non costitutiva di un aiuto di Stato. Secondo il Tribunale, per stabilire se la privatizzazione della Sncm per un prezzo negativo di vendita di Eur 158 milioni comprendesse elementi di aiuto di Stato, la Commissione era tenuta a valutare se, in circostanze simili, un investitore privato avrebbe potuto essere indotto a effettuare conferimenti di capitale di tale consistenza nell’ambito della vendita di detta impresa oppure avrebbe optato per la liquidazione della stessa. Secondo la Commissione, il costo ipotetico della liquidazione della Sncm, al quale doveva essere rapportato il costo della ricapitalizzazione, si limitava al costo delle indennità integrative di licenziamento, al di là degli oneri di natura strettamente legale e contrattuale, che sarebbero necessariamente versati ai dipendenti. La Corsica Ferries contesta il fatto che un investitore privato accorto avrebbe versato siffatte indennità. Secondo il Tribunale, in un’economia sociale di mercato, un investitore privato accorto non può prescindere, da un lato, dalla propria responsabilità nei confronti di tutte le parti interessate alle vicende dell’impresa e, dall’altro, dall’evoluzione del contesto sociale, economico e ambientale in cui persegue il proprio sviluppo. Il versamento di indennità integrative di licenziamento può quindi, costituire, in via di principio, una prassi legittima e opportuna, secondo le circostanze del caso di specie, nell’intento di favorire un dialogo sociale pacato e di preservare l’immagine del marchio di una società. Tuttavia, in assenza di qualsiasi razionalità economica, ancorché a lungo termine, la presa in considerazione dei costi che vanno al di là degli oneri di natura strettamente legale e contrattuale deve essere considerata come aiuto di Stato. Orbene, il Tribunale constata che la Commissione ha omesso di definire le attività economiche dello Stato francese rispetto alle quali occorre valutare la razionalità economica delle misure di cui trattasi. Inoltre, la Commissione non ha prodotto elementi oggettivi e verificabili sufficienti a dimostrare che il versamento di indennità integrative di licenziamento costituirebbe una prassi sufficientemente consolidata tra gli imprenditori privati oppure che il comportamento dello Stato francese nella fattispecie sarebbe stato motivato da una ragionevole probabilità di trarne un vantaggio materiale indiretto, ancorché a lungo termine (evitando, ad esempio, un deterioramento del clima sociale nell’ambito delle imprese pubbliche). In secondo luogo, quanto al conferimento di capitale della Cgmf per un importo di Eur 8,75 milioni, effettuato in concomitanza con il conferimento degli acquirenti privati, il Tribunale considera che la Commissione non ha tenuto conto di tutti gli elementi pertinenti nella propria valutazione della comparabilità delle condizioni di investimento. In terzo luogo, il Tribunale constata che la Commissione è incorsa in un errore manifesto di valutazione approvando gli aiuti alla persona per un importo di Eur 38,5 milioni in quanto misura non costituente un aiuto di Stato. Infatti, la mera circostanza che una misura persegua un fine sociale non è sufficiente a sottrarla senz’altro alla qualificazione come aiuto di Stato. In quanto idonei a creare un vantaggio economico per la Sncm, tali aiuti costituivano un aiuto di Stato. Infine, il Tribunale constata che l’analisi della Commissione relativa al saldo di ristrutturazione di Eur 22,52 milioni, non è validamente suffragata là dove si fonda sulla circostanza che le misure previste nel piano del 2006 sono prive di elementi di aiuti di Stato. Di conseguenza, il Tribunale annulla la decisione della Commissione. (Tribunale dell’Unione europea, Lussemburgo, 11 settembre 2012, Sentenza nella causa T‑565/08, Corsica Ferries France / Commissione) |
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GIUSTIZIA EUROPEA: IRREGOLARITÀ O NEGLIGENZE IMPUTABILI ALLE AMMINISTRAZIONI O AGLI ORGANISMI DEGLI STATI MEMBRI |
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Le regole sul finanziamento della politica agricola comune hanno incaricato gli Stati di accertare se le operazioni finanziate dal FEAOG fossero reali e regolari, per prevenire e perseguire le irregolarità e recuperare le somme perse a seguito di irregolarità o di negligenze. La Commissione delle Comunità europee decideva in merito alle spese non ammesse al finanziamento comunitario qualora constatasse che esse non erano state eseguite in conformità alle norme comunitarie. Nel 2003 la Commissione ha istituito la «task force “recupero”» («TFR») con il compito di esaminare i casi di irregolarità di importo superiore a EUR 500 000 e non ancora liquidati. Questa ha effettuato un controllo in loco presso gli organismi pagatori italiani, l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA) e il Servizio autonomo interventi nel settore agricolo (SAISA). Con decisione 2006/678/CE del 3 ottobre 2006, la Commissione ha posto a carico dell’Italia le conseguenze finanziarie relative a 157 casi di irregolarità, per un importo complessivo pari a EUR 310 849 495,98. L’Italia ha chiesto al Tribunale UE di annullare la decisione nella parte che riguarda l’esclusione dal finanziamento comunitario e l’imputazione a carico del suo bilancio, nei 105 casi di irregolarità oggetto del ricorso, facendo valere errori asseritamente commessi dalla Commissione e giustificazioni di ordine interno. In merito all’azione della Commissione, il Tribunale osserva che nel contesto del procedimento di liquidazione, la Commissione è tenuta a verificare i conti presentati dallo Stato. La decisione impugnata concerne complessivamente 306 casi. Su di un totale di 4 200 casi che riguardano l’Italia, 431 sono stati verificati dalla Commissione e, fra questi, il procedimento di liquidazione è stato portato a termine in 349 casi. Il TUE rammenta che l’obbligo di diligenza generale a carico degli Stati UE è precisato, per quanto riguarda il finanziamento della politica agricola comune, nei regolamenti specifici. Tale obbligo implica che gli Stati membri debbano prontamente adottare i provvedimenti destinati a rimediare a eventuali irregolarità. Dopo un certo periodo di tempo, infatti, il recupero delle somme indebitamente versate può essere complicato o divenire impossibile (ad esempio a causa della cessazione delle attività o dello smarrimento di documenti contabili). Le autorità nazionali non possono giustificare l’inadempimento dei loro obblighi di rettificare con celerità le irregolarità commesse, facendo valere lungaggini delle procedure amministrative o giudiziarie interne. Ne consegue che le giustificazioni addotte dall’Italia relative alla lunghezza dei contenziosi di carattere civile e amministrativo dinanzi ai giudici italiani devono essere respinte. Il Tribunale dichiara e statuisce che il ricorso è respinto nella sua interezza. (TUE, sentenza nella causa T-394/06, Italia/Commissione) |
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GIUSTIZIA EUROPEA: IL TRIBUNALE UE CONFERMA L´OBBLIGO DI RECUPERARE LE ACCISE SUL GASOLIO PER RISCALDARE LE SERRE
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Il Tribunale UE conferma l´obbligo di recuperare le accise sul gasolio per riscaldare le serre. Nel 2000, l´Italia ha stabilito che per il periodo 3 ottobre-31 dicembre 2000, i diritti di accisa sul gasolio utilizzato per il riscaldamento delle serre corrispondessero al 5% di quelli applicabili al gasolio utilizzato come carburante. Con le leggi finanziarie 2001, 2002 e 2003 l´Italia ha disposto un’esenzione totale dalle accise sul gasolio utilizzato per il riscaldamento delle serre con riguardo, rispettivamente, al periodo 1° gennaio 2001 - 30 giugno 2001 e agli anni 2002, 2003 e 2004. Nel 2009 la Commissione ha adottato la decisione 2009/944/CE, qualificando come aiuti di Stato le misure di esenzione dalle accise sul gasolio utilizzato per il riscaldamento delle serre – per gli anni 2001-2004 – adottate dall’Italia a favore dei serricoltori. Essa ha considerato che tali misure, finanziate con risorse statali favorivano talune imprese (le aziende del settore dell’agricoltura e, in particolare, quelle che coltivano sotto serra) e potevano incidere sugli scambi e falsare la concorrenza, vista la posizione dell’Italia nella produzione agricola sotto serra. La Commissione ha inoltre ingiunto all´Italia di recuperare presso i beneficiari le somme corrispondenti agli aiuti concessi (comprensive degli interessi, dalla data in cui erano state poste a disposizione dei beneficiari alla data del loro effettivo recupero). L´Italia ha quindi impugnato la decisione della Commissione dinanzi al TUE. Nella sua sentenza odierna, il Tribunale considera in sostanza che l´Italia non ha dimostrato, né con i dati forniti alla Commissione, né quelli forniti in allegato al ricorso, che le esenzioni dalle accise si siano rese necessarie a causa di un mutamento significativo delle condizioni economiche. Questi dati mostrano unicamente le variazioni del prezzo al consumo del gasolio da riscaldamento fra il 1999 e il 2004 e le variazioni dell’importo delle accise sul gasolio nel medesimo periodo. Essi non provano che l’aumento del prezzo del gasolio abbia posto i serricoltori italiani in una situazione concorrenziale particolarmente difficile rispetto ai loro concorrenti, in particolare ai serricoltori degli altri Stati membri.Il Tribunale respinge quindi il ricorso dell´Italia e conferma la decisione della Commissione. (TUE, Sentenza nella causa T-379/09, Italia/Commissione) |
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